Pecorino di Farindola, Trebbiano d’Abruzzo dei vignaioli teatini e… mosto cotto!

Pecorino di Farindola, Trebbiano d’Abruzzo dei vignaioli teatini e… mosto cotto!

Abbinamenti
di Maria Rita Olivas
28 settembre 2023

Dai suoli custoditi da pastori e vignaioli nascono prodotti unici, che lasciano un’importante impronta socio-ambientale. Se n'è parlato all'ultima edizione di Cheese, con una degustazione che ha puntato i riflettori sul Pecorino di Farindola, prodotto nel Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga in Abruzzo.

Prati stabili, pascolo, biodiversità: sono state le parole al centro dell’edizione di Cheese 2023, il tradizionale evento biennale di Slow Food & Città di Bra dedicato ai formaggi a latte crudo, quest’anno svoltosi dal 15 al 18 settembre.

Cos’è un prato “stabile”? È un prato che non viene seminato, né sottoposto ad alcuna pratica agricola, ma cresce spontaneamente, grazie all’interazione con gli animali che lo pascolano e lo concimano. In tal modo si accresce il numero delle specie erbacee lì presenti: graminacee e leguminose, come il loietto, la festuca e il trifoglio, ma anche ranuncoli, cicoria, romici, achillea e tarassaco, che variano a seconda della stagione e che possono conferire al latte diverse essenze aromatiche, aumentandone anche la qualità nutrizionale. Inoltre, la massa di radici, funghi, batteri e humus presenti nel sottosuolo è in grado di intrappolare notevoli quantità di anidride carbonica, sottraendola così dall'atmosfera, dove causa l'effetto serra.

Sono spesso ecosistemi fragili, in costante riduzione, a causa dello spopolamento delle alture e l’aumento di monoculture e superfici edificate in pianura. Fortunatamente, alcuni pastori e piccole comunità dedite all’allevamento e alla produzione casearia custodiscono ancora questi scrigni di biodiversità, dei quali hanno saputo riconoscere l’importanza socio-economica e ambientale nel corso di secoli. 

In particolare, dai prati stabili del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga in Abruzzo, abbiamo assaggiato il Pecorino di Farindola, presidio Slow Food, prodotto in quantità limitatissime con latte ovino crudo, da animali allevati allo stato brado sui pascoli. Due caratteristiche lo rendono unico: il caglio di maiale utilizzato per la coagulazione del latte, a differenza del caglio di vitello, agnello o capretto comunemente usati nella maggior parte dei formaggi, e il fatto che la sua produzione sia storicamente prerogativa delle donne, poiché veniva lavorato in casa, mentre gli uomini si occupavano degli animali. 

Erano le donne a preparare il caglio, lasciando macerare in aceto e vino bianco per qualche mese lo stomaco dei maiali macellati per le feste, per poi filtrarlo e utilizzarlo nella lavorazione del latte. Nelle cucine trasformate in micro-caseifici, tra attrezzi di legno appesi alle pareti, fascere di vimini e vecchie credenze con le forme in stagionatura, le donne hanno continuato a mantenere viva questa tradizione casearia.  Oggi il Pecorino di Farindola viene prodotto in piccole realtà a conduzione familiare ma sull’etichetta dei formaggi è ancora presente il nome della casara: Fatto da Paola” o “Fatto da Lucia”. Un nome che evoca l’individualità della mano del casaro e il suo sapere personale, come ogni vignaiolo plasma il suo vino. Ciascuna famiglia ha la propria ricetta per la salamoia, che può essere arricchita da spezie e aromi. In tutti i casi, però, questo tipo di caglio conferisce al formaggio una pronunciata tendenza dolce che, anche a stagionatura avanzata, stempera la piccantezza tipica del pecorino, dando vita a un assaggio armonico e di grande personalità.

Lo degustiamo in due stagionature di 9 e 12 mesi, in abbinamento ad un unico vino: il Trebbiano d’Abruzzo 2015 “Per Iniziare” dell’azienda Rabottini, membro dell’Associazione Vignaioli Teatini, nata nel marzo 2023 per valorizzare le produzioni autoctone della provincia di Chieti attraverso una comune visione di sostenibilità, concretizzata dalla conduzione biologica certificata dei vigneti e da altri tangibili progetti. Massimo Rabottini, ad esempio, ha allestito sul tetto della cantina - costruita completamente in legno - un giardino pensile che permette abbassare la temperatura rispetto all’esterno di 4 gradi circa. Inoltre, sta realizzando un percorso naturalistico nella tenuta aziendale sulle colline teatine per insegnare ai visitatori a riconoscere le piante, molte delle quali crescono spontaneamente, esattamente come nei pascoli stabili. Non a caso Massimo è un appassionato fitologo, che evita le concimazioni chimiche per assecondare, invece, la vitalità naturale dell’humus nei terreni, e utilizza gli oli essenziali per combattere la peronospora.

Il suo trebbiano ha un ammaliante colore dorato che anticipa un olfatto evoluto e ampio di ginestra, mela golden matura, agrume candito, resina, melissa e suggestioni di incenso. Il sorso è pieno, caldo, materico, ma scorrevole. Se la maturità ha reso tenue l’acidità, la sapidità ancora non retrocede, in buon equilibrio con l’avvolgenza. Un vino solare, che persiste generosamente sui ricordi di tisana e di miele.

Nonostante solo tre mesi di stagionatura li separino, l’assaggio dei due pecorini è molto diverso, a testimonianza di come la mano del casaro (anzi… della casara!) possa influire sul profilo organolettico del formaggio: il più giovane evoca immediatamente i profumi del patrimonio floristico del Gran Sasso; in bocca è morbido, pastoso, dalla spiccata tendenza dolce. Il secondo è meno esuberante al naso, rivelando delicati sentori di muschio e pascolo, ma in bocca sfodera un bel connubio fra sapidità e grassezza, fra leggera piccantezza e avvolgenza, con una struttura in perfetto equilibrio tra granulosità e umidità. E con quest’ultimo che l’abbinamento con il vino risulta più armonico: la rotondità del Trebbiano d’annata si amalgama molto bene con la vivacità gustativa del formaggio e camminano di pari passo in persistenza.

Il finale è a sorpresa, con un bicchierino di mosto cotto, nella migliore tradizione abruzzese. A metà tra uno sciroppo e un elisir, si ottiene facendo sobbollire per diverse ore il mosto di Montepulciano in un calderone di rame, fino al ridurlo a un quarto del volume di partenza. Il mosto viene poi affinato anche per anni. Di colore ambrato scuro, consistenza viscosa e sapore dolce-caramellato, ma con un guizzo di acidità, si abbina molto bene ai pecorini, in particolare a quello più stagionato, con cui crea un abbinamento sfaccettato e sfizioso.

Una splendida scoperta, insieme alla conferma che dall’armonica connessione tra ambiente, animali e il lavoro dell’uomo si ottengono prodotti decisamente interessanti.

Crediti foto di copertina: www.pecorinodifarindola.eu