Leggere l’etichetta: l’indicazione dei vitigni

Leggere l’etichetta:  l’indicazione dei vitigni

Diritto diVino
di Paola Marcone
16 novembre 2022

In applicazione della normativa europea, i produttori francesi non potranno più inserire in etichetta il termine “vermentino” a partire dalla vendemmia 2022. La motivazione è l’occasione per fare qualche riflessione sull’utilizzo del nome dei vitigni o loro sinonimi nella presentazione dei vini.

Nel Sud della Francia e più in particolare in Linguadoca e in Provenza, il vermentino, anche lì chiamato proprio in questo modo, è vitigno assai coltivato principalmente per la produzione di vini bianchi e secondariamente di rosé. Spesso nell’etichetta di questi prodotti i viticoltori francesi indicavano quindi anche il termine “vermentino”, da solo o con gli altri vitigni eventualmente utilizzati.

Dalla vendemmia 2022 questo però non sarà più possibile perché l’Italia ha ottenuto il pieno rispetto della normativa comunitaria sui nomi delle varietà di uve che possono essere riportati in etichetta quando tali nomi contengano o costituiscano una denominazione di origine protetta o un'indicazione geografica protetta.

Nel nostro Paese il vermentino è parte integrante della Vermentino di Gallura DOCG e della Vermentino di Sardegna DOC. Di conseguenza, secondo la legislazione comunitaria le etichette di vini pur ottenuti con questo vitigno ma non provenienti dagli areali tutelati non possono riportarne l’utilizzo, salve le eccezioni indicate in appositi elenchi e che nel caso specifico si riferiscono solo alla Croazia nell’Unione Europea e ad Australia e Stati Uniti per l’area extra UE.

La questione sembrerebbe tanto chiara quanto banale: è stato imposto a uno Stato membro dell’Unione il rispetto di una specifica disposizione normativa. Se dal punto di vista formale il discorso potrebbe chiudersi qui, allargando lo sguardo all’insieme della disciplina in tema di indicazione di vitigni e, ancor più in generale, ai principi fondanti su cui si basa il sistema di protezione dei vini europei, il quadro regolatorio si rivela un po' più complesso, meritando qualche riflessione.

L’indicazione dei nomi dei vitigni in etichetta, infatti, è ammessa in via generale nel diritto dell’Unione Europea. Questo sia per i vini tutelati da una denominazione o una indicazione geografica che per quelli privi di tale protezione, perché si è consapevoli di come “spesso i consumatori decidono di effettuare l'acquisto di un prodotto vitivinicolo sulla base delle varietà di uve da vino utilizzate”. Così si legge espressamente anche nelle premesse all’ultimo Regolamento comunitario sulla materia ed ecco allora che la legislazione è intervenuta a disciplinare le condizioni di impiego dei nomi utilizzati “per evitare pratiche ingannevoli in materia di etichettatura” tenendo anche in debita considerazione “l'importanza economica che i vini varietali rivestono per i produttori”.

Nello specifico, e sempre in via generale, è stato stabilito che qualora sia nominata solo una varietà di uve da vino o suo sinonimo, almeno l'85% del prodotto deve essere stato ottenuto da uve di tale varietà, mentre qualora siano nominate due o più varietà di uve da vino o loro sinonimi, il 100% del prodotto deve essere stato ottenuto da uve di tali varietà. In questo ultimo caso, le varietà di uve da vino devono figurare sull'etichetta in ordine decrescente di percentuale e in caratteri delle stesse dimensioni. 

Per quanto riguarda l'indicazione delle varietà di uve da vino sui prodotti vitivinicoli che non recano una denominazione di origine o una indicazione geografica protette, inoltre, la normativa ha affidato ai singoli Stati membri la decisione di utilizzare l'espressione “vino varietale” completata da uno o da entrambi i seguenti nomi: il nome dello Stato membro o degli Stati membri interessati; il nome della o delle varietà di uve da vino.

L’impianto normativo così descritto evidenzia, quindi, come l’indicazione in etichetta dei vitigni utilizzati è pratica che la legislazione europea ritiene fondamentale per le scelte dei consumatori, regolamentata solo nelle modalità di impiego dei nomi, al di fuori di ogni posizione protezionistica del vitigno in quanto tale.

Del resto la disciplina è perfettamente coerente anche con i fondamenti del sistema di tutela dei vini DOP e IGP,  centrato non già sulla protezione di un marchio, di una singola azienda produttrice o di una varietà di uva, ma sull’indissolubile legame tra la qualità espressa dal prodotto e il territorio di appartenenza.

È l’elemento geografico e le peculiarità che la comunità di viticoltori lì esprime ad essere ontologicamente distintivi e imprescindibili affinché un areale possa ottenere riconoscimento con una denominazione di origine o un’indicazione geografica protette.  

L’indicazione della varietà di uva utilizzata, viceversa, è un’informazione (definita non a caso “facoltativa” dalla normativa) che il produttore può inserire in etichetta alle condizioni stabilite dalla disciplina, ma che non dovrebbe affatto essere parte integrante di una denominazione o indicazione tutelate. 

Dovrebbe, appunto, perché, non sempre così è.

Al momento in cui il Legislatore europeo è intervenuto a regolamentare la materia, si è dovuto constatare che moltissime denominazioni e indicazioni protette, praticamente tutte italiane, erano state registrate nei decenni precedenti con nomi che all’interno contenevano un vitigno o suoi sinonimi quale parte costituente.

