Barolo Cannubi G.B. Burlotto. L’eleganza nel vino è un presidio culturale

Barolo Cannubi G.B. Burlotto. L’eleganza nel vino è un presidio culturale

La Verticale
di Armando Castagno
02 dicembre 2020

Viniplus di Lombardia - N°19 Novembre 2020 | A Barolo si trova uno dei più storici e leggendari cru delle Langhe e d’Italia. Ce lo racconta Fabio Alessandria

Tratto da Viniplus di Lombardia N°19 - Novembre 2020

Verduno, il “passaggio a Nord-Ovest” della Langa del Barolo, ha un tessuto urbano esile come un filo: meno di un chilometro e mezzo di sviluppo da ovest a est, e ben poca scelta alla rotonda del centro. Arrivando dal Bricco Cogni di La Morra, e tirando dritti alla rotonda in questione, si percorre il crinale della collina, bordato da un erto intrico di boscaglia pietrosa a monte, e inondato a valle dalla luce e dalla bellezza dei vigneti del Barolo, ondeggianti a perdita d’occhio. Allo strapiombo della Massara, da dove lo sguardo spazia a piacimento verso sud, un cartello avvisa e promette: “Belvedere di Verduno”. E il vedere è veramente bello: in estate, il susseguirsi delle quinte di fondale vira all’azzurro e al malva smagliando i contorni lontani, ma ciò che è vicino è nitido come uno smalto: c’è da lucidarsi gli occhi del contrasto tra il verde squillante dei filari di vite e il colore immacolato di un suolo che pare spolverato di bianco.

Ma se alla rotonda si volta a sinistra imboccando una Via Vittorio Emanuele che di marziale ha solo il nome, e che è invece una deliziosa, stretta salitina lastricata, arrivati in cima non può non notarsi sul lato sinistro, svettante dietro un pergolato e a fianco di una palma, la bizzarra facciata gialla e celeste di un edificio dalle persiane color ruggine, incorniciate da volute dipinte. In alto, sulla facciata, almeno trentacinque medaglie con scritte esplicative – leggo “Roma 1885”; “Bra 1900”; “Zurigo 1891”; “Buenos Aires 1894”; “Parigi 1895”; “Torino 1888” - e due stemmoni di Casa Savoia oberati di attributi araldici, troneggiano sotto la scritta: “Cav. G.B. Burlotto e figli”. Più sotto, orgogliosamente, si precisa: “Fornitori di Sua Altezza Reale il Conte di Torino” e “Unici Provveditori della Spedizione Polare”. Il Cavalier Burlotto dell’intestazione, poi diventato – e oggi famoso nelle etichette come – Commendatore, va immaginato muovere i suoi passi di pioniere nel mondo del vino del secondo Ottocento, tra mercati e fiere, diplomi e medaglie, damigiane e brente, carre e piroscafi. Se ne conosce la data di nascita, il 1842, e di morte, il 1927, e ha lasciato una quantità di documenti relativi all’attività di produzione del vino. Tuttavia, egli si è portato nella tomba una discreta serie di enigmi irrisolti quanto alle origini della cantina, nelle modalità e nei tempi. Ne ha sempre datato l’avvio, anche sui documenti, al 1850, quando non aveva peraltro che otto anni di età; l’aveva ereditata - a quanto trasmesso a voce - da uno zio di nome Ignazio privo di discendenza maschile, e del quale non è noto il cognome; deve essere stato quindi Ignazio a condurre l’impresa nei primi anni. Quando poi i “vini tipici di Langa” dell’allora Cavalier Burlotto guadagnarono notorietà razziando medaglie in diversi continenti a fine secolo, era già stata avviata dal patriarca “GiBi” una ambiziosa politica di acquisizioni fondiarie: una parcella nel cru Monvigliero, gloria e vanto del comune di Verduno, e una, giusto a inizio Novecento, nei leggendari Cannubi di Barolo. L’estensione di vigneto sarebbe stata poi ampliata dopo il 1970.

