Borgogna tra desiderio e bellezza
Enozioni a Milano 2024
di Valeria Mulas
11 marzo 2024
Sei vini di elevatissimo profilo, da sei terroir differenti, nati in un luogo non solo tra i più celebri al mondo, ma in grado di sprigionare bellezza a ogni assaggio. Guidati da uno dei più grandi cultori ed esperti della Borgogna: Armando Castagno.
È stata una passeggiata informale quella che Armando ha pensato per questo seminario, perché le occasioni per approfondire questo territorio sono state e saranno ancora tantissime, ma diventano sempre più rare le possibilità di degustare alcuni vini di Borgogna, per molti versi ormai inaccessibili.
Cinque preziosi esempi ci hanno permesso di scandagliare l’evoluzione del Pinot Nero nel tempo, assaggiando le vendemmie tra il 2011 e il 2016, e infine il sesto calice ci ha regalato un memorabile incontro in bianco.
Lungo circa i suoi 50 chilometri di vigneti, la Borgogna vanta 1250 vigne tra Gran Cru, Premier Cru e Village con nomi, aneddotiche e storie che hanno attraversato secoli senza perdere di smalto e anzi, spesso, alimentando al quadrato il desiderio dell’assaggio. Siamo in una regione che, nell’arco dei secoli, infatti, è riuscita a mettere a fuoco le proprie connotazioni territoriali a favore di un’elevata differenziazione e valorizzazione del prodotto finale.
La degustazione
Partiamo dall’annata più recente con un’espressione d’ispirazione moderna, da uve coltivate dalle mani di Caroline Morey, nel comune di Chassagne-Montrachet, forse uno dei luoghi più famosi al mondo per i suoi vini bianchi. In realtà questo luogo ha una storia più unica che rara in Borgogna ed è legata, potremmo dire, ad un’intuizione anche di marketing. Fino al 1800 tutte le testimonianze che abbiamo ci raccontano di una produzione di grande valore di vini rossi, fatta salva la collina del Montrachet la cui vocazione è stata sempre bianchista. Siamo nella parte meridionale della Côte d’Or - in Côte de Beaune, per la precisione - dove l’espianto delle uve rosse a favore di quelle bianche è partito, dal secondo dopo guerra, prima timidamente, poi in modo sempre più accelerato. Il terreno è stato, infatti, un alleato davvero prezioso per la produzione di bianchi importanti - per altro in grado di sfruttare la nomea di Montrachet – al posto di rossi piuttosto rustici e non così dissimili, come stile, da quelli di Beaune.
Sono pochi i produttori che, oggi, rimangono affezionati a quell’idea di Chassagne-Montrachet rossista, ma questi ci permettono di verificare come, nelle migliori produzioni, non manchi, insieme alla carnosità, un’eleganza che potrebbe ricordare, in piccolo, Gevrey-Chambertin. Per arrivare a tali risultati, il consiglio di Castagno è di rivolgersi a mani delicate, come quelle di Caroline Morey, figlia di Jean-Marc Morey (mano bianchista molto nota). Caroline, dal 2014, produce vini propri sfruttando non solo il know-how famigliare (sette generazioni autoctone di Chassagne-Montrachet), ma anche quello del marito Pierre-Yves Colin (figlio di Marc Colin, altro nome di culto).
Degustiamo una 2016 - un’annata estremamente piovosa salvata in extremis dal vento del nord - che ancora regala un naso dolce spolverato di vaniglia e cannella. Un’impronta olfattiva che dona forza al pensiero che il tempo sia un alleato prezioso per i rossi di Chassagne-Montrachet. Qualche nota di terra boschiva iniziale, che sfuma nel tabacco biondo, poi la marasca e fiori di peonia e rosa. Un mentolato di fondo arriva a donare slancio alla freschezza. Bocca ricca e appagante, che porta il gusto verso il mirtillo e il ribes, con una freschezza che controbilancia un certo calore. Perfetto, immaginiamo, l’abbinamento con una faraona al tartufo.
Il nostro secondo incontro si sposta a Gevrey-Chambertin, presso la minuscola Maison de Negoce La Gibryotte, il laboratorio dei figli di Claude Dugat. Una cantina meravigliosa nata dall’acquisto del grange à dîme (granaio delle decime) datato 1219, che fino al 1400 immagazzinava la tassa della Chiesa sui raccolti agricoli. La 2015 è stata un’annata ricca, piuttosto precoce e calda, che ha regalato ulteriore maestosità ai vini di Gevrey-Chambertin. Eppure, La Gibryotte in assaggio, non si nega in freschezza, che si rivela già al naso con screziature di chinotto, di melagrana, di rosa e un pizzico di pepe nero. Una leggiadria che si trasforma, in bocca, in una succosa acidità, con ritorni sul chinotto e sulla scorza di arancia rossa. Un vino perfetto per un’anatra laccata all’arancia.
Con questo calice ci poniamo agli antipodi di Dugat: se quest’ultimo è infatti noto per le vendemmie tardive, Pierre Labet è tra i primi a portare le uve in cantina; se la prudenza nell’uso di botti di legno nuovo è prerogativa di Dugat, a Labet va il premio per un uso spinto di botti nuove, eppure con risultati di grande purezza; e ancora, se Dugat ha orrore del raspo, Labet ne è innamorato perdutamente. Siamo nel comune di Beaune con una parcella di categoria Premier Cru e un esempio di azienda biodinamica.
