Gli odori del mondo in un bicchiere: molecole e percezione

Gli odori del mondo in un bicchiere: molecole e percezione

Degustando
di Sara Missaglia
08 febbraio 2021

La prima serata della rassegna ”WHO – Wine Host Opinion” con il prof. Luigi Moio e i profumi del vino ha inizio. «Vi parlerò questa sera delle molecole. L’aspetto olfattivo e sensoriale è la parte più interessante e più bella del vino. È questo che realmente appassiona».

«Il vino è un sistema vivente: è vita che muore e rinasce. Se il vino non è adesione alla vigna e al territorio, i vini sono omologati: la purezza olfattiva va a braccetto con il terroir con coerenza e unicità».
Il primo intervento del prof. Moio prelude a una serata dove nulla sarà scontato: «esistono i grandi vini e i vini buoni: i buoni vini sono dappertutto, i grandi vini no. Un grande vino è la reale espressione del luogo in cui è stato prodotto, grazie alla perfetta sintonia tra vigna e ambiente. Bisognerebbe riconsiderare l’armonia tra l’uomo e la pianta, in modo che ambiente, pianta e suolo siano perfettamente incastrati come tessere di un unico puzzle.»

Ma da dove nasce questo interesse per gli odori del vino? Il racconto del prof. Moio parte da lontano: è necessario ricostruire e capire la storia nel suo intreccio tra uomo e vino per comprendere la ragione e l’interesse per cui siamo arrivati a decifrare più di 4000 molecole responsabili degli odori del vino.


Il relatoreGli antichi bevevano, si stordivano, bevevano di nuovo cercando poi l’acqua per dissetarsi, e ricominciare da lì a poco: una metrica inconsapevole e dettata dall’automatismo comportamentale (si è sempre fatto cosi), complice il fatto che, tutto sommato, è semplice ottenere alcol etilico dalla fermentazione di un frutto. Nel tempo il vino ha perso il ruolo di alimento, diventando un elemento di svago, protagonista di momenti di relax e di festa. A un consumo massivo, spinto da necessità nutritive e comportamentali (fonte di calorie e stordimento), si è passati a un consumo consapevole, abbandonando la necessità del bere per lasciare spazio al piacere di degustare. Con il passare dei secoli l’importanza dell’alcol è diminuita e sono aumentati l’edonismo e la ricerca della bellezza: è affiorata l’estetica dell’olfatto e del gusto. Più percepiamo gli odori, più ci allontaniamo dall’alcol. Tutto questo è importantissimo anche per il tema del “bere responsabile”: il vino non è più bevuto per non pensare alla vita povera e grama, ma degustato per annusare e ammirare bellezza.

Luigi Moio ci racconta che, con ogni probabilità, è ragionevole supporre che non ci sia un inventore del vino: è nato per casualità, come risultato della fermentazione spontanea del succo fuoriuscito da frutti accidentalmente schiacciati. Ben 50 milioni di anni fa i nostri antenati si nutrivano di frutta raccolta dagli alberi. 10 milioni di anni fa, quando gli uomini scesero dagli alberi, si cibavano di frutti che, a loro volta, erano caduti a terra: cadevano perché troppo maturi, così ricchi di zucchero da generare una fermentazione che potremmo definire molto performante. Si è scoperto che l’alcol etilico presente in questi frutti inibiva l’azione degli enzimi dei funghi, che producono micotossine pericolose per la salute dell’uomo: mangiando frutti fermentati molti di loro sopravvivevano più a lungo perché la carica di tossine era ridotta. Antenati quindi inebriati dal vino e più sani: da qui l’idea intenzionale di far fermentare i frutti. Sorbe, mele selvatiche, lamponi, ciliegie, sambuco, a cui aggiungevano acqua: si è poi scoperto che l’uva, che ha quasi l’85% di acqua, è il frutto che dispone di tutti gli elementi per completare alla perfezione la fermentazione e amplificare la quantità di alcol prodotta.

Nel 6000 a.C., circa 8000 anni fa, in Georgia l’uomo produceva il vino: paradossalmente sembra essere nato prima il vino e poi l’uva, perché solo in epoca più recente sono state condotte ricerche sui diversi vitigni. Nell’antichità il vino piaceva, ma veniva consumato nell’immediato: il problema infatti era come conservarlo. Teofrasto, Catone, Varrone, Columella, Plinio il Vecchio hanno sempre parlato di viticoltura, ma mai del profumo del vino, alla ricerca quasi ossessiva di come conservarlo. Veniva impiegata la resina, che peraltro aiutava anche a mascherare odori non gradevoli. E ancora l’uso di cannella, lavanda, timo, zafferano, petali di rosa, miele e zucchero per stemperare l’acidità. Successivamente i tentativi per scaldare il vino, facendo del mosto concentrato, sempre per migliorare la possibilità di conservarlo. Nel ‘600, a Madera, qualcuno pensa di aggiungere al vino i distillati: si scopre che, se si aggiunge del brandy al vino, quest’ultimo rimane stabile e non rifermenta. Nascono così i vini fortificati che, con una quantità di alcol di circa il 20% in volume, vedono bloccato il processo di acescenza. Niente volatile ma ossidazioni per la presenza di flor.

