Dal Falerno del Massico di Villa Matilde un sorso di Campania Felix

Dal Falerno del Massico di Villa Matilde un sorso di Campania Felix

Degustando
di Daniel Thomases
02 dicembre 2008

La degustazione verticale di Falerno del Massico Camarato svoltasi all’ultima edizione di Vinitaly nell'articolo di Daniel Thomases per L'Arcante N°6...

Il 2008 non è stato un’annata felicissima né per la Campania in generale né per la provincia di Caserta in particolare: prima la crisi dei rifiuti, che ha gettato una luce sinistra sulla gestione del territorio da parte di tutta la classe politica e poi le guerre camorristiche – fra bande di delinquenti e fra questi ultimi e tutta la società civile – che hanno ricordato il ricatto permanente che la stragrande maggioranza degli onesti subisce giornalmente dai violenti. Altro che Campania felix. La regione, però, può sicuramente consolarsi delle affermazioni dei propri vini, non soltanto i migliori – e di gran lunga –di tutto il Mezzogiorno, ma proposte che confermano che la Campania ha tutte le possibilità di competere con il Piemonte e la Toscana come fonte dei maggiori vini d’Italia.
Constatazione che ripristinerebbe l’opinione generale del mondo antico che sentenziò
che il più grande vino di tutti fu il Falerno. Basti pensare a Marziale, che non solo voleva bere i baci lasciati nella coppa dell’amante ma anche baciare labbra umide di vecchio Falerno (progetto condivisibile, soprattutto se si trattasse di labbra di una campana Doc tipo Luisa Ranieri o Serena Autieri). E nessuno può dimenticare la scena descritta da Petronio nel “Satyricon”, quando Trimalchio – che chiaramente voleva dimostrare le grandi risorse di cui disponeva - tirò fuori per gli ospiti del banchetto anfore di vetro con etichette affisse al collo, sulle quali si poteva leggere “Falernum Opimianum annorum centum”, un Falerno di cento anni. E il “Falernum” fu – ed è tuttora – un vino del Casertano. Se fino a poco più di una dozzina di anni fa, la Campania viticola significava, essenzialmente, i grandi vini dell’Avellinese, all’ora attuale è scontato che le altre province
abbiano pure molto da dire e da dare. E nessuna più di Caserta, i cui vini migliori ormai
competono molto bene con i vari Docg di Avellino per la supremazia regionale. Ma con uve alle volte molto diverse: se gli avellinesi possono proporre le varietà delle loro tre Docg (aglianico, Fiano, greco), i casertani possono rispondere con un aglianico di caratteristiche molto diverse (più fruttato e rotondo di fronte all’austera potenza di Avellino), e pure con falanghina, pallagrello rosso e bianco, casavecchia e piedirosso, uva quest’ultima che, sinora, non ha data risultati strepitosi nelle zone all’interno della Campania. Ma che complessa e completa l’aglianico in tanti vini di punta casertani, aggiungendo una gamma aromatica che rende il maestoso aglianico ancora più intrigante
e convincente.
Queste riflessioni sono state ispirate dalla degustazione verticale organizzata da Villa Matilde all’ultima edizione di Vinitaly. Il vino proposto fu il Camarato (proposto in passato anche con il nome Vigna Camarato, pratica ora più difficile a causa di regole comunitarie che non valgono la pena di spiegare in modo approfondito in questa sede – basti sapere che, per abbinare ad un vino il nome della vigna di provenienza, bisogna che essa sia chiaramente identificata sulle mappe catastali, non sempre né chiare né aggiornate nelle allegre amministrazioni del territorio in Italia). Per quanto riguarda l’azienda, è imprescindibile sottolineare il ruolo trainante che ha avuto nella propria provincia e Doc: per tanti anni ha prodotto l’unico Falerno veramente degno di nota in un momento in cui il vino rischiava quasi di sparire: nel 1997, ad esempio, c’erano precisamente sei produttori iscritti all’albo della Doc, con trenta ettari di vigneto, e una sola denuncia di produzione per un totale di 564 ettolitri di vino, l’equivalente di settantamila bottiglie. Una miseria, in poche parole. Se la denominazione ora è riuscita a conquistarsi una certa visibilità è sicuramente grazie agli sforzi della famiglia Avallone, i proprietari di Villa Matilde, rappresentata attualmente da Maria Ida e Salvatore (“Tani”) Avallone.
Ma il lavoro del padre, Francsco Paolo Avallone, che purtroppo non ho mai avuto il piacere di conoscere, fu fondamentale per la ricostituzione del vigneto Falerno, devasta della fillossera a fine Ottocento: con l’aiuto dell’Università di Napoli, e dopo un decennio di ricerca, furono individuate una ventina di piante adatte a ricreare il vino degli antichi fasti romani. Grazie alla loro moltiplicazione e successiva messa a dimora la tenuta si trovò in grado di offrire il vino che aveva stupito il mondo antico, con una produzione che ormai è arrivato, fra il Falerno del Massico base e il Camarato, a circa 180.000 bottiglie annue.
La proprietà è piuttosto insolita in una regione dove, normalmente, i migliori vini provengono da vigneti di una certa altitudine. Villa Matilde si trova, almeno per quanto riguarda la produzione vinicola (ci sono pure il seminativo e gli oliveti), ad una quota piuttosto bassa, fra cinquanta e centocinquanta metri. Il mare dista poco, e questi due fattori – altitudine e influenza marina – fanno si che la maturazione dell’aglianico e del piedirosso (l’ottanta e il venti percento, rispettivamente, il classico taglio della denominazione) si completi con notevole anticipo rispetto persino alla vicinissima azienda Gagliardi, produttrice di Terra di Lavoro, vino che sicuramente non necessita di presentazione qui. E l’anticipo aumenta ancora nei confronti delle zone classiche dell’entroterra regionale, soprattutto il Taurasi. Gli Avallone, infatti, hanno il piacere e il privilegio di vinificare l’aglianico in tre zone separate – il Casertano, con il Falerno; il Beneventano, con l’aglianico Campano Igt; e il Taurasi, prodotto nella tenuta di Altavilla - con tutte le diversità che ne conseguono causa suolo, altitudine e microclimi molto diversi fra i loro. In un futuro, purtroppo non prossimo, poiché la produzione di Taurasi è iniziato solo recentemente, sarà possibile abbinare a degustazioni verticali di annate altre orizzontali in base alle diverse realtà regionali, occasioni non solo molto divertenti ma anche molto istruttive allo stesso tempo.
Le tecniche di vinificazione del Falerno, comunque, sono cambiate negli anni rispetto ai primi vini offerti nella degustazione verticale a Vinitaly, il 1992 e il 1995, realizzati dall’allora enologo Clemente Vassanelli, un veneto, quando le fermentazioni furono piuttosto brevi e il vino finiva i propri zuccheri “in bianco”, cioè in assenza delle vinacce (bucce e vinaccioli). Protocollo di lavoro che mirava, ovviamente, a ridurre l’astringenza, alle volte, dell’aglianico, vitigno tosto come pochi mai. Dal 1996, con l’arrivo di Riccardo Cotarella, le fermentazioni si sono prolungate, e sempre in presenza delle bucce, e il lavoro aziendale si è focalizzato sul vigneto, con il chiaro obiettivo di risolvere le problematiche della tannicità portando le uve ad una maturazione più completa atta a dare vini di maggiore morbidezza. Sempre, però, nel contesto di un vino caratterizzato da un’importante struttura e concentrazione. Il vino è affinato nei piccoli fusti, ma un impiego molto accorto e l’intensità e la potenza del vino da affinare garantiscono che il legno non sia mai né invadente né prevaricante. Negli ultimi anni si è pure raggiunti, insieme all’ampiezza e densità che non possono mancare in un Falerno, ad una notevole eleganza e personalità, caratteristiche che spiegano e giustificano non solo la grande fama del Falernum nel mondo antico ma anche l’importante spazio che questi e altri vini della denominazione si stanno creando sui maggiori mercati nazionali e internazionali.
Prova che il tempo è davvero galantuomo e che chi la dura la vince.

