Tra le vette di Scanzo. Manuele Biava

Tra le vette di Scanzo. Manuele Biava

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
10 marzo 2011

Franco, diretto, a tratti austero, ma dopo poco, lasciando che lo scorrere dei minuti faccia il suo corso, entri in confidenza, in sintonia e le sfaccettature, le complessità, emergono senza quasi accorgertene. È anche un vino, ma soprattutto Manuele Biava.

Tratto da l'Arcante N°15

Manuele BIavaClasse 1970, vigneron, nel senso più classico e autentico del termine, sul cucuzzolo di Scanzo, con la sua casa-cantina abbarbicata alle pendici di quel Monte Bastia, crocevia di note valli bergamasche, dal quale lo sguardo volge verso la pianura che ti porta verso Milano. “Ci sono più parassiti nel mondo del vino, che in vigna” è una frase del nonno, figura fondamentale nel suo percorso iniziatico nel mondo del vino, che fa riflettere, se si pensa che fu pronunciata in epoca non sospetta, quando il mondo dell’enogastronomia era popolato soprattutto dai primi, appassionati pionieri. E tra quei primi amanti del buon bere e mangiare, non può mancare la figura di Gino Veronelli, profondamente legato al percorso dei Biava e di questo piccolo areale, oggi docg, ma che tra gli anni ‘60 e ‘70 rischiò di scomparire definitivamente dalle carte enologiche italiane se la caparbietà di pochi amanti del moscato di Scanzo non avesse lottato per riuscire a tenere in vita una delle chicche autoctone della Lombardia. Dei 60 ettari complessivi della denominazione, Manuele Biava possiede i più impervi e al tempo stesso unici dal punto di vista geologico, che rendono i suoi piccoli appezzamenti vitati a moscato un vero e proprio cru: roccia durissima, affiorante sopra i pochi centimetri di terreno che li ricoprono, ma friabile al suo interno, consentendo così alle radici delle viti di poter penetrare e assorbire i preziosi minerali. “Sass de la Luna” il nome di questa particolare formazione calcarea-marnosa in grado di donare quel timbro prezioso al moscato di Scanzo di Biava, vitigno antichissimo e autoctono. “Qui non abbiamo troppi problemi fitosanitari, un po’ per merito dell’esposizione costante al sole, un po’ perché essendo in cima alla collina abbiamo poca umidità”: pochissimi, quindi, i trattamenti in vigna, “non sono necessari”, ma soprattutto una cura che definire maniacale, probabilmente, non rende a sufficienza l’idea. “Un solo acino non perfetto, può rovinare un’intera annata”: si vendemmia, anche continuativamente per un mese, quando l’uva è già surmatura, con le forbicine, scartando qualsiasi acino non sia perfettamente integro e idoneo per essere riposto in piccole cassette di legno e successivamente posato in graticci per l’appassimento, pratica rigorosamente naturale e non forzata: “apriamo tutte le finestra del fruttaio per ottenere una perfetta ventilazione”. Tra i 40 e i 60 giorni di appassimento e via alla vinificazione: lieviti autoctoni, fermentazione in acciaio lentissima che può arrivare sino a primavera, poi la bottiglia e in commercio dopo tre anni dalla vendemmia. La Scanzoriconoscibilità del moscato di Scanzo di Biava è notoria, così come il suo spettro aromatico composto non di solo dolce frutto. La capacità di sostenere il tempo, invece, una delle tante sorprese di questo piccolo gioiellino. “Ogni anno metto via 100 bottiglie, per testare la longevità e poter avere campioni per interessanti verticali”: considerando che la produzione annua si attesta tra le 1200/1800 bottiglie, lo sforzo non è da poco. Dal 1988 a oggi, data nella quale un giovanissimo Manuele Biava decide definitivamente di non seguire le orme del padre, proprietario di un’avviata attività di commercio all’ingrosso di abbigliamento, l’esperienza si stratifica, così come la capacità di saper leggere il comportamento di ogni singola pianta, per la maggior parte vecchissima, patrimonio che viene custodito gelosamente. Roberto Ravelli l’enolgo che lo aiuta sin dall’inizio dell’avventura, “siamo cresciuti insieme”, ma soprattutto una passione incrollabile che lo sostiene per continuare un’attività che lo occupa integralmente, in una terra dove per la maggior parte, invece, la vigna ed il vino sono un’attività secondaria. Annate da ricordare? “Te ne cito una, tra le tante: la 2003, per me la migliore di sempre”. Solo 299 bottiglie: il connubio tra un’annata storica quanto a calore e la naturale propensione alla bassa produzione delle vecchie vigne, diedero origine a un moscato denso, potente e dalla persistenza interminabile.

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