Luigi Cotti. Un passo indietro e due in avanti

Luigi Cotti. Un passo indietro e due in avanti

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
15 aprile 2010

L'incontro con Luigi Cotti, titolare della storica enoteca milanese, tra il quartiere Brera e la sede del Corriere della Sera...

Tratto da L'Arcante N° 12

“Per andare avanti bisogna tornare indietro: fare sacrifici e non sprecare più”. Ti accoglie in un angolo di quella che possiamo chiamare un’Enoteca con la “E” maiuscola, fieramente lontana anni luce dai moderni “wine bar” (chiamate così il suo negozio e potete incamminarvi verso la via d’uscita immediatamente). È immerso tra storici scaffali liberty, seduto di fronte ad un tavolino dove schedari, penne, matite, gomma e scolorina non hanno lasciato il posto a computer e mouse. Un tempio imprescindibile per chi, milanese o meno, desidera immergersi in un pezzo di storia del vino italiano. Da cinquantotto anni in via Solferino, a due passi dalla storica sede del Corsera, con il quartiere Brera adiacente ed a poche centinaia di metri dal cuore della movida milanese, quella dei lounge bar e delle discoteche modaiole, terreno di caccia per paparazzi alla ricerca dell’inscindibile binomio velina&calciatore. Non ha ricette per combattere la crisi, né nutre false speranze: “Dobbiamo metterci il cuore in pace perché il 2010 sarà peggio del 2009 e forse, ma dico forse, qualche spiraglio lo si vedrà solo nel 2011”. Magazzino snello, acquisti oculati e alcuna illusione di grandezza o facili guadagni. Questo gli ha insegnato la sua lunga esperienza sul campo per affrontare periodi confusi ed incerti come questo. Nonostante quell’atmosfera tra museo e negozio di antichità che accoglie chi desideri varcare la soglia dell’enoteca Cotti e che ti fa spontaneamente abbassare il tono della voce, la vitalità non manca ad un uomo che ha attraversato le vicende milanesi dal dopo guerra ad oggi. Da qui è passato un pezzo importante dell’intellighenzia italiana: i giornalisti Orio Vergani, Ettore Mo, Egisto Corradi, lo scultore Umberto Milani, ovviamente Indro Montanelli ed un Gino Veronelli ai primi passi nel mondo del vino: “Veniva qui quando ancora non si occupava di vino e si informava, faceva domande, degustava”. Era il locale degli artisti e dei milanesi di passaggio. Fino al 1987, infatti, il cuore pulsante dell’enoteca era la mescita di vino: un semplice banco senza tavolini ed un via vai che consumava dai 50 ai 60 litri di vino al giorno, tutti imbottigliati nei 500 metri quadrati di cantina tutt’ora sottostante, che oggi accolgono un assortimento sterminato di vecchie annate e formati di ogni genere. Una sorta di bistrot francese, ma più rumoroso, chiassoso e familiare: “E’ stato un bel paragrafo della mia vita. Mi hanno dato tanto tutti quei personaggi, insegnato tanto, così come la gente del popolo che passava dal mio negozio”.
Altri tempi: erano d’altronde poche le enoteche con mescita in quegli anni a Milano, tutte di origine piemontese, come lui, nato ad Intra, capitale del Lago Maggiore e trasferitosi a Milano nel 1947 insieme agli zii.
Poi la svolta: fine della mescita e l’attenzione passa alla vendita pura di bottiglie, che prima non era possibile curare con meticolosità ed attenzione: “Dopo 35 anni in mezzo ad un banco mi è venuta l’allergia a servire un calice di vino”. Quasi una scelta controtendenza rispetto al guadagno facile, ma secondo lui non duraturo, del semplice bicchiere di vino. “Ho però triplicato il lavoro di vendita: sono cominciate ad entrare le famiglie per fare acquisti”. Qui, sin dagli esordi, si potevano trovare vini da ogni angolo del pianeta, in tempi non sospetti, “da ben 27 nazioni diverse”: dal Marocco a Israele, dalla Georgia alla Svizzera e naturalmente dalla Francia: “in quegl’anni i milanesi consumavano molto vino francese”. Oggi è cambiato tutto, ha eliminato pressoché tutte le referenze straniere concentrando il lavoro su quelle nostrane. Non imbottiglia più direttamente, ma spicca comunque una parete interamente dedicata a vini che riportano il suo cognome, imbottigliate all’origine dal produttore, ma con etichette studiate ad hoc da lui: “Ho 43 referenze con il mio marchio provenienti un po’ da tutta Italia”. Barolo, Barbaresco, Chianti, Tocai, metodo classico e via discorrendo. Visita le aziende, sceglie una vasca e l’acquista. Ma non c’è competizione con gli stessi vini dei produttori che poi comunque ha nel suo negozio?. “No, i prezzi sono diversi”. Naturalmente, i suoi sono più bassi. Quando ancora non era di moda parlare di private label da parte della grande distribuzione organizzata anche nel settore vino, lui aveva capito che il suo nome era oramai sinonimo di qualità e quindi poteva utilizzarlo per vendere vino a suo nome, riuscendo al tempo stesso ad essere competitivo nel prezzo finale: “E’ fondamentale, oggi ancor di più, il lavoro che sviluppo con il mio marchio”. Conte di Lazzarito, storico cru in quel di Serralunga d’Alba, insignito dell’Ambrogino d’oro due anni fa, negli anni ha fatto incetta di titoli e riconoscimenti, citazioni su riviste straniere e visite illustri. “Facevo anche tre spedizioni a settimana in Giappone”. Passeggiare tra gli scaffali della sua enoteca significa non solo lustrare gli occhi osservando intere verticali di Barolo, ma tuffarsi nella Milano che fu, tra vecchie stampe in bianco e nero, ricordi di quando i navigli erano parte integrante del paesaggio cittadino e gli sbuffi del vapore del Gamba de Legn’ segnavano l’incedere della giornata. I figli sono già parte integrante dell’attività, anche se la presenza di Luigi Cotti è ancora un punto di riferimento imprescindibile. L’eredità non sarà semplice da gestire, anche se nell’infernotto già pronto per loro troveranno certamente le forze e l’entusiasmo per proseguire l’attività del padre: “Ho messo via 72 Barolo del ’61 per mio figlio ed altrettante di Barbaresco del ’67 per mia figlia”.

Commenta la notizia

Per commentare gli articoli è necessaria la registrazione.
Se ancora non l'hai fatto puoi registrati cliccando qui oppure accedi al tuo account cliccando qui

I commenti dei lettori