Nebbiolo Grapes 2009

Nebbiolo Grapes 2009

Degustando
di Davide Bonassi
04 giugno 2009

Un vitigno di cui parlare e assaggiare tanto. La parte scientifica della tre giorni della manifestazione svoltasi a Sondrio a fine marzo.

Tante le sollecitazioni, come si addice ad un convegno di caratura internazionale, provenienti dai relatori succedutisi lo scorso 27 marzo sul palco a Sondrio in occasione della terza edizione di Nebbiolo Grapes. Tante da rendere impossibile farne completa sintesi nelle poche righe a disposizione di un articolo. Giusto quindi lasciare agli atti del convegno il compito dell’esaustività e limitarci a riflettere solo su alcuni passaggi, mi auguro tra i più significativi. Innanzitutto dalle parole di Casimiro Maule, Presidente del Consorzio di Tutela Vini di Valtellina e dell’omologo langarolo Claudio Rosso, è venuto il giusto richiamo al valore storico, estetico e ambientale che i vigneti a nebbiolo di Valtellina e piemontesi assicurano. Valore tale da motivarne la candidatura a territori tutelati dall’Unesco.

Il Prof. Osvaldo Failla, moderatore dell’incontro, ha posto l’accento sull’idea paradossale alla base di Nebbiolo Grapes: promuovere vini di territorio, quali Barolo, Barbabaresco, Valtellina e altri ancora, attraverso il solo nome del vitigno.

Paradosso solo apparente, data la capacità di queste zone di fare sistema proprio in nome del nebbiolo. Anna Schneider del CNR di Grugliasco (TO) ha ricordato che il nebbiolo è uno dei primi vitigni italiani ad essere storicamente menzionato, diffuso su di un vasto territorio già nel 1300 e già allora considerato vitigno di valore economico.



Per questo meritevole, sfruttando le moderne possibilità di indagine genetica legate ai

microsatelliti, di essere indagato per scoprirne le precise origini. I vitigni ad oggi individuati

come i più vicini geneticamente al nebbiolo (vespolina, freisa, ecc.) sono figli o genitori del nebbiolo con il contributo di un altro vitigno non ancora individuato.

E magari nel cercare questo genitore mancante potrebbe anche scoprirsi un’origine non alpina di questo vitigno, delineando provenienze lontane e sorprendenti. Vitigno tutt’altro che ubiquitario, potremmo dire no global, in quanto così sensibile all’ambiente in cui viene coltivato da essere in sostanza circoscritto alla falda dell’Alpe, per dirla con le parole del Gallesio. Interessanti approfondimenti su contenuti più squisitamente tecnici sono stati svolti da Vittorino Novello dell’Università di Torino che ha riferito di lavori di zonazione condotti nei terroir a nebbiolo del Piemonte; da Vincenzo Gerbi sempre dell’Università

di Torino che ha fatto il punto della situazione circa la messa a sperimentazione di metodiche strumentali che possano sostituire l’analisi sensoriale dell’uva per la valutazione della quantità di sostanze fenoliche presenti e da Roberto Foschino dell’Università di Milano che ha illustrato i risultati di una ricerca sponsorizzata dalla Regione Lombardia. Quest’ultima ha permesso di individuare alcuni ceppi di enococchi, tipici dell’ambiente valtellinese dalla spiccata psicotrofia, cioè in grado di innescare la conversione malolattica anche in condizioni di basse temperature.



Nel forum svoltosi nel pomeriggio, intitolato “Uno stile chiamato Nebbiolo. Nuove

visioni per comunicare il futuro”, interessanti contributi sono venuti dal moderatore,

Giacomo Mojoli, già tra i massimi esponenti del movimento Slow Food, dal sociologo

Aldo Bonomi e dal giornalista Gianni Fabrizio, già coordinatore della Guida Vini

d’Italia Gambero Rosso - Slow Food. Il primo ha invocato un approccio multidisciplinare nel trattare di vini e zone vitivinicole, approccio alla base dei percorsi accademici proposti dall’Università di Scienze Gastronomiche in quel di Pollenzo, tenendo conto di quello che è oggi il nuovo grande tema di fondo: quello della sostenibilità.

Esaltare la propria identità, tradizione e il proprio territorio può diventare motivo di

originalità verso una globalizzazione tentacolare. Non si deve però degenerare nel localismo, ma sicuri di una identità forte non bisogna avere paura di aprirsi al confronto.

Aldo Bonomi ci ricorda che l’identità, in questo caso di un territorio vitivinicolo, non

sta nel soggetto ma nella relazione.

Da qui l’invito a che i territori non siano luoghi di rinserramento, bensì sistemi aperti, vissuti localmente e comunicati globalmente. Sull’attuale crisi la lezione che Bonomi si sente di suggerire poggia su due vie d’uscita: green economy e nuovi modelli di crescita economica che sappiano coniugare consumi e sviluppo con sobrietà e limiti.



Da Gianni Fabrizio il sorprendente messaggio, visto il ruolo avuto dallo stesso in un recente passato, di superare la prosa delle guide per scrivere di vino con nuovo spirito, come Andrea Scanzi e Roberto Cipresso, ad esempio, hanno saputo ben fare ultimamente. Dal lato dei produttori Gianni Fabrizio vede la necessità di recuperare una comunicazione face-to-face con il consumatore, non più mediata solo dalle guide, riscoprendo il valore dell’accoglienza nelle cantine e intercettando così a pieno il flusso enoturistico, notevolmente incrementato negli ultimi anni. In un’economia delle esperienze, in cui il consumatore, anche di vino, ricerca non un prodotto di per sé ma l’esperienza che quel prodotto gli può far vivere, attributi come buono, sano ed etico discrimineranno ciò che avrà mercato o no. Guarda caso da diversi anni Ais Lombardia ha istituito il premio “Il Sano”, a consacrare le cantine lombarde capaci di interpretare queste nuove istanze.



PROSIT!

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