Mattia Vezzola. «Da solo? Sei sempre perdente. Dobbiamo promuoverci insieme sapendo prendere le misure»

Mattia Vezzola. «Da solo? Sei sempre perdente. Dobbiamo promuoverci insieme sapendo prendere le misure»

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
29 dicembre 2021

Ha vinto premi a ripetizione per anni e, ne siamo certi, la sua bacheca a Moniga del Garda ha ancora spazio. Quando qualsiasi professionista del mondo del vino o anche semplice appassionato sente pronunciare il suo nome...

Tratto da Viniplus di Lombardia di Lombardia - N° 21 Novembre 2021

...non può non pensare alle bollicine Metodo Classico, che ha creato in Franciacorta per tanti anni e continua a costruire maniacalmente nella sua azienda in Valtènesi.
Eppure se ti parla di rosato e di groppello gentile, si accende un scintilla nello sguardo e, con inguaribile ottimismo, comincia a progettare e pensare al futuro. «Quando aravamo i campi e io ero poco più di un ragazzino, il linguaggio che si usava da queste parti era: “il groppellino, il chiarettino, il vino per il pane e salame”. E io mi domandavo: ma come è possibile che una viticoltura di così alta qualità costruita con una logica provenzale e bordolese faccia vini solo di così medio profilo?».

E CHE RISPOSTA RIUSCISTI A DARTI IN QUEL PERIODO?
Noi qui nasciamo con una viticoltura dedicata al rosé, di origine provenzale, piantiamo le vigne per fare rosato, che non è un ripiego. Nel Dopoguerra ci fu però l’abbandono del senso della qualità a scapito dell’economia e si cominciò a produrre di più. Questo vitigno, il groppello gentile, uno dei più nobili d’Italia e molto simile al pinot nero, se aumenti la produzione un po’ di più, non matura. Se tenti di fare 100 quintali per ettaro, a fine ottobre o inizio novembre l’uva è ancora mezza verde. Quindi i vini tendono a banalizzarsi.

QUANDO LO HAI CAPITO?
A metà degli anni ’70. Però a quell’epoca si parlava poco di rosati. Il rosé era un’appendice malata dell’enologia. Non riuscivo a trovare la tecnologia adatta per valorizzare i rosati anche perché venivano fatti con le uve meno preziose. Non avevi remunerazione, dovevi venderlo entro marzo, aprile, quindi era meglio fare i rossi.

E COSA HAI FATTO?
Feci dei viaggi di ricerca. Capii che mettere le mani sulle uve destinate ai rosé è come metterle nel cachemire e sulla seta pura. Tessuti raffinati, ma fragili. Mi si è aperta una finestra e ho capito che dovevo conservare la filosofia che appartiene alla tradizione, ma mettendola al servizio della tecnologia moderna. Dimezzai la quantità in vigna riportando la viticoltura 50 anni indietro: avevo viti vecchie e quindi un patrimonio straordinario. Io non credevo nel groppello da giovane, poi mi resi conto che stavo buttando via dei bachi da seta.

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QUALI ALTRI ACCORGIMENTI?
Per avere un’estrazione olfattiva significativa devi avere un mosto a contatto con le bucce e questo lo puoi fare con uve di qualità. Il problema era estrarre dall’acino tutti i precursori aromatici, gustativi, i sali, ma non il colore. Questo è fondamentale per avere rosé raffinati e un minimo longevi. Volevo produrre un frutto che mi desse un vino con identità e carattere, che potesse competere nel mondo e rappresentasse la Valtènesi perché questo è un luogo posizionato a nord, ma con un clima mediterraneo. Qui la potenza non c’è, ma vigne destinate a fare vini raffinatissimi.

TI AVRANNO DATO DEL MATTO IN UN’EPOCA IN CUI I ROSATI ERANO DEI SEMPLICI VINELLI
Di più! Volevo rompere il pregiudizio che il rosato andasse bevuto entro settembre. Iniziai questo percorso nel 1992 facendo il Molmenti, ma non riuscivo a far fermentare dei rosé in botte e poi a lasciarli un anno di bottiglia. Mi dicevano: “Ma devi venderlo proprio a me questo vino!”

NON POTEVI CONFRONTARTI CON NESSUNO SUL TERRITORIO?
No, nessuno e neanche in Italia. Il cambio di passo del Molmenti arriva nel 2012 dopo vent’anni, quando ho capito dove mettere le mani. Da lì la svolta.

