Il figlio del vento di Donnafugata

Il figlio del vento  di Donnafugata

L'aromatico italiano
di Massimo Zanichelli
16 ottobre 2025

Il Ben Ryé non è solo un ottimo Passito di Pantelleria, ma qualcosa di più: un riassunto di territorio.

In quell’atollo del Mediterraneo nato da un rigurgito di lava e ossidiana che va sotto il nome di Pantelleria, isola lunare, magica e ipnotica che contempla solo sentimenti estremi, zampilla dal 1989 un vino, chiamato “figlio del vento” perché generato dall’“isola del vento”, che è un riassunto di territorio: il Ben Ryé di Donnafugata. 

Gli ettari di zibibbo (dal nordafricano zabīb, “uva passa”, nel dialetto locale racìna) della famiglia Rallo (Gabriella con i figli Antonio e José) sono 52 lungo 16 contrade e 40 chilometri di muretti a secco, con alberelli rintanati nelle buche di pietra pomice, quella leggera che fa “soki soki” quando ci cammini sopra: una mappa di Pantelleria da percorrere lasciandoci il sentimento. Ecco Kaffefi con le sue viti ordinate che guardano la Tunisia, il cui etimo (dall’arabo hafaf, “pomice”) non mente, facendo scricchiolare i lapilli friabili sotto le scarpe. Ecco Bugeber, dove le piante scorrono su pendenze pronunciate e le uve ad acino grosso e buccia resistente sono perfette per la affrontate la stesa e diventare passulata, anche nei tunnel in polietilene trasparente (di recente al centro di un’inutile polemica mediatica), aperti ai lati per la circolazione dell’aria, che sull’isola non manca mai. Di fronte c’è l’infinito del mare, di cui Pantelleria è un balcone a cielo aperto. Ecco Mueggen, l’“isola nell’isola”, sempre fresca per le correnti che scendono dal Monte Gibele e dalla Montagna Grande. Ecco Punta Karace con 27 terrazze che scendono verso il mare, togliendo il fiato: guardarle dall’alto è uno spettacolo assoluto. Ecco Barone, dove la vite arriva a 400 metri di altitudine (tra le ultime contrade a essere vendemmiate) e dove è impiantato un vigneto sperimentale con 66 piante di 33 biotipi diversi di zibibbo tra Spagna, Francia, Grecia, Calabria e Sicilia. Ecco Khamma (anticamente Khamba, dall’arabo khannab, canapa, “luogo dove si coltiva la canapa”, o Hamma, “contrada della sorgente calda”), dove si trovano la cantina, uno dei giardini panteschi meglio conservati dell’isola – donato al fai nel 2008, custodisce come in un grembo materno un albero secolare di arancio Portogallo – e 13 ettari terrazzati di zibibbo, con molte piante secolari franche di piede. E poi, in ordine sparso, Tracino, Ghirlanda, Serraglia, Gibbiuna, Monastero, Kharuscia, Favarotta, Sant’Anna, Dietro Isola, Bukkuram, che compongono il quadro dei quattro elementi dell’isola: aria (vento), terra (vulcanica), fuoco (lava), acqua (mare). E dei suoi colori: il nero del suolo, delle rocce, dei muri a secco; il verde delle vigne e degli ulivi, rannicchiati dentro le buche per proteggere i germogli dall’impeto del vento; l’azzurro del cielo e il cobalto del mare. 

Il Ben Ryé racchiude questo mondo in una sinfonia aromatica. In gioventù, come nel 2022, il suo colore è un arancio vivo e scintillante; i profumi richiamano l’albicocca secca, la zagara (dall’arabo zahr, “fiore d’arancio”, la cui radice z-h-r significa “brillare, essere bello, fiorire”), la frutta esotica, il rosmarino, il salmastro del mare; il palato è denso, di forza alcolica integrata, con una persistenza di frutta gialla, dorata, matura accompagnata da fermenti vulcanici, vibrazioni salmastre e sfumature balsamiche. Invecchiando, come oggi dimostra il 2011, si trasforma: il colore diventa marrone, l’olfatto un incantesimo di sacrestia, di mobili antichi, di ebanisteria, di lucidature di legno pregiato, di cassettiere e tabacchiere, mentre il palato esplode nel balsamico-mentolato, nel rosmarino e nella liquirizia, nel mirto e nel mou, nelle carrube e nell’eucalipto, nelle noci e nel caramello salato. Donnafugata produce altri due vini a base di zibibbo. 

C’è il Moscato di Pantelleria Kabir (“Il Grande”) che seduce per le note di frutti e fiori freschi (zagara, pesca, pompelmo) e per il delizioso sorso appena abboccato (che nel tempo diventa più officinale). E c’è il Lighea, chiuso con il tappo “ecoambientale” Nomacorc Ocean, da plastiche riciclate delle zone costiere: un bianco secco che profuma di muschio, glicini, sambuco, biancospino e che ha un palato polposo e definito mai in debito di freschezza. Deve il suo nome alla sirena protagonista di una novella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo: «Dai disordinati capelli color sole, l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti di infantile purezza. […] Da lei saliva quel che ho malchiamato un profumo, un odore magico di mare, di voluttà giovanissima».