Il trascinante richiamo dell’estatico Mediterraneo francese

Il trascinante richiamo dell’estatico Mediterraneo francese

Approfondimento Francia
di Susi Bonomi
05 giugno 2023

Quando si parla della Francia del vino, raramente vengono in mente areali come il Rodano del Sud, la Provenza, il Languedoc-Roussillon o la Corsica. Insieme a Samuel Cogliati Gorlier un’interessante ricognizione per scoprire vini dal carattere autentico e che nulla hanno da invidiare a denominazioni ben più blasonate.

Nell’immaginario collettivo, le regioni che si affacciano sul Mediterraneo francese non hanno mai goduto di buona fama dal punto di vista enologico. Si ricordano, invece, più per le rese troppo elevate, produzioni quantitative dozzinali e una presenza ingombrante, capillare e prepotente delle cantine sociali (le caves coopératives). Tutti fattori che non hanno concorso nei secoli a valorizzare questo territorio «né in termini di qualità effettiva, né in termini di qualità percepita» spiega Samuel Cogliati durante l’ultimo appuntamento di Enozioni 2023. «Ed è un grande peccato perché, sebbene quest’area geografica sia tutt’altro che omogenea, ma, anzi, molto diversificata sia in termini di terroir sia in termini di pluralità di vitigni, qui si intersecano varietà di uve che i quadranti settentrionali non hanno».

Iniziamo dunque il viaggio che ci porterà alla scoperta di questo angolo di Francia in cui la qualità dei vini si accompagna a prezzi ancora accessibili per il consumatore.

Le regioni del Mediterraneo francese

Quando si pensa alla Francia geografica, anche quella del vino, normalmente ci si rifà all’”esagonocontinentale, dimenticando spesso la Corsica. Quest’isola, per la sua posizione, viene da sempre considerata molto più italiana che francese sia per la lingua, simile al pisano, sia per i vitigni, gli stessi dell’areale tirrenico settentrionale. Nonostante benefìci di condizioni geografiche, climatiche e morfologiche eccezionali, «una sorta di Eden per la viticoltura», e il suo potenziale qualitativo sia eccelso, la Corsica rimane un territorio scarsamente considerato dal punto di vista enologico. Le sue vigne, distribuite lungo il litorale, fruiscono di 2800-2900 h di sole l’anno tanto che questa è la zona più soleggiata di Francia, ma al contempo anche una delle più piovose. Inoltre, con le sue cime alte e scoscese, è anche la più montuosa delle isole del Mediterraneo, con vigneti che, spesso, si arrampicano sui pendii. Smentendo clamorosamente chi la considera enologicamente poco interessante, sono ben due i vini còrsi che Samuel ha ritenuto doveroso proporre in degustazione.

Samuel Cogliati GorlierFin dalla metà dell‘800, il destino comune di tutte le zone del Mediterraneo francese è stato quello di produrre grandi quantitativi di vino, anche di discutibile qualità, per rifornire la popolazione rurale e urbana - di matrice proletaria e operaia - che gravitava intorno alle grosse città della madrepatria. Tutto ciò non ha concorso, certamente, a qualificare il potenziale qualitativo di queste regioni. Oltre a ciò, quando si sono dovute reimpiantare le viti a seguito della devastazione fillosserica, la scelta, drastica e radicale, - guidata da questo tipo di necessità commerciali - è caduta, inevitabilmente, su vitigni piuttosto produttivi, ma poco espressivi. Con lo stesso criterio anche la selezione dei settori geologici si è orientata verso suoli sabbiosi, vicini al mare, che potessero sopportare - dal punto di vista strettamente tecnico -, rese fino a 200 q/ha!

Purtroppo, a ricordo di questo passato tutt’altro che glorioso, la reputazione delle zone e dei vitigni del Midi, nonostante oggi si siano raggiunti livelli qualitativi eccelsi, è difficile da recuperare. È quello che succede anche per il Rodano del Sud. Nel Rodano del Nord, invece, le AOC, rimanendo fedeli nel tempo ai loro dettami, sono state in grado di proteggere la loro reputazione e sono ricordate a tutt’oggi come denominazioni di pregio con prezzi delle bottiglie ormai diventati esorbitanti.

Languedoc e Roussignol hanno una denominazione che unisce i due nomi, anche se dovrebbero essere tenute separate dal punto di vista enologico poiché diversi sono stati anche evoluzione e sviluppo della viticoltura.