Il nostro calice è decisamente spiazzante e con una forte impronta vegetale: linfatico, mentolato e ricco di erbe medicinali, in primis il tarassaco, che sfumano verso la china e l’arancia sanguinella. Bocca dritta, con un tannino di trama che dona volume alla freschezza.
Armando aggiunge una piccola nota: l’annata 2013 è la più tardiva delle ultime venti. Diede la sensazione di non essere mai veramente pronta alla vendemmia e ancora a ottobre mostrava un’acidità altissima, fuori scala.
Atterriamo a Vosne-Romanée dove, per citare l’abate Claude Courtepée (1774), «il n’y a point de vin commun». Niente di ordinario tra i vini di Vosne, un posto magico che ospita otto tra le più memorabili vigne al mondo (Echézeaux, Grands-Echézeaux, Richebourg, Romanée-Saint-Vivant, La Romanée, Romanée Conti, La Grand Rue, La Tâche), ma che anche nella categoria Village riesce a produrre vini eccezionali con, in scala, la stessa ricercatezza. Non fa eccezione il Vosne-Romanée Vieilles Vignes 2012 che abbiamo nel calice, la cui bellezza di profumo è integra e seducente. Un’annata calda che ha dato in tutta la Borgogna vini molto fini ed estremamente proporzionati, vini che oggi risultano un capolavoro nelle proporzioni minimali, eleganti e longevi. Così troviamo anche il nostro assaggio, un caleidoscopio di peonie su trama di mentuccia di prato. Gustoso, goloso, ha un palato di frutto croccante e fresco come la melagrana, ma che in fondo inizia a mostrare, con un accenno di tamarindo, la prima nota di trasformazione. Fresco, salino, ha una trama flessuosa.
Le Bonnes-Mares è un vigneto di 15 ettari a denominazione Grand Cru tra il comune di Chambolle-Musigny (per 13,5 ettari) e il comune di Morrey-Saint-Denis. Particolare la sua composizione di suolo con una parte inferiore composta di terre rosse e argillose (2/3 circa del cru) e una superiore di terre bianche con poco humus superficiale e un’altissima percentuale di calcare. Il risultato può essere un blend delle due parti o, come nel nostro caso, di un terreno solo. Assaggiamo un vino da terres blanches di un’annata controversa e divisiva, soprattutto per i rossi che, a detta di Castagno, «è come se custodissero un segreto. Chiusi, sembrano in attesa di sbocciare, cosa che probabilmente accadrà tra qualche anno». Immergiamo, dunque, i nostri sensi curiosi e troviamo un vino di precisione stilistica. Ha un naso che è dolcezza di infanzia, col suo rimando alla granatina succosa di amarena che sfuma, poi, in uno scuro di tabacco. Ha striature solfuree che non intaccano una golosità olfattiva e, poi, di gusto. In bocca la susina viola prende forza e il tannino, di carattere, volumizza il sorso.
Come da prassi borgognona, chiudiamo con un bianco. La potenza e la struttura palatale dei bianchi di Borgogna sono, infatti, in grado di cancellare ogni ricordo di qualsiasi rosso bevuto in precedenza. Non a caso, a ulteriore conferma della grandezza del vino che stiamo per degustare, Armando sottolinea come i Corton-Charlemagne siano vini che, con opportuni cambi di tappi, possono, anzi, devono superare i 40 anni di longevità (se non incappano in problemi di ossidazione precoce). Siamo di fronte a una delle denominazioni più robuste e granitiche per il vino bianco. Non bastasse la grandezza del vino che abbiamo nel calice, anche la storia della famiglia Bonneau du Martray è una delle più emblematiche e mirabolanti di Borgogna. Discendenti diretti di Nicolas Rolin (cancelliere del Duca di Borgogna e fondatore degli Hospices de Beaune) producono solo due vini, entrambi Grand Cru sulla collina di Corton nel comune di Pernand-Vergelesses: il Corton-Charlemagne e il Corton Rouge. Il risultato è tutto racchiuso in questo calice potente all’olfatto, quanto in bocca. Ha un’impronta intensa di polvere da sparo, che evapora in sentori di pompelmo e fiori come la lantana, di burro, di croissant e di noisette. Bocca opulenta, sontuosa, bilanciata nella sua lunghezza infinita costruita sulle note di pompelmo e di burro. L’annata 2011, decisamente favorevole per i bianchi e non per i rossi, segna vini, come il nostro, il cui accento si pone sulla salinità più che sulla freschezza.
La Borgogna resta un esempio luminoso di vini che sanno prendersi la responsabilità di raccontare un terroir, al netto delle specificità di ogni annata.
«Il più bel caleidoscopio del mondo. La Borgogna è il posto dove i vini sono insieme più autorevoli e più facili da bere, più complessi e più schietti, più cervellotici e più sensuali», per dirla con le parole di Armando Castagno che ringraziamo per questo intenso, seppur troppo breve, approfondimento.