Vermentino di Gallura DOCG e Vermentino di Sardegna DOC si è detto, ma l’elenco italiano è lunghissimo: solo a titolo di esempio Erbaluce di Caluso DOCG, Brachetto d'Acqui DOCG, Cesanese del Piglio DOCG, Fiano di Avellino DOCG, Rossese di Dolceacqua DOC, Grignolino di Asti DOC, Aglianico del Vulture DOC, Verdicchio di Matelica DOC, Primitivo di Manduria DOC, Aglianico del Vulture DOC, Aleatico di Puglia DOC, Fortana del Taro IGT, ma si potrebbe ancora continuare.

I casi in tutto il resto d’Europa, invece, sono limitati a poche decine.

Per quanto riguarda il nostro Paese in particolare è accaduto che a partire dal 1963, ossia dalla prima normativa organica nazionale per la tutela delle denominazioni di origine dei mosti e dei vini, la disposizione che definiva cosa dovesse intendersi per denominazioni di origine sia stata interpretata fin da subito in modo assai ampio.

Più nello specifico, la norma con espressioni assi simili a quelle anche oggi utilizzate nella legislazione europea stabiliva che la tutela dovesse essere disposta a favore di quei nomi geografici e quelle qualificazioni geografiche delle corrispondenti zone di produzione “-accompagnati o non con nomi di vitigni o altre indicazioni - usati per designare i vini che ne sono originari e le cui caratteristiche dipendono essenzialmente dai vitigni e dalle condizioni naturali di ambiente”.

Se l’elemento geografico appariva ancora una volta centrale, l’inciso “accompagnati o non con nomi di vitigni” ha però supportato interpretazioni protezionistiche in favore di una tutela più ampia possibile dei vini italiani, avallandosi l’idea che il vitigno potesse anche inserirsi nella denominazione e non semplicemente affiancarla.

L’effetto di una tale interpretazione è stato ovviamente quello di blindare nella privativa non solo l’elemento geografico e le caratteristiche qualitative espresse dal territorio ma anche il vitigno stesso o i sinonimi utilizzati, a tutto vantaggio dei produttori italiani.

Ecco allora che nella sua opera di armonizzazione delle legislazioni nazionali, l’Unione Europea, non potendo ignorare tale realtà, ha dovuto introdurre norme correttive all’indicazione in etichetta dei vitigni che costituissero parte integrante di una denominazione o indicazione protetta, negandone in via generale la possibilità e rimettendo alla Commissione il potere di stabilire le eccezioni a tale regola.

Da qui il diniego ai viticoltori francesi, pur se storicamente produttori di vini a base vermentino, di indicare in etichetta il corrispondente vitigno.

Ricostruito così il sistema normativo e la formale correttezza della decisione comunitaria, le riflessioni che possono derivare riguardano le motivazioni che spingono oggi l’Italia a rivendicare posizioni, basate su una datata interpretazione protezionistica dell’allora nata normativa sulle denominazioni. 

Se infatti si assume pacifico che il valore aggiunto di qualsiasi vino ottenuto da qualsiasi vitigno sia costituito da quell’insieme unico e irripetibile che i francesi definiscono “terroir”, dovrebbe essere conseguente per un grande Paese produttore la conclusione che è nell’eccellenza delle proprie zone vitivinicole che risiede la reale forza qualitativa ed economica dei vini lì prodotti.

Borgogna, Mosella, Barolo, Champagne, Franciacorta, Marsala e così via sono realtà che richiamando il solo elemento geografico già evocano tutta la potenza dell’areale senza necessità alcuna di dover far riferimento a un elemento specifico come il vitigno, che è una parte importante ma integrante del tutto. 

Soprattutto perché i vitigni sono per antonomasia viaggiatori e assumono peculiarità differenti laddove si impiantano, mentre ciò che non è replicabile è l’impronta data dal  territorio, anche inteso in senso lato. 

A ben vedere, quindi, la scelta di proteggere il nome di un vitigno all’interno del nome di una denominazione o indicazione se può eventualmente giustificarsi in un mercato immaturo e limitato che tende a dotarsi di tutti i mezzi possibili per affermarsi, oggi appare un elemento di debolezza perché basa la competitività tra produttori su un  elemento formale che rischia di nascondere l’assenza di un reale vantaggio di qualità e di valore economico.

Ritornando al caso del vermentino, basterà una semplice comparazione dei prezzi medi dei relativi vini francesi e italiani per rendersi conto che i primi spuntano cifre sempre maggiori e c’è realisticamente da aspettarsi che anche a seguito della non menzione in etichetta della semplice informazione aggiuntiva del vitigno non cambierà alcunché.  

Del resto chi mette in dubbio il valore di un Vosne-Romanée DOP o un Chablis grand cru DOP solo perché non riportano integrati nella denominazione i vitigni utilizzati?

Tra l’altro la politica portata avanti dall’Italia su questa materia si rivela piuttosto singolare anche per quel che riguarda il mercato interno. Emblematico, ma non è il solo, è infatti il caso piemontese del vitigno erbaluce, ampiamente e storicamente coltivato in diverse aree regionali, prima tra tutte quella di Caluso, ma anche nel novarese.

Ebbene, ai produttori di erbaluce che non si trovano all’interno della Erbaluce di Caluso DOCG è preclusa l’indicazione in etichetta del termine “erbaluce” dovendo eventualmente ricorrere ad espressioni come “altra uva storicamente coltivata in zona” o simili.

Il paradosso è evidente e parla da sé, rendendo conclamata la non più procrastinabile esigenza che il sistema vitivinicolo italiano inizi a ragionare in termini unitari e competitivi, puntando sulle qualità sostanziali di prodotti che devono reggere il passo con un mercato globalizzato e muovendosi, possibilmente, senza farsi la guerra in casa e senza ricorrere a mere protezioni formali.