Per la Provenza si riscontra un altro problema. A partire dalla fine del secondo conflitto mondiale questa regione ha cominciato a risentire di una fortissima pressione dovuta al turismo. Dapprima aristocratico e poi borghese, il turismo d’élite della fine ‘800 - inizio ‘900 era appannaggio di pochi e restituiva al mondo un’immagine dorata della Provenza. A partire dalla metà degli anni ’30 del secolo scorso, invece, con l’istituzione delle ferie pagate, la Provenza è diventata la meta preferita dei francesi del Nord e il turismo è diventato di massa. Tutto ciò ha richiesto, a una regione che non ne era provvista, grandi disponibilità di vitigni bianchi, e dei relativi vini, per coprire la domanda del periodo vacanziero. Per andare incontro a questa esigenza la Provenza, che storicamente era legata a vitigni rossi, si è inventata – o piuttosto costruita - un'identità di produzione di vini rosati. Questa è la pesante zavorra e il biglietto da visita con il quale si presenta al mondo, con il risultato che solo una piccola minoranza dell’insieme dei rosati provenzali (che rappresentano ben l’85% della produzione vinicola totale) raggiunge livelli ottimali. Uscendo dall’immaginario collettivo e considerando “l’altra Provenza” cioè quella dei vini bianchi e di quelli rossi, il livello qualitativo, nelle loro migliori espressioni, è «due spanne al di sopra dei migliori rosati», afferma Samuel senza timore di essere smentito.

Dopo la rapida esposizione, passiamo alla verifica pratica, calici alla mano.

La Degustazione

Patrimonio rouge AOC Cru des Agriate 2017 - Domaine Christian Giacometti

Siamo in Corsica, nel comune di Santo Pietro di Tenda, località Casta, con l’AOC Patrimonio, la località vitivinicola per eccellenza ritenuta il cru di Corsica, una delle pochissime zone ad avere un terroir prevalentemente calcareo. Sulla costa orientale il suolo è di tipo alluvionale, ciottoloso-sabbioso mentre nel resto dell’isola è granitico-scistoso.

Il vino in degustazione è prodotto nell’estremità occidentale dell’enclave Patrimonio, all’interno di un settore chiamato Désert des Agriate, zona selvaggia che, invece di essere legata al terroir calcareo, è di tipo granitico: «un’eccezione nelle eccezioni». È ottenuto dai due vitigni rossi autoctoni per eccellenza: nielluccio e sciaccarello. Il primo è il vitigno principe dell’AOC mentre l’altro è più legato alla costa occidentale, in prossimità della capitale, Ajaccio. Si tratta di fenotipi locali del sangiovese e del mammolo, varietà di origine toscana che ricordano il forte legame con le cultivar del Nord Tirreno e la stessa storia della Corsica che, prima di diventare francese, è stata genovese e poi pisana.
Naso lento, espressione molto timida e graduale improntata a due connotazioni: la prima di tipo animale, selvatica, e la seconda di matrice fumosa, una leggera ma caparbia tonalità affumicata a cui vanno ad aggiungersi gli aromi che si sprigionano gradualmente e lentamente dall’ossidazione dei tannini. La natura fenolica conferisce al vino un’impronta riccamente vegetale che nulla ha a che fare con il verde e l’erba: è un vegetale macerativo. Per il resto, nulla. Lento e quasi austero, non si concede. Appena appena un tocco piccante, frutta sottobosco molto matura, anche in questo caso in fase macerativa. Deponiamo il calice per lasciare al vino il tempo di dispiegarsi. Ci ritorniamo dopo una mezz’ora: solo ora inizia a respirare sprigionando parte della sua bellissima linfaticità vegetale, matura, premiante, succosa, che disegna una sensazione speziata molto ben tratteggiata. Pare irriconoscibile rispetto al vino inizialmente versato nel calice. La bocca è didattica, tipica dell’AOC Patrimonio. Se fossimo alla cieca non riusciremmo a credere che questo è un vino che ha più di cinque anni, tanto è giovanile. Ha una potenza, una espressione mordace del tannino che sembra un vino dell’ultima vendemmia. «Sta pian piano cominciando a costruire un’architettura che veleggia tra la freschezza del tannino e quella dell’acidità, una sapidità vera, una sensazione di maturità complessiva, una leggera morbidezza di fondo, ma di fatto chiaramente, programmaticamente, identitariamente spostato sulle durezze». Questo è l’approccio del grande nielluccio. Un vino carico, strutturato, che non si appesantisce, quasi sfida la verità e soprattutto sfida il tempo. Ricco, con una perfetta corrispondenza naso-bocca e un tannino che non fa prigionieri. «Non si sogna neanche per un momento di cercare di limare il tannino. Se non vado bene ora, ci vediamo fra qualche anno, sembra dirci». È un tannino con i denti e le zanne, verace e che in nessun momento è aspro o ha un’acredine da acerbità. Chiama prepotentemente la tavola e, in questo caso, il capretto.