E DOVE DOVEVI METTERLE?
Sulle temperature di vendemmia e di macerazione: ho dovuto cambiare tutto il mio modo di vedere. E prima è successa un’altra cosa ancora.

COSA?
Vado a mangiare le beccacce da un mio ex compagno di classe a Cornedo Vicentino. La moglie aveva un’enoteca e mi regala un rosé della Rioja Alta di un tale produttore che si chiama Lopez de Heredia. Eravamo nel 2009. Torno a casa, metto nel ghiaccio il vino e mentre stappo la bottiglia mi accorgo dell’annata: 1999! Chiamo il mio amico e gli dico: “Domenico? Grazie, ma mi hai regalato un rosé di 10 anni!” Mi fa. “È appena uscito”. E io che pensavo di fare avanguardia! In quel momento ebbi il coraggio di passare a fare due anni di élevage in botte e due anni di bottiglia, che diventeranno tre il prossimo anno.

QUINDI HAI DEFINITIVAMENTE TROVATO LA FORMULA PER FARE IL GRANDE ROSATO CHE AVEVI IN MENTE?
No.

COSA MANCA ANCORA?
Nella vita, se hai qualcosa da dire e lavori con passione, quando pensi di essere arrivato e di poterti godere quello che hai realizzato, ti capita sempre un’occasione alla quale non puoi rinunciare che ti rimette di nuovo in pista. Incontrai l’enologo di Mouton Rothschild e, parlando di rosé, mi disse che i grandi rosé nascono da cuvée. “Devi gestire la vigna come se facessi un Franciacorta”.

Mattia VezzolaTU DOVRESTI SAPERNE QUALCOSA IN EFFETTI
Io ho 35 vigne destinate al rosé e 47 serbatoi di acciaio inossidabile che uso in gran parte per il Metodo Classico per vinificare separatamente chardonnay e pinot nero per ogni vigna, come è nello stile dei grandi Franciacorta, ma mai avrei pensato che per fare un rosé di qualità avrei dovuto applicare la stessa filosofia. Sto creando una nuova cantina dove sposterò tutte le bollicine e ho preso 30 serbatoi di piccole dimensioni. Quindi con 77 serbatoi ho cominciato a fare la selezione per vigna anche per il rosato.

IL RISULTATO?
Il cambiamento è stato immediato, non solo per la qualità, ma perché riesci a mantenere uno stile aziendale, come nel Metodo Classico.

IL TUO ESEMPIO SUI ROSATI QUI IN VALTÈNESI È STATO SEGUITO?
Sì, indubbiamente. Negli ultimi anni però c’è stato un grande avvicinamento dei produttori verso questo territorio, perché si è trovata la strada per fare un Valtènesi rosé. Chiaretto non mi è mai piaciuto, sminuisce, è un diminutivo.

EPPURE L’INTERESSE PER I ROSATI C’È ORMAI DA ANNI
Sì, ma è un interesse legato alla moda. Il grande problema è nell’informazione. Quando tu parli di rosato devi comunicare al consumatore che ci sono rosé che vengono dall’interpretazione di un enologo che vuole misurarsi con questa tipologia, ma ci sono anche poi dei rosé che nascono da una viticoltura dedicata. Quando metti su uno scaffale un Valtènesi e un rosé che proviene da un’area geografica che non ha vocazione, il consumatore come fa a rendersi conto di questo distinguo?

SE PENSI AL TUO TERRITORIO, QUALE LEZIONE SI PUÒ APPRENDERE DALLA PANDEMIA E DA TUTTO QUELLO CHE È SUCCESSO E STA SUCCEDENDO ANCORA?
L’unico sistema per venirne fuori è stare insieme. I territori si devono unire e bisogna studiare delle strategie di valorizzazione dei propri valori, insieme. Da solo sei sempre perdente. Dobbiamo promuoverci insieme, lavorare sulla qualità, non piegare le ginocchia, perché le gaussiane fanno parte della vita. Bisogna saper prendere le misure.

NON È FACILE PERÒ?
No, la cosa più difficile da fare è sempre prendere le misure, vale anche quando compri un paio di scarpe o assumi un collaboratore. Prendere le misure significa non eccedere nelle aspettative, ma cercare di leggere il presente elaborando un modo diverso di guardare il futuro. Ci vuole non solo qualità, ma costanza di qualità e vicino ci deve essere coerenza in quello che si fa e si dice di aver fatto. Solo dopo 100 anni che sei stato coerente, arriva la credibilità.