Raffaele Palma, in un calice il sole della Costa d’Amalfi

Raffaele Palma, in un calice il sole della Costa d’Amalfi

Degustando
di Giuseppe Vallone
07 maggio 2019

L’imperdibile occasione di incontrare e conoscere Raffaele Palma, vignaiolo (e non solo) autenticamente genuino che a Maiori, in Costa d’Amalfi, ha realizzato una moderna azienda biologica, donando nuovo slancio a un terroir eccezionale

L’appuntamento è davanti l’Hostaria Santa Maria, qualche curva oltre il centro di Maiori, è una mattina soleggiata, calda, non sembra neanche più primavera.

Raffaele ci viene incontro, distinto ed elegante nel suo cardigan blu, ci dice di seguirlo fino a dove potremo parcheggiare. Lasciamo la nostra auto, decisamente troppo cittadina, in uno slargo di una stradina secondaria che, dalla Statale 163, si inerpica lungo il dorso della collina, e saliamo sulla Panda 4x4 del nostro ospite.

È affabile, Raffaele Palma: ci racconta che dopo una vita passata nel commercio e nell’importazione di legnami, con decine di voli all’anno, orari e ritmi frenetici, non si immaginava di vivere la pensione seduto su una poltrona, ne sarebbe morto. Così, lui che veniva dalla campagna di Giugliano, cittadina a nord di Napoli, alla terra ha deciso di tornare. E che terra.

Mentre la Panda prosegue senza sforzo nel suo tragitto ascensionale, alla nostra sinistra si apre uno scenario che è riduttivo definire mozzafiato: un anfiteatro naturale, costellato di limoneti e vigneti, a fare da cornice al turchese accecante del mare che si fa piccolo in una stretta baia. Uno spettacolo per gli occhi e il cuore.

Circa una quindicina di anni fa Raffaele ha deciso di investire qui la sua seconda giovinezza, dando nuova linfa a terre che erano ormai incolte e abbandonate, acquistando in più riprese diversi appezzamenti da una pluralità di contadini, con in testa un progetto che era solo parte del tutto odierno.

Ha ristrutturato alcuni degli edifici preesistenti, creando una cantina tanto funzionale quanto originale per l’ottimizzazione dei suoi spazi interni, e ha dato vita – con un ristretto gruppo di validi collaboratori – ad un’azienda biologica che ha, nel vino, solo uno dei cuori pulsanti.

Prima, infatti, foss’anche perché parcheggiata l’auto è impossibile non vederli, ci sono i limoni: Raffaele ci fa strada, una piccola scaletta in pietra e siamo nel limoneto, su una delle terrazze coperte da teloni a protezione dalla grandine che si protendono da metà costa sino quasi al mare. 

È una esperienza tanto semplice quanto incredibile. La biodiversità che c’è lì sotto è esaltante, segno inequivocabile che il regime biologico adottato sin dall’origine dall’azienda è positivo tanto per l’uomo quanto per l’ambiente. Raffaele ci guarda, sorride, ci spiega che quella grossa sfera ellittica che stringe tra le mani, di un giallo abbronzante, è un “femminello sfusato”, così detto per la sua forma e per la pochezza di semi. La scorza è edibile, Raffaele ci tiene a precisarlo, una lavata e si può assaporare il carattere citrino ma non amaro né troppo acidulo di questa varietà di agrume, grazie al fatto che i trattamenti sono ridotti e ben al di sotto dei limiti imposti dal regime biologico.

Riprendiamo il sentiero che si snoda tra i limoneti ed ecco apparire il complesso di piccoli edifici che costituisce il fulcro dell’azienda. Ad attenderci c’è una poiana messicana, indefesso allarme contro intrusi umani e non, che appena ci vede inizia senza sosta il suo canto vagamente inquietante. La ringraziamo per l’accoglienza e proseguiamo.

Il nostro ospite ci mostra i vari ambienti, raccolti e adattati alle esigenze di una moderna cantina: pochi silos, alcuni all’aperto sotto un pergolato, qualche botte di rovere, tutto qui. Davanti e tutt’attorno a noi, lo spettacolo impagabile dei vigneti digradanti verso il mare, allevati a pergola come vuole la tradizione amalfitana, intervallati dai limoneti e da duemila ulivi, il mare, il profumo della macchia mediterranea con le sue erbe aromatiche, la sua salinità, il sole ad accarezzarci la pelle. Estatico.

Ci accomodiamo sotto il pergolato, siamo mia moglie, Raffaele ed io, nessun altro, nessun rumore diverso dal suono della natura.

Raffaele si assenta qualche secondo, ha inizio la degustazione. Torna con una piccola caraffa contenente la sua falanghina, è un campione da vasca dell’ultima vendemmia. Ci tiene a che possiamo apprezzare, singolarmente, le tre componenti del suo rinomato bianco, il Puntacroce.

Avviciniamo il calice al naso, note iodate a far da sfondo a frutta esotica e erbe aromatiche. In bocca è sapido e fresco ma già morbido, pulito negli aromi tanto quanto lo è nei profumi. Se il buon giorno si vede dal mattino, non vediamo l’ora di proseguire.

