La Lombardia a Live Wine 2019

La Lombardia a Live Wine 2019

Degustando
di Laura Zaninelli
07 marzo 2019

Sono stati 11 i produttori lombardi che hanno partecipato alla quinta edizione di Live Wine, il Salone Internazionale del Vino Artigianale che si è svolto a Milano il 3 e 4 marzo. Anche quest’anno siamo andati a trovarli per conoscerli un meglio

Anche quest’anno Milano ha accolto una delle più importanti rassegne sul mondo del vino artigianale: presso l’ex palazzo del ghiaccio, nome col quale ancora oggi i milanesi amano chiamare il luogo che ospita la manifestazione, è andato infatti in scena Live Wine 2019. 

In un ambiente che ci proietta, a livello architettonico, nella Parigi di fine ‘800, e in una bella atmosfera, siamo andati a trovare tutti i produttori lombardi presenti e abbiamo chiesto loro di presentare la propria azienda attraverso un solo vino, quello più rappresentativo. C’è chi ha scelto senza alcun dubbio, chi ha fatto più fatica a prediligere uno tra i suoi figli e chi, inizialmente stupito per l’iniziale richiesta, si è poi lasciato coinvolgere in questo gioco con lo spirito giusto. 

Per l’azienda Josef si fa avanti Luca Francesconi: sul totem dietro di lui campeggia una scritta, “hand made”, che sottolinea la fierezza, poi ribadita a parole, del territorio ed in particolare della DOC Garda Colli Mantovani. Questo giovane e deciso produttore ci presenta il suo Garda Colli Mantovani Rubino 2017, un uvaggio di rondinella, merlot e cabernet sauvignon: vinificazioni separate, legno grande per un anno solo per una piccola percentuale, e poi in bottiglia. Sono solo 4 i produttori della zona che oggi danno vita a questa tipologia di vino, Luca insiste sull’importanza di riscoprire il Garda mantovano e presentandoci il Rubino, prodotto interessante dal punto di vista del bouquet olfattivo, del corpo e dell’equilibrio finale, ci dà la carta di identità di un territorio che, se lavorato con cura, ha da sicuramente molto da dire. Con quale piatto assaporiamo questo vino? Luca consiglia uno stracotto d’asino.

A Castel d’Ario, Mantova, si trova la realtà gestita da Antonio Camazzola che nel suo Vigne del Pellagroso fa rivivere antiche tradizioni. “Il Pellagroso” era, infatti, un giornale di rivolta contadina edito alla fine del 1800 e poi chiuso perché censurato: un nome che nasconde fermezza e determinazione. Antonio ha scelto per noi uno chardonnay in purezza da vigne che crescono sui Colli Morenici a sud del Lago di Garda. Breve macerazione, fermentazione spontanea, solo acciaio, nessuna filtrazione e aggiunte di solforosa: un vino schietto che parla del territorio e della filosofia di produzione di chi lo ha creato. Nessun abbinamento – “è roba da sommelier quella” –, piuttosto il consiglio che ci dà è quello di non metterlo in frigo, ma di servirlo a temperatura di cantina, come riporta anche in etichetta.

In quell’angolo Sud-ovest della Lombardia dove l’aria e la terra si confondono con quelle del Piemonte, si nasconde una piccola perla chiamata VNA. Il progetto nasce da due giovani produttori che hanno come luce guida l’idea di evoluzione del loro lavoro in vigna e in cantina (non a caso il logo dell’azienda ricorda la catena evolutiva e creatrice del DNA). Da qui la scelta di virare da un’agricoltura di tipo convenzionale a quella biologica. Con grande forza e consapevolezza si fanno rappresentare dal loro “N.1”, ovvero un cortese in purezza del 2017, prima annata di produzione con il nuovo regime. Un vino sorprendente, perché seppur lavorato in modo molto classico – solo acciaio, nessuna macerazione – dà un’espressione carica e ricca di significato, un vino che rinfresca e soddisfa, un vino che, sapendo di senape, come dice Federico Fiori, va a nozze con la carne cruda.

Rimaniamo a sud ma entriamo nel più classico Oltrepò Pavese; qui incontriamo Gianluca Cabrini dell’azienda Tenuta Belvedere. Gianluca tentenna leggermente sulla scelta del vino che rappresenti il suo lavoro ma alla fine ci fa conoscere il WAI 2017, un blend di pinot nero e riesling italico rifermentato in bottiglia, una “pre-bolla” come lo definisce lui. Il nome scelto per il vino, “wai”, è un saluto thailandese che augura buona sorte e amicizia a chi si incontra ed è sicuramente adatto per un vino che vuole essere leggero, allegro e godibile come il bello di un’amicizia sincera. E dalla fresca e piacevolissima “frizzantezza” che questo vino ci trasmette, a tavola lo immaginiamo con crudi di pesce, frittate, crostacei e, perché no, anche con una pizza. 

Sempre in Oltrepò, facciamo due chiacchiere con Giuseppe dell’azienda Piccolo Bacco dei Quaroni. La cantina, di antica tradizione, è storica nella produzione di pinot nero: è infatti stata la prima a produrlo nella versione ferma. Il vino presentato, ça va sans dire, è quindi un pinot nero in purezza, Vigneto La Fiocca 2016; macerazione corta, 9 mesi di barrique e riposo in vasche di cemento prima dell’imbottigliamento. Un vino molto classico che esprime appieno le potenzialità del territorio dove nasce e cresce. 

