Valle d’Aosta: una viticoltura orgogliosa ancora da comunicare

Valle d’Aosta: una viticoltura orgogliosa ancora da comunicare

Degustando
di Alessandro Franceschini
15 novembre 2023

Tante varietà autoctone, uno dei territori più complessi dal punto di vista geologico presenti in Italia, una nuova generazione di vigneron sempre più preparata e appassionata. Ad Aymavilles un incontro per approfondire le peculiarità e le prospettive della viticoltura della Valle d'Aosta

Una ricchezza geologica unica, una storia viticola che ha più di duemila anni alle spalle e un’offerta di varietà realmente autoctone che ha pochi eguali in Italia, e probabilmente anche in Europa. Insomma, a descriverla così, la Valle d’Aosta del vino sembra un vero e proprio eldorado, e certamente sotto molti punti di vista lo è sicuramente, ma la consapevolezza di far parte di un microcosmo dotato di potenzialità straordinarie è probabilmente una conquista sostanzialmente solo recente. 

A discutere del passato, ma soprattutto del presente e del futuro della viticoltura di questa piccolissima regione, in occasione della vendemmia di San Martino, che tradizionalmente segna la fine della stagione agraria, si sono dati appuntamento ad Aymavilles presso il Rifugio del Vino di Les Cretes, alcuni produttori di riferimento della scena viticola regionale – oltre a Les Crêtes, Cave des Onze Communes e Didier Gerbelle  ma anche alcuni protagonisti del mondo della sommellerie e della comunità scientifica locale, oltre alla  presenza del presidente del Consorzio Vini Valle d’Aosta, Vincenzo Grosjean.

I tratti distintivi della viticoltura della Valle d’Aosta

«Pochi terroir possono competere con la Valle d’Aosta per complessità. Se vi sembro arrogante, spero sia il mio racconto a dimostrarlo». Ha esordito così Rudy Sandi, agronomo e ricercatore dell'identità vitivinicola e della storia della viticoltura della Regione Valle d’Aosta, che ha evidenziato tre aspetti che dal suo punto di vista descrivono la presenza di un contesto unico per storicità e complessità. Il primo riguarda l’incredibile biodiversità dei terreni presente in questa regione alpina, sommersa sotto l’oceano circa 150 milioni di anni fa nel Giurassico, e poi emersa durante il Cretaceo dallo scontro tra Europa e Africa. «Qui si è formata una terra nuova rispetto alle altre, che prima non c’era, le Alpi” continua il ricercatore, che evidenzia come nella sola Aymavilles, sede del nostro incontro, esistano 6 strati geologici diversi nell’arco di 3 chilometri. Una diversità, d’altronde, della quale forse non si ha ancora una coscienza così chiara e nitida. Il secondo, di natura storica, è ricchissimo di citazioni e avvenimenti che certificano come la viticoltura sia qui di casa da più di 2000 anni. «In Valle d’Aosta non ci sono mai stati viticoltori rozzi e discolarizzati» afferma con orgoglio sempre l’agronomo valdostano, ricordando, ad esempio, il profondo legame con i monaci della Borgogna da parte dei monasteri locali. Infine la ricchezza del patrimonio ampelografico. «Qui c’è un vitigno autoctono ogni tre chilometri». I 18 vitigni autoctoni della Valle d’Aosta non sono imparentati con nessun altro vitigno forestiero. «Qui si è sviluppata una viticoltura residente, senza mutuare nulla dai vicini. La Valle d’Aosta basta a sé stessa».

L’incredibile ricchezza dell’universo autoctono della Valle

Sono stati proprio alcuni dei vitigni autoctoni più rappresentativi della regione, alcuni riscoperti proprio negli ultimi anni, a fare da fil rouge a una degustazione che ha certamente ben fotografato quella biodiversità così tanto evocata nelle premesse. Il blanc comon, ad esempio, varietà a bacca bianca, figlia probabilmente del più noto prié blanc che trova dimora sotto il Monte Bianco a Morgex, è stata riscoperta e vinificata in purezza solo nel 2021 dall’azienda Didier Gerbelle, nata nel 2006, sebbene le radici vinicole della famiglia siano sicuramente più antiche. Per ora è una super nicchia, prodotta in poche centinaia di bottiglie (il vino si chiama Revanche), ma le premesse sono in effetti entusiasmanti: note balsamiche, di menta, di timo, di erbe di montagna, ma anche di melone, offrono uno spettro aromatico intenso, così come il sorso che si rivela teso, fresco e al tempo stesso ricco e appagante. 

