Moscato d’Asti, identikit di un vino sorprendentemente sfaccettato

Moscato d’Asti, identikit di un vino sorprendentemente sfaccettato

Degustando
di Marco Agnelli
17 maggio 2021

L’insospettabile duttilità del vino da dessert per eccellenza può rivelare una stupenda propensione a sfidare tempo e abbinamenti inconsueti. Ci siamo confrontati su questo argomento con Davide Garofalo, in un appuntamento del “Ritrovino” interamente dedicato al Moscato di Asti.

Il Moscato d’Asti è probabilmente il più noto vino dolce d’Italia, che ha accompagnato e suggellato tante occasioni storiche, a cominciare dall’Unità d’Italia. La zona di produzione si colloca in un vero e proprio distretto letterario, narrato da Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Giovanni Arpino, Gina Lagorio. Questi autori, nei loro capolavori, hanno magistralmente tratteggiato le colline serpeggianti attraverso le quali ci muoveremo avendo come guida Davide Garofalo.

Il relatoreTra le denominazioni d’Italia, il Moscato d’Asti ha un unicum: quello di sottendere un’escursione altimetrica di quasi 600 metri, tra i 701 m s.l.m. della zona di Mango e i 127 della zona di Strevi. L’areale è spalmato su 3 province (Cuneo, Asti e Alessandria), per un totale di quasi 10000 ettari vitati su 52 comuni, all’interno di un territorio che, visto dal satellite, sembra letteralmente preso a picconate tanto è caratterizzato da crinali e calanchi. La fisionomia del paesaggio è rappresentata da veri e propri monumenti viticoli, i sorì(letteralmente “soleggiati”, ma anche “sorrisi”), pendii scoscesi lungo i quali si arrampicano i vigneti.

Il moscato è camaleontico: in Italia lo si trova un po’ ovunque. È un grandissimo lettore del territorio e vive di un paradosso: alla soave leggiadria per cui è noto fa, da contraltare, una grande vigoria. Parliamo infatti di un’uva a suo modo rustica, forte, che dà il meglio di sé in zone caratterizzate da terreni subalcalini, che soffre su terreni acidi e che dà prodotti non particolarmente fini su terreni argillosi. Il moscato non teme botrite e oidio, mentre è sensibile nei confronti della peronospora.

Elemento insospettabile e filo conduttore del confronto che seguirà, è il potenziale di invecchiamento di questo vino, virtualmente uno tra i più longevi d’Italia sebbene non vi sia l’abitudine a sfidarlo alla prova del tempo. Lo stesso disciplinare, nella redazione precedente a quella attualmente in vigore, raccomandava di non prolungare la conservazione del Moscato d’Asti oltre i 12-24 mesi dal momento dell’imbottigliamento, pena la possibile perdita di fragranza. Ma, sottolinea Garofalo, «la deriva ossidativa nelle versioni più ispirate non è assolutamente da temere».

Se si considera che solo il 5% dei produttori ha meno di 40 anni mentre sono moltissimi quelli che superano i 65 anni, l’età media dei vignerons è piuttosto alta, come quella delle vigne di cui si prendono cura. La frammentazione parcellare non ha nulla da invidiare alla Borgogna, aggiunge Garofalo, a sottolinearne la complessità della fisionomia. A partire dalle tre sottozone indicate nel disciplinare (Canelli, Santa Vittoria d’Alba e Strevi) ci si addentra in una serie di cru e toponimi che, in alcuni casi, ricordano la durezza e l’asperità del territorio, tipo Crevacuore, Moncucco, Brunetti,Serre, Monterotondo.

I comuniEntrando nel vivo della serata, iniziano le conversazioni intorno alle bottiglie dei partecipanti, caratteristica peculiare del “Ritrovino” virtuale. Ecco alcuni dei contributi offerti, con l’obiettivo di tratteggiare il quadro dell’affascinante complessità di un vino dalle infinite potenzialità.