Bandol rouge AOC 2012 - Château de Pibarnon

Ci spostiamo in Provenza, nell’anfiteatro calcareo di Bandol, a metà strada tra Marsiglia e Tolone. Denominazione interessante da vari punti di vista: per la sua storicità e per essere nobilmente tricolore poiché tutte le versioni prodotte che appartengono a questa AOC esprimono livelli qualitativi paragonabili, in termini assoluti. La storia particolare di questa denominazione, poi, la accomuna ad altri territori come Bordeaux, Marsala o Porto prendendo il proprio nome non tanto dal territorio dove si coltivano le uve ma dal porto dove, storicamente, si è sempre spedito il vino.
Bandol, pur rientrando nell’AOC, non è il comune dove c’è la più alta concentrazione di vitigni, che si radunano invece nell’entroterra. Beneficia però del disegno ad anfiteatroche protegge dagli eccessi di ventilazione provenienti dal nord e si apre verso il mare – da cui le tipiche sensazioni di salsedine -, cogliendo l’umidità che è di estremo beneficio per un territorio che sta diventando sempre di più siccitoso. Inoltre è costruito su due livelli di versanti, due fronti di colline: uno che guarda verso il mare e uno più interno, più alto, che funge da cornice.
Il vino selezionato è uno dei punti di riferimento qualitativi della denominazione. Ci troviamo a 300 m di altitudine e questo concorre a garantire una certa freschezza al vino, valorizzata dalla prevalenza assoluta del mourvèdre, il vitigno rosso di Bandol, nonché una delle grandi cultivar di Francia. Ampiamente dotato di tannini, tanto che tende a comportarsi come riduttore in fermentazione, lo si vinifica normalmente in presenza di altri vitigni che fanno da contrappunto come il grenache, che ha invece una tendenza ossidativa.
Naso di diversa e più leggiadra dolcezza rispetto al precedente, quasi carezzevole: annuncia un diverso comfort di beva e suggerisce già sensazioni patinate, ovattate. C’è una maturità di frutto più rotondo, confettato. Naso caloroso, maturo, succoso, che gioca tra la liquirizia e una mora molto concentrata, con una dolcezza parzialmente legata al rovere, gestito molto delicatamente. Riassaggiato dopo una mezz’ora, la partenza così laccata e gentilmente edulcorata si abbassa su toni più fenolici, di bruciato, di legna arsa: risulta essere un po’ più stanco e più austero rispetto all’accondiscendenza iniziale. In bocca ha una grana tannica polverosa, quasi sabbiosa (è una delle qualità del mourvèdre). Un vino da mense stellate piuttosto che da trattoria, nell’accezione più nobile del termine. Un vino guerriero, da battaglia, non arrendevole, ma di compromesso, con evocazioni stilistiche quasi bordolesi, ingentilito, nonostante un finale di bocca prepotentemente e tenacemente amaro.

«Dobbiamo imparare a riqualificare l’amaro, dalle radici» ribadisce Cogliati. «Siamo figli di una cultura gastronomica ormai secolare che ci ha condizionati con l'idea che l'amaro fosse un difetto». Tutto questo si riallaccia alla fisiologia umana ancestrale perché l'amaro è quasi sempre la sensazione che hanno i cibi tossici, velenosi. Il nostro quadro fisiologico si è adattato per segnalare eventuali problemi, ma nel mondo enogastronomico attuale, moderno, l'amaro ha tutt’altro valore, non dovendo più temere che sia un veleno.

Faugéres rouge AOC 2009 - Domaine Leon Baral

Altro vino, altro luogo: siamo nel Languedoc, a Faugéres, sui contrafforti Sud del Causs, un altopiano calcareo che qui disegna una bipartizione della AOC tra una zona più calcarea e una più scistosa. È da quest’ultima che proviene il vino in degustazione, un assemblaggio di due dei tre vitigni del sud della Francia considerati plebei: carignan e cinsault, che costituiscono il 70% del quadro ampelografico del vino, solo parzialmente integrati con il 25% di grenache.

