Nebbiolo, il vitigno, la sua storia e le sue origini

Nebbiolo, il vitigno, la sua storia e le sue origini

Degustando
di Natale Contini
23 gennaio 2008

Comunemente ritenuto originario dell’albese recenti studi e approfondite analisi scientifiche su frammenti di DNA non escludono l’ipotesi che sia invece originario della Valtellina

[Da marzo un seminario di studio sul nobile vitigno organizzato in dall’Ais in Valtellina con il sostegno del Consorzio vini e della Provincia di Sondrio]

Così come altri vitigni di nobile lignaggio anche il nebbiolo ha un ciclo molto lungo con un germogliamento e fioritura precoci mentre la maturazione è tardiva (quarta epoca, da metà a fine ottobre) anche se i fenomeni climatici in atto stanno modificando parecchio le cose. E’ un uva dagli acini molto fitti e piuttosto piccoli dal colore turchino (azzurro cupo) molto sensibile alle differenze di terreno e di clima. E’ quello che potrebbe definirsi un vitigno da terroir per antonomasia che nei suoi luoghi di elezione produce sempre grandi vini anche se sostanzialmente diversi tra loro. Ma si tratta quasi sempre di vini di nerbo, forti e potenti, molto ricchi e complessi, fini ed eleganti, che hanno bisogno di invecchiare a lungo per raggiungere pienamente quelle caratteristiche che li rendono superiori, di gran classe e giustamente celebri. Vini quasi misteriosi che affascinano, unici ed inconfondibili. Il nebbiolo è idoneo ad essere coltivato in tutto il Piemonte, in Valle d’Aosta, in Valtellina, Franciacorta e in Sardegna. E poi basta. In totale circa 4.700 ettari allevati con questo nobile vitigno in Italia. Più altri 627 sparsi in tutto il resto del mondo! Ne consegue che in un mondo globalizzato il nebbiolo resta autoctono per eccellenza poichè fortemente legato alle sue zone di origine. Il suo nome deriverebbe secondo alcuni da “nebbia”, proprio perché i suoi acini danno l’impressione di essere “annebbiati”, ricoperti dalla pruina abbondante, secondo altri invece dalla tardiva maturazione dell’uva, che spinge la vendemmia al sorgere delle prime nebbie d’autunno. Dopo le alterne vicissitudini legate alle cosidette malattie americane (oidio, peronospera e fillossera) che falcidiarono la viticoltura europea dalle metà dell’800 ai primi del ‘900 il nebbiolo rimase coltivato solo nelle zone veramente vocate alla produzione di grandi vini. A dimostrazione che questo vitigno non si adatta al di fuori dei territori in cui si è storicamente affermato a causa delle difficoltà di coltivazione e vinificazione. Ma da dove trae origine, qual è la sua storia?. Come per altri vitigni tutto si perde nella notte dei tempi. Già, Columella, scrittore romano del I secolo d.C., autore del più completo trattato sull’agricoltura dell’antichità, il De re rustica, definiva il vitigno nebbiolo come “grappoli di uva nera che danno vino da località fredde” dal sapore di pece, intendendo forse con località fredde proprio le attuali zone di produzione notoriamente caratterizzate da climi piuttosto rigidi. La testimonianza più antica in terra albese risale al 1292: in un contratto d’affitto di un terreno sito nel territorio di Alba, in località “tra i due ponti”, tra gli obblighi per l’affittuario c’era anche quello di piantare “filagnos de vitibus neblorii”. Ma ce ne sono numerose altre di diverse zone. Una tra le più antiche relativa all’astigiano la si trova in un testamento del 1295 con cui Tommaso Asinari lascia in eredità alla moglie quattro “bottalli” di vino puro delle sue vigne di Camerano “duos de nebiolo et duos de nostrali”. Altre attestazioni parlano di un’”uva nubiola” coltivata sempre nell’astigiano nel 1324, a Pinerolo nel 1428, in Valle d’Aosta e in Valtellina. Mentre nel 1303, un tal Guglielmo Bayamondo, per l’affitto annuale di un terreno a Canale, deve ai Conti Roero due carrate di vino, una “de bono, puro vino moscatello” e l’altra “de bono, puro vino nebiolio”.