La Degustazione

1992
Rosso rubino, ancora vivace, più chiaro al bordo, uno sviluppo assolutamente normale
per un vino di più di quindici anni, frutto di un’annata per nulla facile (il 1992,
soprattutto per le varietà a bacca rossa, è stata generalmente disastrosa sia in Italia che
in Francia; il carattere molto tardivo dell’aglianico, in questo caso, ha giocato a favore
del vino, permettendo una selezione di uve ragionevolmente mature e in buono stato
sanitario). Aromi pepati, di mora e di prugna, l’ultima sensazione un’indicazione di
evoluzione – il vino, con ogni probabilità, non ha grandi margini di miglioramento
aromatico futuro, ma la dolcezza e freschezza sono, ambedue, positive. Palato di
importante struttura, molto stratificato, di nuovo le note di pepe nero ed erbe, tutti e
due il patrimonio aromatico del piedirosso, lungo e sostenuto al finale, vino ancora in
piede e. per il millesimo, un importante risultato.
90/100

1995
Rubino scuro e brillante, notevolmente più pieno del 1995, frutto di un’annata fresca
che ha beneficiato di un ciclo di maturazione molto lungo, sempre vantagioso sul
piano della tonalità. Dolce e leggermente balsamico al naso, note di menta e eucalipto
insieme ai frutti a bacca rossa, indicazione che le ultime fasi della maturazione si sono
concluse in un’epoca piuttosto fresca e, infatti, i mesi di settembre e ottobre, almeno
per quanto riguarda gli ultimi quaranta giorni, sono stati molto soleggiati ma non
particolarmente caldi. Solido e di buona profondità in bocca, ancora leggermente austero,
muscolare ma senza il garbo e la rotondità – pur nel contesto di un vino sempre
piuttosto tannico – dell’annata più completa, assicurata la classica longevità del Falerno,
ma il carattere altezzoso e poco inclino ai compromessi dell’aglianico difficilmente si
modificherà col tempo.
89/100

