Lino Maga. Pane, salame e Barbacarlo

Lino Maga. Pane, salame e Barbacarlo

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
23 gennaio 2009

L'incontro con Lino Maga, nella sua casa di via Mazzini a Broni. L'unico, vero papà del Barbacarlo (e del Montebuono)...

“I vitigni autoctoni sono importanti, ma poi è sempre la terra a fare la differenza”. Ed è proprio in nome della terra, di un vigneto circoscritto, che venne intrapresa una battaglia fatta di legali, carte bollate e tribunali durata ventidue anni. Oggi, anzi, dopo il 1983, il vino che nasce da quella specifica collina chiamata nel catasto Barbacarlo, con terreno tufaceo ed esposizione a sud-ovest, può essere solo quello di Lino Maga. Una sorta di “cru monople”, dal quale, a seconda dell’annata, se ne ricavano circa 10.000 bottiglie che a volte sono ferme, altre volte busciano, anzi, come riporta il collarino sulla bottiglia, spumeggiano, che può avere un avvertibile residuo zuccherino oppure essere particolarmente secco, asciutto. “Quando un vino pulisce la bocca del fumatore è buono, diceva Gianni Brera” mi ammonisce colui che è stato uno dei suoi grandi amici ed in effetti, durante la nostra chiacchierata, un venerdì mattina nella bottega museo in viale Mazzini a Broni, le sigarette accese non sono mancate, insieme a tanti ricordi, ad aneddoti legati a Gino Veronelli, il primo che nel 1968 ne parlò nella guida Bolaffi e che volle recensire il suo vino anche nell’annata 2003, nonostante la bocciatura da parte della commissione che assegna la denominazione perché aveva un residuo zuccherino troppo alto.

E’ un uomo isolato il Signor Maga, anzi, il Comm. Maga, e sarà stata forse l’atmosfera crepuscolare e silenziosa, la sua voce non squillata, ma non si può non percepire un velo di malinconia in molte delle sue parole, oggi che le battaglie sono finite, gli amici cari se ne sono andati, ma non tristezza o rimpianto: “Sarò anche isolato, ma amo la gente che va alla ricerca della qualità. La gente è sempre stata con me perché l’immagine passa sempre prima dal produttore. Non sono disilluso, ho avuto e continuo ad avere soddisfazioni morali immense. La mia vera pubblicità è sempre stata aprire bottiglie e farle assaggiare”. Non sono mancate neanche quelle, a ripetizione, un giovanissimo 2007 con residuo zuccherino e carbonica in bella evidenza, un 2006 dal frutto vivo e maturo, un 2004 asciutto, di quelli che probabilmente sarebbero piaciuti a Brera, un 2002, annata difficile anche qui, ancora in ottima forma e con un piacevole finale di spezie. E come in un rustico quadro contadino, come da tradizione oltre padana, quanto meno quella scolpita nell’immaginario dei molti che amano attraversare quegli splendidi, e forse ancora incompiuti, pendii tra Broni e Casteggio, compare subito una grande salame, morbido, non in vendita perché prodotto da un suo amico e del pane: vini, sia il Barbacarlo, che il meno conosciuto Montebuono, “il vero Sangue di Giuda” come ama ripetere Maga, che richiedono cibo, lo esigono, tanto quanto altri, non i suoi, non ne hanno bisogno perché bastano a loro stessi, frutto di una concezione che lui ha sempre rifiutato. Una contadinità la sua, che altrove, per altri, è servita per scalare il successo mediatico, ma che nel suo caso è rimasta ancorata alle cronache di un periodo oramai passato: “Lo so, ma io non faccio marketing, non sono capace di agire commercialmente. Chi vuole il mio vino deve venire qui”.

Dai 17 ettari totali, 10 denunciati per ottenere i suoi vini, ricava 30 quintali per ettaro e sono presenti viti più che centenarie, ottime, che faticano: “Oggi mio figlio lavora in vigna, ma in cantina continuo ad andarci solo io”. Una cantina che è cambiata, ne hanno dovuta costruire una nuova perché quella storica non andava più bene per la legge, troppo buia: “Vogliono la luce adesso! Mio figlio ne è orgoglioso e lo capisco, sono io che continuo a non capire la burocrazia”. Proprio quest’ultima gli ha sempre precluso il mercato americano, che non serve perché vogliono etichette particolari e lui non le vuol fare, o meglio, non ha la pazienza per elaborarle, mentre il Giappone sembra accoglierlo a braccia aperte, tanto che mi mostra sorridente e divertito una pubblicità che viene da lontano fatta di ideogrammi e personaggi che sembrano usciti da un fumetto manga che stappano una bottiglia di Barbacarlo del 1989. Niente di strano, il suo vino invecchia, e non poco: travasa e non filtra, decanta, lo fa fermentare in grossi botti e poi verso aprile-maggio lo imbottiglia, sicché, come natura prescrive, ecco quelle bollicine comparire, che con gli anni si attenuano: “Non scrivere vivace, mosso o frizzante! Sono cose composte e negative. Usa brioso o spumeggiante, al limite effervescente, come la Traviata”. Sorride, spesso, sente un po’ meno di un tempo, anche se confessa: “Un po’ sordo lo sono, un po’ lo faccio”, ma ci sente benissimo quando gli chiedo perché, come avevo visto sulla retroetichetta del 2002, ora non sono più riportati i precisi e minuziosi dati di composizione del suo vino, dal PH all’acidità totale, dalla solforosa alla percentuale di zuccheri residui, con tanto di data del certificato: “La burocrazia! La normativa non vuole, lo vieta, perché il vino cambia nel tempo. Ma io volevo dire esattamente, al consumatore, per esempio, quanta solforosa c’era nel mio vino”. Poco male, se chi vende i suoi vini ha l’accortezza di non buttare i piccoli pieghevoli allacciati intorno al collo della bottiglia, c’è ancora. Mi saluta con un ultimo avvertimento: “Ricordati che la bottiglia va sempre sboccata! Io sbocco anche l’acqua” Perché?: “Perché oggi tutto è omologato e quindi non c’è bisogno di farlo, ma può sempre esserci qualcosa sul vino, appena aperto”. C’è anche il fondo, in tutti i suoi vini, ma basta seguire l’avvertenza, sempre riportata sul piccolo pieghevole, di: “non agitare la bottiglia prima di stapparla”.

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