Apriamo con un’interpretazione straordinariamente innovativa proposta dallo stesso Davide: la Moscata di Mongioia, un Moscato d'Asti DOCG Canelli, il primo e, fino a ora, unico vino dolce vinificato in anfora, con metodo brevettato da Riccardo Bianco, in frazione Valdivilla. Ossidazione nella riduzione, colore magnifico regalato dalla vinificazione. Il naso è agrumato - tutto scorza e per nulla candita - e poi mela golden, albicocca e mandarino a cui, dopo qualche minuto, fanno seguito menta e basilico. Qui non si trova il sentore di salvia sebbene sia uno dei descrittori più spesso citati nel Moscato.

«Sarà prevedibile, ma nel mio, invece, ne avverto una profusione», sottolinea Marco parlando del vino che sta degustando, un Moscato proveniente da Santo Stefano Belbo: Fabio Perrone 2019. Un profilo molto classico che, secondo il collega, all’esame olfattivo identifica - oltre alla menzionata salvia - agrume, erbe officinali, basilico e caramelle Ricola. Qui si ritrova in pieno il carattere sferzante tipico della zona di provenienza. All’assaggio due binari corrono paralleli: la morbidezza che, naturalmente, la fa da padrone e l’acidità, talmente vibrante da lasciare presupporre un percorso appena iniziato che potrà spingersi tranquillamente per qualche altro anno senza ipotizzare perdita di vigoria.

Sono addirittura tre i colleghi che hanno scelto l’interpretazione di Moscato di Vittorio Bera. Giuseppe e Alessandro ci parlano dell’annata 2019, caratterizzata da una pulizia cristallina e da un ventaglio di profumi su cui emergono lavanda, menta e mandarino. Piacevolissimi i ricordi di fiori di campo e di erba appena tagliata, per poi chiudere l’indagine olfattiva con interessanti sensazioni che rimandano a prodotti dell’alveare quali pappa reale, miele di acacia e di millefiori. Molto equilibrato, con una dolcezza ben bilanciata da un’ottima acidità che regala a questo vino un’appagante bevibilità. È una versione di Moscato non eccessivamente zuccherina, che può permetterci di ragionare su abbinamenti con preparazioni vegetariane, formaggi freschi morbidi e magari, forzando leggermente verso il basso la temperatura di servizio, anche una bagna càuda.  Rimanendo su una preparazione del territorio, Alessandro propone di metterlo alla prova su un fritto misto alla piemontese. Francesco, che di questo stesso vino ha l’annata 2016, sottolinea che nel millesimo che sta degustando emergono sentori di frutta secca, mandorla e nocciola, figli di qualche anno in più d’evoluzione. La conclusione su cui alla fine tutti convergono è che acquistare una bottiglia di Moscato e dimenticarsela per 3-4 anni in cantina può regalare grandi e inaspettate soddisfazioni.

Cesare Pavese«Il Moscato è il miglior vino da dessert al mondo… e Nivole è continuamente il migliore» diceva Michael Broadbent, direttore di Christie’s e Presidente dei Masters of Wine di Londra.

Franco ci parla proprio di Nivole di Michele Chiarlo. Un nettare particolarmente suadente che, per l’occasione, ha deciso di degustare prima con calice e poi con coppa, mettendo in rilievo le differenze. Con la coppa, secondo Franco, le sensazioni arrivano più equilibrate come se fosse presente una sottrazione di dolcezza e le attivazioni gusto-olfattive giungessero tutte insieme e non in sequenza. Colore paglierino, al naso mela, note fresche di citronella, mentre in bocca grande presenza di ananas, descrittore che combina acidità e sapidità. La nota sapida accompagna un finale decisamente lungo che potrebbe ben sposarsi con stracchino o anche con risotto e gamberetti.

«Fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato. Qui il caldo più che scendere dal cielo esce da sotto, dalla terra, dal fondo tra le viti che sembra si sia mangiato ogni verde per andare tutto in tralcio.»

(Cesare Pavese, La luna e i falò)