Nel 1789 la scienza fa la differenza con de Lavoisier che definisce la reazione della fermentazione alcolica: nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Nel 1825 Guy-Lussac definisce l’equazione del processo fermentativo e successivamente Chaptal scrive L’arte di fare il vino. Nel 1860, nasce la microbiologia con Pasteur che identifica gli agenti responsabili dell’acescenza, chiarisce il ruolo dell’ossigeno, propone un metodo per evitare che nel vino possa aumentare l’acidità volatile mettendo a punto il processo di pastorizzazione. Ribéreau-Gayon, assistente di Pasteur, scrive il primo Trattato di Enologia. Solo sessant’anni fa viene definita la funzione della fermentazione malolattica e vengono studiati i polifenoli, i tannini, gli antiossidanti e vengono scoperte molecole interessanti dal punto di vista nutraceutico e salutistico. Nascono così i sommelier e i degustatori moderni: senza Ribéreau-Gayon e Pasteur non avremmo mai capito i profumi del vino.

Con la scoperta dei profumi si apre l’importante capitolo della pulizia olfattiva e dell’importanza del suolo e del microclima. Dalla stessa varietà abbiamo vini diversi, tante varietà e tanti suoli: “sentire la terra” significa esprimere suolo, esposizione, microclima, vigna, annata. E ancora Moio c’insegna che esistono vini “solisti” e vini “orchestrali”: molti vini hanno infatti nel loro corredo olfattivo profumi “solisti” facilmente riconoscibili (pensiamo ai fiori del Moscato o del Gewürztraminer). Ma la maggior parte ha vere e proprie “orchestre”: in questi vini l’odore è la sintesi di un percorso olfattivo tra diverse molecole, tra le quali quelle che hanno origine dalla fermentazione assumono una valenza superiore rispetto agli aromi dei vini “solisti”. Da un lato la fragola del Lambrusco, il bosso del Sauvignon, il “petrolio” del Riesling, il peperone verde dei Cabernet, il ribes del Pinot nero, il pepe nero del Syrah, dalla chiara identità sensoriale. Dall’altro la difficile riconoscibilità olfattiva dello Chardonnay, il bouquet complesso del Merlot, le note floreali e lo zafferano della Ribolla gialla, le speziature del Montepulciano, la violetta e i frutti rossi del Nebbiolo, vini in cui il profumo è frutto di un’armonia poco stabile e di non semplice riconoscimento.


Il respiro del vino«Infiniti vini, infiniti aromi, infiniti divertimenti: per questo è magico il vino, è un paradigma della diversità e della biodiversità. La loro diversità deve essere legata al vitigno e alla vigna. Il vino è mono ingrediente: serve solo un grappolo d’uva», sottolinea il prof. Moio. Per esprimere il terroir l’uomo deve fare un passo indietro: deve diventare un assistente di questo processo.
«Zuccheri, acidi, polifenoli, polisaccaridi, sali e proteine: se c’è tutto questo in perfetto equilibrio non ci potrà che essere un vino di spessore. Il vino è il risultato di un processo di trasformazione, in cui l’intervento deve essere limitato al massimo: se l’uva è equilibrata, il vino sarà equilibrato, e sarà il riflesso di quel grappolo, senza correzioni da parte dell’uomo». E ancora: «se pensiamo all’alcol ogni vino è buono, ma se per un istante accantonassimo l’alcol e la sua importanza, trasferiremmo l’interesse sul suo profumo e sulla sua sensorialità. Il problema della percezione è che i cinque sensi non sono separati uno dall’altro, ma si influenzano e interferiscono tra loro continuamente. Parliamo di odori quando la percezione olfattiva ci arriva dal naso biologico, mentre di aromi quando arriva in via retronasale. Se vogliamo, gli odori non esistono, esistono solo nella nostra mente: se non c’è un rivelatore sono semplici molecole», prosegue il prof. Moio.

Gli odori esistono perché noi traduciamo quel messaggio chimico in un odore. La percezione avviene per immagine olfattiva. Possiamo percepire più di un miliardo di odori, perché l’olfatto è un senso straordinario. Ma questa capacità contrasta con la possibilità di riconoscerli, che è invece legata alla memoria olfattiva. Se quest’ultima è povera percepiamo, ma non riconosciamo. Il confronto è con i dati che abbiamo in memoria: percepiamo un miliardo di odori, ma ne riconosciamo solo una cinquantina, legati al catalogo di odori che abbiamo memorizzato. Il problema è che il nostro vocabolario olfattivo è molto povero. Bisogna annusare e memorizzare gli odori, perché attraverso gli odori è possibile viaggiare virtualmente e ricostruire il passato. Si tratta di ginnastica olfattiva, che prevede che si continui ad annusare e a memorizzare fragranze per consolidare e amplificare la capacità degustativa e l’obiettività nel giudizio.
Inoltre, la degustazione non è un atto statico: è un processo dinamico, perché il profumo del vino è frutto di infiniti equilibri che danno infiniti vini che, per essere grandi, devono essere il preciso riflesso di un terroir.

«Non tutto il mondo è vocato per produrre vini di grande qualità», conclude il prof. Moio. «Ecco perché il vino affascina tanto: in un mondo in cui tutto è omologato, il vino è sempre diverso, e per questo motivo unico». Si chiude con queste parole la favola di aromi, di fragranze, di testimonianze sul ruolo e sul valore dei profumi. Una serata magica per l’apertura di una nuova rassegna che ci porta verso mondi possibili.