Il miglior abbinamento a tavola? Secondo Giuseppe il loro pinot nero è da considerare quasi come fosse un vino bianco e quindi non ha dubbi Sun un matrimonio con un pesce grasso, di fiume o lago, in bianco o in guazzetto.

E il nostro Oltrepò ha ancora da raccontare: è il turno di Castello di Stefanago, azienda navigata che risiede in un luogo incantevole. Facendoci strada tra i tanti campioni portati in degustazione, alla fine la scelta ricade sul San Rocco 2011, un riesling renano in purezza. Il riesling, soprattutto l’italico, alla pari del pinot nero, è certamente uno dei vitigni più rappresentativi del territorio; Giacomo Baruffaldi lavora in particolare quello renano perché segue la sua passione per i vitigni più aromatici e sostiene che a livello di terroir – con tutta l’ampiezza di significato che questo termine porta con sé – non abbiamo nulla da invidiare ai tedeschi o ai francesi. Infatti questo riesling renano, equilibrato ed elegante, ha il potere di trasportarti, con l’immaginazione, in un ristorante di Colmar, ma con nel piatto un bel risotto nostrano.

Infine, come altro rappresentante dell’Oltrepò, arriva Martilde, un’azienda così denominata dalla crasi tra i nomi di due gatte care ai produttori: Martina e Matilde. Ci accoglie e racconta del lavoro suo e della moglie Antonella, Raimondo Lombardi che sceglie di degustare con noi la Bonarda 2015 poiché è il vino rappresentativo non solo dell’azienda ma soprattutto della zona di Rovescala, luogo scelto per la loro produzione. Croatina in purezza, solo acciaio, nulla di aggiunto per valorizzare il vigneto e il lavoro in campagna; un gusto ricco e morbido che lascia impresso un sapore inconfondibile del vitigno e del territorio. In abbinamento ci vediamo un primo con sugo di carne, brasato e spezzatino. 

DivellaVeniamo alla Franciacorta e con l’azienda Divella assaggiamo, naturalmente, un Metodo Classico. Clo Clo 2015, pinot nero in purezza rosé e pas dosé, 36 mesi sui lieviti, è il vino scelto per dare voce alla parte orientale del territorio e alla ricerca di tutti quei fattori (tempo della vendemmia, acidità di base, fermentazione spontanea) che esaltano le caratteristiche di una bollicina elegante ma con nerbo e di classe. Alessandra Divella ci spiega che il lavoro in vigna e in cantina è volto ad esaltare le caratteristiche che la natura ci regala senza stravolgimenti. L’abbinamento? Secondo Alessandra un Metodo Classico, ben fatto, sta bene con tutto, quindi sta a noi assaggiare questo vino con molteplici preparazioni culinarie.

Incontriamo sul fondo della sala, in una compostezza di altri tempi, Mario Gatta, responsabile dell’azienda che porta il suo nome. Siamo a Gussago, Brescia, confinanti con l’anfiteatro morenico della Franciacorta, ma qui il terreno è di origine marina: argilla e calcare che donano mineralità e sapidità. Mario coltiva solo pinot nero dal quale ricava dei Metodo Classico di impatto inconsueto ma intrigante. Presenta il suo Traccia, un Blanc de Noirs che passa 40 mesi sui lieviti, non dosato, dal carattere fine e incisivo, un sorso al quale abituarsi che però dà tantissime soddisfazioni. Anche Mario è convinto che una buona bollicina non abbia bisogno di un suggerimento per l’abbinamento, per cui sbizzarritevi e provatelo con tutto.

Saliamo in Valtellina e ci facciamo ospitare da Matteo Sega dell’azienda Barbacàn, gente di montagna che parla ancora in dialetto, anche nei vini. La chiavennasca (guai a dire nebbiolo, quello lo fanno in Piemonte), è il vitigno principe e incontrastato. Matteo infatti lascia che a parlare sia il Pizaméj 2016 che porta con sé tutta l’antica tradizione che lega la Valtellina al suo vitigno principe. A onor del vero, questo vino ha una piccolissima percentuale di rossola, altro vitigno autoctono e dimenticato che presenta molte affinità genetiche con la chiavennasca; un vino complesso, scalpitante e raffinato che fermenta in maniera spontanea, riposa in botte grande per un anno, poi acciaio e bottiglia. Matteo ci parla di una viva uva sana, quella che con fatica viene raccolta a mano e trasportata in cantina per far sì che dia il meglio di sé. I formaggi sono senza dubbio la pietanza migliore da scegliere in abbinamento.


Chiudiamo il nostro piccolo giro lombardo con la cantina Boffalora di Giuseppe Guglielmo. Restiamo tra i filari terrazzati della Valtellina e assaggiamo il Pietrisco 2016 che prende il suo eloquente nome dal territorio in cui nasce; è il prodotto di punta dell’azienda, una chiavennasca in purezza che macera due settimane, fermentazione spontanea, 12 mesi in botte ed è una bella interpretazione del vitigno e del territorio: un sorso ricco e nel contempo sapido e fresco, un vino che può fare buona compagnia a pesci grassi in salsa.