Raffaele ha pronto il secondo assaggio, è un campione di falanghina della medesima annata, solo proveniente da un altro vigneto. L’assaggio è significativamente diverso, più frutta esotica, ananas in particolare, e meno accento salmastro, più rotondità e meno sapidità, sempre eccellente la freschezza. Raffaele ci spiega che in effetti quel vigneto è collocato in una zona più fredda e meno esposta al sole del precedente.

La mattina prosegue, si beve, si parla e ci si conosce. Il nostro ospite ci spiega che lui non organizza visite in cantina, se non per poche persone e in gruppetti minuti, sempre e solo per il puro piacere di condividere un’esperienza: «mi chiamano continuamente i tour operator, vogliono far fare i giri ai turisti stranieri, ma io gli rispondo di no, che non faccio visite, tengo da lavorare». Ci sentiamo onorati di essere lì, con lui, anche se imbarazzati perché la condivisione ci pare abbastanza a senso unico. 

Il terzo assaggio è un blend di falanghina e ginestra, vendemmia 2018: al naso la frutta esotica si sfina sino a diventare la tela su cui si dipingono accenni di fiori bianchi e frutta a polpa bianca, macchia mediterranea e una caratteristica nota agrumata. In bocca entra più largo, equilibrato e rotondo, ben sapido e fresco.

È il turno della biancolella, racconto a Raffaele del nostro primo approccio con questa varietà, un vino prodotto da uve provenienti dal Monte Epomeo, a Ischia. Ci guarda e, ancora una volta, sorride. È conscio del suo terroir, è consapevole della qualità delle sue uve e della mano che confeziona i suoi vini. In effetti, il campione – ce ne vuole a ricordarsi che di campione si tratta – è fresco, gioca tutto sull’agrume, sulla foglia di limone, ha già classe, mostra nitido il mare che sta in fronte a noi.

Mentre avanziamo affascinati nella degustazione, noto che Raffaele ci ascolta, ma non parla dei suoi vini. Ci racconta di ciò che sta attorno ai suoi vini, delle soddisfazioni che sta collezionando, ma nulla sulle loro caratteristiche intrinseche: «cosa devo dire, io? Chi sono per parlare dei miei vini? Io devo ascoltare voi, siete voi che potete parlare dei miei vini, raccontarli. Io posso stare qui e ascoltarvi».

Giunge il momento del motivo d’orgoglio, neanche tanto velato, di Raffaele, la ginestra in purezza, il suo ultimo esperimento. Raccolta a fine ottobre, fin dopo la vendemmia del piedirosso, ha beneficiato del gran sole che ha caratterizzato l’inizio dell’autunno 2018. Dopo qualche mese di affinamento in acciaio, è imminente l’imbottigliamento. Abbiamo, quindi, dinanzi a noi una vera anteprima. Raffaele mostra per la prima volta un accenno di impaziente tensione, vuol sapere che ne pensiamo. 

Ebbene, l’entusiasmo è giustificato, il plauso meritato: frutta fresca ed erbe aromatiche, macchia mediterranea e nota iodata, in bocca ha un attacco appena orizzontale, poi si fa spazio un’energica acidità che invita nuovamente alla beva, a controbilanciare una sfericità appagante. Eccellente, troviamo che rispecchi fedelmente il terroir dal quale proviene.

Al pari territoriale si presenta a noi il Puntacroce 2017, uvaggio di falanghina, biancolella e ginestra che oggi, sul mercato, si trova nelle annate 2012, 2013 e 2014. Non fatichiamo a capirne il motivo: è un vino con una spalla acida e un corpo tali da poterne predire lunga vita. Conveniamo con la scelta di Raffaele di proporre i tre vitigni insieme dopo vinificazioni separate: aver assaggiato i singoli campioni ci permette infatti di riscontrare tutt’altra complessità nel Puntacroce, quasi i singoli strumenti di un’immaginaria orchestra suonino in esso tutti insieme un unico, sinuoso, spartito. Sì, il Puntacroce è davvero una grande espressione della DOC Costa d’Amalfi, intimamente connesso a queste colline fatte di natura, di viti, di ulivi, limoni, sole e mare.

Si appresta l’ora del pranzo, i minuti si rincorrono l’un l’altro sotto questo pergolato. 

C’è spazio per un ultimo vino, anch’esso di prossimo imbottigliamento: è il Salicerchi, un Costa d’Amalfi rosato da piedirosso, aglianico e tintore: si presenta a noi schietto e spavaldo, un naso di fiori rossi e piccoli frutti di bosco, con un accenno di erbe aromatiche. In bocca entra dritto, fresco e intenso, poi si allarga sul frutto e rimane lì, con una persistenza che ammalia. «Il rosato soffre di alcuni preconcetti», ci dice Raffaele, «alcuni giusti per carità». Non è questo il caso, affatto. Il Salicerchi è perfetto per un aperitivo gustoso, in estate quanto in ogni altro momento dell’anno.

A pensare alle prelibatezze culinarie abbinabili al calice rosé che ci sta davanti, ci accorgiamo che è ora di pranzo, è ora di andare. Prima, però, un salto nel limoneto a cogliere qualche femminello da portare a casa, impareggiabile.

Tornati alla nostra auto cittadina, Raffaele Palma ci saluta a modo suo, con un caloroso abbraccio, e lo lasciamo così, con l’indelebile ricordo di un’esperienza straordinaria e ringraziandolo per il continuo memento che, attraverso i suoi vini, offre della Costa d’Amalfi.