«La 2009 è stata un’annata particolarmente calda, in un territorio caldo, con dei vitigni che hanno, nella loro vocazione, la tendenza a offrire un profilo aromatico caldo: caldo su caldo su caldo». L’inizio si presenta solforoso, scortese, catramoso e addirittura umorale, con un po’ di note di fegato e rognone mescolate a un fondo fruttato di frutta macerata, sotto spirito, e suggestioni di macchia mediterranea. Ha 13 anni ma esprime nell’impatto aromatico una intensità, una capacità di movimento, un nerbo che sembra molto giovanile aldilà delle tonalità aromatiche che esprime. Lo lasciamo riposare, così come abbiamo fatto con i calici precedenti.
Al secondo approccio è croccante, più che selvaggio al naso, incatramato. Gioca poi su sensazioni speziate che vanno dalla bacca di ginepro, al pepe nero e al pepe verde. In bocca è invece molto più affabile. La deliziosa definizione tannica setosa, calda, avvolgente, sapida, ha dei richiami vagamente borgognoni. Vino di grande pregnanza gustativa che potrebbe arrivare a confondersi con uno Chambertin. Al tempo stesso austero e generoso, molto aperto, scorrevole e fisico, con una qualità degli amari molto variegati e complessi. È un vino rigoglioso che, nonostante la presenza spinta e tenace dei suoi amari, nell'impatto sembra quasi dolce. Questa dolcezza è ascrivibile a solo due cose: una perfetta maturazione fenolica delle uve e la presenza sapida. L’unione di queste due componenti consegna qualcosa che ai nostri recettori dà l'impressione di essere una vera e propria dolcezza. È un vino fenomenale che anche Samuel si aspettava molto più evoluto mentre in realtà ha davanti a sé almeno altri 10 anni di straordinaria forma. È un vino potente, possente, maestoso, senza alcun momento di pesantezza, senza esitazione alcuna: dinamico e teso. L’abbinamento gastronomico è di quelli poderosi: un cinghiale rinforzato nella cui preparazione vi siano le bacche di ginepro così da richiamare questa ricchezza aromatica. Vino opulento e generoso con una lunghezza, una persistenza strabiliante. Interminabile.

Côtes de Roussignol Vieilles Vignes 2017 - Domaine Gauby

Anche in questo caso si tratta di un assemblaggio: 35% carignan, 30% syrah, 25% grenache e 10% mourvèdre per questo Côtes de Roussignol da vielles vignes: le più giovani hanno 20 anni e sono solo una piccola parte mentre le più vecchie hanno 125 anni e sono state piantate subito dopo la crisi fillosserica. Naso straordinariamente nitido, dolce, maturo, sanguigno, di una dolcezza di cola, di cannella molto meno meridionale di quanto si potrebbe sospettare. Naso su tonalità agrumate (chinate) di arancia amara quasi da vermouth, estremamente fine.
Ripreso dopo mezz’ora, il fruttato immediato, squillante, disponibile e ritmato iniziale si è un po’ accasciato, rientrando nei ranghi. Il naso è più concentrato sulla connessione fruttato-erbaceo. È un vino che beneficia di diverse morbidezze, ma più arrendevoli, contrappuntate da un finale in cui si ritorna a una lettura un po’ più monolitica dell'amaro, esattamente come il Bandol: è un vino più di volume che di vera e propria presa tattile. È gustoso, salivante, piacevolmente soffice con un tannino ancora non pienamente risolto, un po’ crudo, che partecipa e concorre a stimolare la salivazione e una persistenza possessiva e lunga, non così articolata e meticolosa.

Samuel ci svela che nell’organizzare i vini per la degustazione ha seguito un accoppiamento per numeri pari e dispari. Il 2° e il 4° sono accomunati da una gentilezza espressiva un po’ più semplice e un po’ più consensuale. Il 1° e il 3°, i dispari, sono vini più nettamente selvaggi, focosi, rudi. Per dirla in termini sportivi, i pari sono ottimi centrocampisti di calcio mentre i dispari sono degli avanti di mischia del rugby: queste due coppie di vino giocano a sport completamente diversi!