La petite arvine, una varietà ormai storica in Valle dAosta e arrivata qui dal vicino vallese, è già più conosciuta da appassionati e amanti della viticoltura di questa regione: la versione di Cave des Onze Communes – cooperativa di Aymavilles con 160 aziende associate – della linea Miniera, ha una peculiarità: dal 2020 viene affinata per 6 mesi in botti realizzate con il granito del Monte Bianco e poi viene portata in altura a più di 2000 metri a Cogne, nelle ex miniere di magnetite, le più alte d’Europa, ad una temperatura costante di 6°C, per completare il suo percorso prima dell’imbottigliamento. Il tutto dà origine a un vino profumato di anice, liquirizia, rabarbaro, ananas, ma soprattutto quasi salato al palato e dotato di una personalità davvero fuori dal comune. Anche il Torrette Superiore, uvaggio di petit rouge, fumin e cornalin, viene vinificato allo stesso modo, e in questo caso perde le note più vinose ed erbacee a vantaggio delle sfaccettature più agrumate e speziate. 

La sperimentazione e il desiderio di indagare nuove vie si concretizza anche nel Petit Rouge di Didier Gerbelle proveniente da un’unica vigna denominata Vigne Plan: in questo caso il 10% delle uve vengono raccolte tardivamente e aggiunte in seconda battuta facendo partire una seconda fermentazione come accade nel governo toscano o nel ripasso veneto. Emerge, in questo caso, un frutto naturalmente più dolce, di more, ma sempre pimpante e vivo, con sfumature quasi acide, come capita spesso con i vini di montagna. 

Con l’Aîné, sempre di Didier Gerbelle, ci si addentra, invece, in un pezzo di storia recente della viticoltura della Valle: il lavoro si scoperta e selezione proprio di Rudy Sandi, insieme al confronto con José Vouillamoz e Giulio Moriondo, portò alla scoperta del Neret, varietà autoctona, figlia di tre/quattro autoctoni sempre della regione, come il petit rouge, il mayolet e il fumin e di un’altra sconosciuta. Viene vinificato dal 2013 e sfodera un profilo aromatico ricco di note di prugne e more, ma soprattutto dotato al sorso di un tannino serrato, di bella grana, con un finale sapido e setoso.

Les Cretes, invece, forse il nome più noto fuori dalla regione, con sede sempre ad Aymavilles e che vede al timone la famiglia Charrère, ha raccontato con tre annate la storia del fumin, varietà locale che fino agli anni ’70 sembrava scomparsa e non veniva mai vinificata in purezza, essendo considerata ideale solo per il taglio grazie alla sua dotazione colorante, potentissima. Oggi ha invece dimostrato non solo di poter donare vini di grande struttura in purezza, ma di essere dotato di una longevità non indifferente: la cavalcata dalla 2021 alla 2000, passando per la 2017, ha mostrato un vino nel quale il passare degli anni non sembra scalfire minimamente struttura e spessore. Scurissimo nel bicchiere, passa dalle note più speziate e fruttate della gioventù a quelle ematiche e floreali con il passare degli anni, come nel caso del campione con 23 anni, che ha dalla sua ancora una trama tannica quasi scalpitante.

Il futuro dei vini valdostani? Serve più comunicazione e…pazienza

Sembra esserci grande fermento, ma soprattutto una consapevolezza rinnovata nei riguardi del grande patrimonio a disposizione dei vignaioli di questa regione. È questa, secondo Alberto Levi, presidente di AIS Valle d’Aosta, la sensazione che sembra aleggiare da queste parti ormai da qualche anno. «Abbiamo vini riconoscibili che durano nel tempo. Non ci manca nulla: ora però ci vuole comunicazione e marketing» ha commentato il sommelier. Dello stesso avviso anche Vincenzo Grosjean, secondo il quale qui c’è tutto per fare bene, anche in annate altrove difficili come quella appena terminata, che ha visto la maggior parte dei produttori effettuare pochissimi trattamenti per merito del microclima presente in Valle. «Noi non abbiamo bisogno dei PIWI» ha affermatonon senza una vena polemica. «Le nostre sono viti già resistenti: basta piantarle nelle zone giuste».

Poche bottiglie, circa 2 milioni ogni anno, non consentono a questa regione di fare programmi troppo aggressivi su mercati che non siano quelli prettamente locali, dove ogni anno arrivano milioni di turisti sia d’inverno che d’estate. Si può, però, puntare sempre di più sulla qualità: i vigneti hanno ormai raggiunto l’età giusta e sta crescendo, inoltre, una nuova generazione di vigneron molto preparata e questa volta molto consapevole del potenziale a disposizione. «Noi dobbiamo imparare a fare le cose da soli, dato che il nostro territorio è identitario – ha concluso Rudy Sandi –. Dovete, però, avere pazienza». E quella, agli appassionati, certo non manca.