Molte le leggende, le congetture e i luoghi comuni sul nebbiolo. Il più noto dei quali vorrebbe che esso abbia origine dalle Langhe o meglio dall’albese, le terre del Barolo e del Barbaresco, per poi riapparire a Canale, Moncalieri e nell’astigiano. Di certo è che il nome “nebiolius” o “ nibiol” compaia in un documento del 1268 che accenna ad alcune vigne disposte nei dintorni di Rivoli. Di grande importanza, poi, le citazioni di Pier de’ Crescenzi nel “Trattato della Agricoltura” del 1304 (scritto in latino e poi traslato in volgare) che lo descrive per la prima volta in modo completo ed esauriente definendo quest’uva “meravigliosamente vinosa” amante dei sorì e della terra “grassa e molto letaminata” e che “fa ottimo vino e da serbare e potente molto, e non dee stare ne’ graspi oltre un dì o due”. E viene poi citato come vitigno presente nella Via Francigena che da Torino attraverso la Val di Susa saliva fino al Monginevro. Anche nel famoso trattato di Giovanni Battista Croce, gioielliere di casa Savoia, “Della eccellenza e diversità dei vini che nella Montagna di Torino si fanno e del modo di farli”, del 1606, si parla con cognizione di causa di nebbiolo nonchè delle preferenze della nobiltà piemontese dell’epoca in fatto di vino. Per produrre un buon vino, si sostiene, è fondamentale la scelta delle uve e il vitigno che risulta essere preferito è ancora una volta il nebbiolo, “poiché fa un vino generoso, gagliardo e dolce ancora… qual lungamente e bene si conserva”. Successivamente, sarà il conte Nuvolone (1799) ad accennare a numerose sotovarietà del nebbiolo quali il picotener e relative varianti dell’alto Canavese e Valle d’Aosta, lo spanna di Gattinara , la chiavennasca della Valtellina, la melasca del biellese, la brunenta dell’ossolano, e la martesana del comasco. In Valtellina si acenna alla chiavennasca in altri documenti di epoca medioevale, mentre del vino della Rezia scrivono nel periodo romano, decantandone le caratteristiche,Plinio, Virgilio, Strabone. Ma, ancor prima giunsero in terra retica i liguri ad impiantare i primi vigneti (terrazzati?) portandone di consegunza i relativi vitigni (ma quali?). In ogni caso risulta documentato che già alcuni secoli prima del 1000 il Monastero di Sant’Ambrogio di Milano era proprietario nel versante retico valtellinese di molte vigne a coltura specializzata, il cui prodotto era destinato quasi certamente, oltre che al consumo locale, anche ai monaci del capoluogo lombardo. E queste vigne erano piantate a quanto pare con quel vitigno definito volgarmente “ciuinasca”, “chiuvinasca”, (o termini similari che poi diventano quello defintivo di chiavennasca, ossia il nebbiolo valtellinese) termine che si ritrova in numerosissimi contratti agrari, statuti comunali, atti giuridici, a partire dal 1600 come ricorda lo Zoia nel libro “Vite e vino in Valtellina e Valchiavenna”. E adesso è bene lasciar parlare un prezioso recente documento (2006) redatto a conclusione di una ricerca – la cui prima parte è stata presentata durante il Nebbiolo Grapes nel febbraio del 2004 a Sondrio - sulle “relazioni genetiche del vitigno nebbiolo” da alcuni studiosi del CNR e dell’Università di Torino: Anna Schneider, Paolo Boccacci e Roberto Botta. Innanzitutto i genotipi del nebbiolo sono soltanto due (e non tre), il lampià e il rosè poiché il michet altro non è che un lampià affetto da un virus,mentre la freisa è addiritura indiziata quale madre del nebbiolo. E il padre? Il padre – udite, udite – potrebbe essere uno dei tanti vitigni autoctoni valtellinesi, purtroppo in via di estinzione. Mentre, altra importante scoperta, il nebbiolo rosè sarebbe quello che in Valtellina viene chiamato chiavennaschino (coltivato soprattutto in zona Sassella) a causa di un grappolo più ridotto rispetto alla chiavennasca (biotipi chiavennascone, briotti e intagliata). D’altra parte fin dal 1996 nella indagine condotta dalla Fondazione Fojanini sui vitigni presenti nel vigneto valtellinese si affermava che con il nome chiavennaschino “viene denominato il vitigno coltivato nell’area compresa fra Triasso, S.Anna e Moroni in Comune di Sondrio (zona Sassella) e chiamato rossola di Sondrio o anche Pignola in altre zone”. “I nostri viticoltori, prosegue lo studio, individuano i seguenti tipi di chiavennasca così denominati: “ciavenasca”,”ciavenaschin”, “ciavenascon” e “ciavenasca intagliata”: Un osservazione opportuna deve essere riportata a riguardo del chiavennaschino ritenuto localmente un nebbiolo, in realtà si tratta di altra varietà nettamente distinta e descritta in seguito”.Segue scheda ampelografica dalla quakle emergono le sostanziali differenze. Torando invece alla indagine del CNR di Torino, così scrivono gli appassionati ricercatori: “Lo studio delle relazioni genetiche del nebbiolo ovvero dei rapporti di parentela con altri vitigni ha lo scopo di far luce sull’origine, la storia, la provenienza e l’evoluzione dell’area colturale di quest’antica e nobile cultivar. Pur assai rinomato fin dal passato non pare che il nebbiolo si sia mai allontanato dal Piemonte e dall’arco alpino occidentale. Ma è proprio così? E’ proprio questo il suo luogo d’origine?“ Le indagini sono state svolte con grande rigore scientifico analizzando frammenti di DNA mediante marcatori molecolari microsatelliti. Già nel 2004 vennero indicati – nella relazione svolta al Nebbiolo Grapes – sei cultivar di vite e precisamente il nebbiolo rosè, freisa, negrera, vespolina, rossola e bubbierasco come “strettamente legate al nebbiolo”. In seguito proseguendo nel lavoro di ricerca “le cultivar geneticamente vicine al nebbiolo si sono confermate quelle indicate in precedenza con l’aggiunta di neretto di S. Giorgio, brugnola, bressana, ortrugo e chasselas”. Queste le conclusioni di sintesi della relazione finale: “Come già esposto due anni or sono (2004) la sottovarietà rosè è un genotipo distinto legato al nebbiolo da un rapporto diretto di parentela…..Tuttavia se si pensava che il “nebbiolo rosè” avesse diffusione limitata all’albese, di cui si supponeva originaria, indagini più recenti hanno dimostrato la sua presenza anche in altre aree viticole, tra cui la Valtellina, dovè è significativamente chiamato chiavennaschino. Quanto alle relazioni genetiche gli approfondimenti condotti hanno confermato l’esistenza di una decina di cultivar legate al nebbiolo da un rapporto di parentela molto stretto”. Tutte e dieci le cultivar in questione sono proprie dell’Italia Nord-Occidentale e ben sei provengono dalla Valtellina”…(negrera, rossola,rossolino nero, brugnola, bressana oltre al pluricitato chiavennaschino)..”L’ipotesi che il nebbiolo tradizionalmente legato all’ambiente colturale alpino, sia originario della Valtellina è possibile, ma, allo stato attuale delle conoscenze, non ancora stata dimostrata. I parenti stretti del nebbiolo potrebbero essere tutti progenie, anziché antenati, del nebbiolo stesso e dai nostri studi è emerso un quadro piuttosto intricato, in parte ancora da decifrare. Un rompicapo, insomma, che sarà possibile chiarire solo a patto che gli elementi mancanti del puzzle (eventuali genitori o partners del nebbiolo) non siano già scomparsi”. Ipotesi quest’ultima abbastanza verosimile se si pensa che buona parte dei vitigni autoctoni valtellinesi indicati sono in via di abbandono anche se sono tutti egregiamente descritti nell’interessante studio della Fondazione Fojanini, in questo caso antesignana, dove tra l’altro le affermazioni circa il nebbiolo rosè, alias chiavennaschino, quale vero e proprio genotipo distinto del nebbiolo sono anticipate e confermate. Come a dire che almeno in Valtellina alcune cose erano già conosciute nella memoria storica e nella pratica quotidiana dei viticoltori. In ogni caso attendiamo con immutato interesse le ultiori indagini dei ricercatori piemontesi sperando in una conclusione defintiva, chiara e univoca circa le origini del nobile vitigno. Intanto continuiamo ad apprezzarne i prodotti e valutarne le differenze tra una zona e un'altra, tra una vigna e un'altra. E a tale scopo sarà particolarmente apprezzato e di grande attualità il seminario di studio sul nebbiolo che l’Ais di Sondrio ha organizzato per la prossima primavera al fine di confrontare e comparare le zone, i vini, gli stili di produzione, gli interpreti del massimo rosso italiano. Come dire: dalla teoria alla pratica, dopo la storia e le origini valutiamo il prodotto che n’è conseguito.

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