I viniVin du France Faustine Vieilles Vignes - Domaine JC Abbatucci

Con questo vino torniamo in Corsica. Ci spostiamo a sud-ovest, a metà strada in linea d’aria tra Ajaccio e Sartena. Il Domaine del Conte Abbatucci si propone con un vino addirittura fuori dalla Denominazione di Origine, sposando un concetto di maggiore libertà nelle scelte produttive.
Abbiamo un 100% vermentino, vitigno bianco di riferimento della Corsica e anche di parte della Francia meridionale continentale, qui chiamato rolle. Le Vieilles Vignes, coltivate su un terreno granitico, consentono al vino di esprimersi con un naso soave, avvolgente, cremoso, erbaceo e anche lattiginoso. Si ha la sensazione di annusare una cagliata fresca. Si avverte poi della frutta e la nocciola appena tostata. Il naso è molto elegante e garbato, moderatamente aromatico, ancora vinoso, di fermentazione non ancora del tutto compiuta. In bocca è delicato, soffice, untuoso, limpido e cristallino con un finale quasi leggermente maltato. Fragrante, croccante, giovanile senza essere veramente giovane. Sottile, estremamente pieno, carnoso con una bellissima sapidità di sottofondo. Ovattato, di intensità graduale, dalla stilistica molto sobria. Sembra quasi di poter sciorinare una lista estremamente completa di aggettivi senza però dimenticare che è dominato e sostenuto da una visione precisa di equilibrio gustativo. Se dopo aver bevuto questo bianco si ritorna a riassaggiare i primi quattro vini rossi li si troveranno aspri, crudi, non performanti come nella prima parte della degustazione. In Francia c'è un modo di dire che rende bene l'idea: «Blanc sur rouge rien ne bouge, rouge sur blanc tout fout le camp».

Palette AOC 2015 - Château Simone

Per quest’ultimo vino ci spostiamo in Provenza. Siamo a pochissima distanza da Aix-en-Provence, in una denominazione che, a detta di Cogliati, ma non solo, è considerata da anni una delle migliori di Francia. Lo Château Simone è proprietà della famiglia Rougier dal 1830 che produce, con ugual successo, le tre colorazioni – bianco, rosso e rosato – con il primo dotato di una marcia in più. È un vino che ha la fortuna di sommare un bellissimo terroir, calcareo di origine lacustre, all’esposizione a nord, in un territorio meridionale che sarà sempre più soggetto al surriscaldamento globale. Frutto di un delicatissimo assemblaggio di grandi vitigni fra i quali primeggia la clairette, completata da grenache blanc, ugni blanc, bourboulenc e varie sottovarietà di moscato. L'età media delle viti, inoltre, supera di gran lunga i cinquant'anni e le più vecchie ne hanno 120-125. Le rese per ceppo sono risibili e ne esce un vino con una severità espressiva amarognola, chinata, erbacea, profondamente vinosa ed estremamente aristocratica.
Per poter assaggiare questo vino al massimo delle sue potenzialità, tenuto conto dei tempi della masterclass di Enozioni, i sommelier lo hanno decantato 2 h prima di servirlo. Se fosse stato possibile sarebbe stato interessante decantarlo due giorni prima, asserisce Samuel: è un vino, infatti, che ha bisogno di ricomporre il suo rapporto con l'ossigeno per sfoderare tutta la sua classe aromatica e la sua capacità di prendere possesso del cavo orale.
È un vino satinato, molto più sapido che acido, sinuoso, leggermente affumicato, franco ed elegantissimo. Ha una capacità unica di penetrare nel cavo orale, di prenderne piano piano possesso e dedicarci la parte aromatica del rovere entro il quale ha affinato. Il vino, infatti, sosta prima in botte grande per un anno e mezzo e poi affina un ulteriore anno in barrique usate.
Il Palette di Château Simone esce con la stessa etichetta per tutte e tre le colorazioni che si distinguono solo dalla capsula. L'etichetta, disegnata nei primi nel ‘900 da un amico di famiglia, ritrae il castello originario del XVI secolo dove dimorava una congregazione ecclesiastica già dedita alla vitivinicoltura. Questo vino ha solo un difetto: va comprato oggi per essere bevuto almeno fra 15-20 anni perché, anche se è già buonissimo da giovane, si perderebbe moltissimo del piacere che può riservare. Le due annate di Château Simone che sono oggi in strepitosa forma sono la 2001 e, a trovarla, la 1991, veramente eccezionale.