1998
Rosso rubino con riflessi nerastri, limpido ma tuttora quasi impenetrabile. Molto potente al naso, intense e penetranti le note di mora, di erbe e di spezie, classiche le sensazioni di roccia vulcanica e di pepe del piedirosso che, in questo millesimo, raggiunse il 20% poi diventato canonico. Denso e lungo al palato, ma con una nuova morbidezza e velluto di tannino rispetto al passato, maggiori pure la setosità della trama e la dolcezza del frutto, in primis le note di sottobosco. Non ancora completo, in attesa di ulteriore morbidezza e sfericità, molta la materia, tuttavia, e del tutto nuova la pastosità del finale e del retrogusto. Primo vino del nuovo corso, e sicuramente un conseguimento significativo in un’annata di livello medio-alto, ma normalmente, in Italia, non altissimo.
92/100

1999
Rubino nerastro, solido e minaccioso, grande la quantità e qualità della materia colorante. Aromi di sottobosco, terra bagnata, tartufo e radici insieme con la mora e il lampone, naso ricco e complesso con note di catrame sulla continuazione. Molto intenso e lungo il corpo, con un ritorno delle spezie, il goudron e la liquerizia, piena e calda l’estrazione, solido ma anche levigato il corpo, alta la concentrazione e intensa della struttura, vino quasi carnoso con un peso e una densità che confermano la razza superiore, ancora in fasce e con lunghissima vita davanti, ancora un salto notevole rispetto ai millesimi precedenti.
94/100

2000
Rosso fresco e vivo, minore la concentrazione colorante e la pienezza all’unghia, segni di un’annata molto calda, e il 2000, infatti, ha subito temperature molto elevate nel mese fra metà agosto e metà settembre, momento critico nella formazione degli antociani. Naso contraddistinto dalla presenza di note speziate, erbacee e vulcaniche, più alcolico del solito e meno fruttato, tutto logico viste le alte temperature delle ultime fasi di maturazione. Possente e lungo in bocca ma, allo stesso tempo, più asciutto per quanto riguarda la qualità dei tannini, più ruvidi e meno levigati, buona la intensità, meno soddisfacente dal punto di vista del garbo e della grazia, qualche possibilità di futuro arrotondamento. Ma i vini di annate torride difficilmente raggiungono l’equilibrio di millesimi più regolare come il 1999, il 2001 e il 2004.
90/100

2001
Rubino scurissimo e impenetrabile, più inchiostro che vino. Profumi di perfetta maturazione, frutti a bacca rossa dolcissimi ma comunque di grande freschezza, note di caffè e cacao, importante la complessità con sensazioni di catrame e minerali al finale aromatico. Molto ampi e solidi i sapori, ricchi e pieni ma con un’inconfondibile eleganza e una trama molto carezzevole, palato profondo nonchè molto lungo e sostenuto, superiore l’armonia e l’equilibrio da ogni punto di vista, vino di classe e di razza, inconfondibile il carattere territoriale e varietale ma con un’espressività in più conferita dalla grande annata.
95/100

2003
Rosso solido e profondo, tonalità molto importante per un’annata fra le più torride delle ultime cento. Caldo, comunque, il naso, sentito l’alcool insieme con note di cioccolato e catrame, ancora percettibile il contributo del legno con qualche suggerimento di vaniglia e cannella, meno sentito le sensazioni di erbe e terra vulcanica tipiche del piedirosso. Denso e rotondo in bocca, molto meno asciutto e astringente del Camarato del precedente millesimo molto caldo, il 2000, più setoso il tannino, più levigata la trama, più alcolico e caldo, tuttavia, del 1999 o del 2001, meno completo e bilanciato, ma indubbiamente un successo in un contesto di sicura difficoltà. Segno che l’azienda ha imparato bene come gestire il nuovo clima instauratosi nel nuovo millennio.
93/100

2004
Rosso rubino con ampissimi riflessi nerastri, tonalità ben diversa da quella del 2003.
Molto eleganti i profumi, completi e complessi con il ventaglio intero di mora e lampone,
goudron, liquerizia e minerali vulcanici, qualche suggerimento balsamico al finale
che rispecchia un millesimo di ciclo lungo e fresco nelle fasi terminali, anche se l’austerità
del 1995 e del tutto assente in questo vino. Grande volume in bocca ma levigato
e vellutato, materia molto ricca ma senza la minima asperità, pieno e pastoso, dolce il
frutto, trama seducente ma con un’intensità e lunghezza che promettono un’importante
longevità, potenza quasi mascherata dalla superiore finezza dell’estrazione, il Camarato
più elegante della serie anche se la ricchezza e l’esuberanza del 2001 daranno filo da
torcere a questo vino nei prossimi decenni: sarà davvero una bella battaglia.

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