Provando a tracciare il dipanarsi delle generazioni a partire dal fondatore, abbiamo dunque appreso come Giovanni Battista Burlotto abbia avuto un solo figlio maschio, Francesco; da questi, l’azienda è passata negli anni Trenta in mano al figlio Ignazio (omaggio al prozio co-fondatore?), e da questi all’unica figlia Marina e al marito Giuseppe, madre e padre dell’attuale titolare Fabio Alessandria, che dunque incarna la quinta generazione consecutiva, se non la sesta, in seno alla cantina. Un’eredità prestigiosa e lunga, ma mai percepita da Fabio come un fardello. Anzi: il suo contributo alla reputazione dei vini di famiglia – lui per indole non lo direbbe mai, ma lo scriviamo noi, e a lettere maiuscole – è il più importante dalla fondazione. Si tratta a nostro giudizio di uno dei più geniali produttori italiani, capace del miracolo di fondere nei vini – non solo i Barolo - l’euritmia e la vena agreste in un accordo armonico; talvolta, senza iperboli, prodigioso. Dirglielo tal quale non ci è mai parsa una buona idea: è anche uno dei più abili produttori italiani a schivare i complimenti. Per cui siamo andati subito al dunque.

Inquadriamo l’azienda oggi, Fabio: di quanta vigna disponi, e in quali comuni?
«Una quindicina di ettari, la metà a Nebbiolo. Abbiamo circa 12 ettari nel nostro territorio, a Verduno, su più vigneti; poi poco meno di un ettaro nel comune di Barolo, ai Cannubi; e da poco anche un ettaro e mezzo – di cui uno vitato - a Monforte d’Alba, nel cru Castelletto, che sarà la nostra nuova etichetta di Barolo a iniziare dalla vendemmia 2018».

In molti ne saranno felici. È stata una decisione veloce, unanime? Come è maturata la scelta del vigneto?
«In verità ci abbiamo riflettuto a lungo, queste decisioni non sono mai leggere. In famiglia, ad esempio, c’era anche una corrente di pensiero che puntava a cercare altra terra a Verduno, anche per praticità di lavoro, visto che la cantina è qui. Però alla fine siamo tutti contenti: volevo completare l’esperienza sul Barolo con quella vallata laggiù tra Monforte e Serralunga, dove pure ci sono vigneti, come appunto Castelletto, capaci di esprimere eleganza, che per me è il valore fondamentale, il vero presidio, anche nel Barolo, dove spesso si guarda ad altri valori tradizionali, tutti apprezzabili, come austerità, potenza, nobile astringenza, tenuta nel tempo. Monvigliero, Cannubi e Castelletto sono vigne che hanno una storia profonda, un nome celebre e una grande costanza produttiva: per questo li rivendichiamo come cru. E poi cerchiamo di fare il grande vino corale di Verduno, che si chiama “Acclivi”, e che viene da vigneti diversi – Monvigliero, Neirane, Rocche dell’Olmo, e in futuro Boscatto».

Alle volte, tuoi colleghi che come te si sono trovati a gestire da giovani un’azienda con tanta storia alle spalle, mi hanno confessato di avere il rimpianto di aver quasi “saltato” l’età della spensieratezza. A te è successo?
«In parte sì, ma devo essere sincero: solo in parte. Dai miei vent’anni in poi il tempo mi è sembrato accelerare tanto, e la parte dedicata al lavoro è stata notevole. Ma prima no. Beninteso, ho sempre studiato con impegno, però cazzegg… ehm, facevo dello sport, mi divertivo, vivevo la mia età con con la giusta dose di goliardia. Poi, finita l’Enologica e iniziata l’Università, ecco, lì c’è stata l’accelerazione che dicevo».

Fabio AlessandriaNon ti è mai balenata l’idea di andare a vivere fuori da Verduno, di allontanarti?
«No». 

E l’hai vista cambiare, Verduno?
«Non molto, non dal punto di vista urbanistico e architettonico. C’è una ragione, ed è la sua posizione defilata, perché - come a Serralunga e in parte a Castiglione Falletto - a Verduno non ci passi, se non ci sei diretto. Fa eccezione la vicenda per me amara dell’ospedale, questo mostro che abbiamo nel territorio (il “Pietro e Michele Ferrero” di recente inaugurazione sulla collina nord di Verduno: un edificio di 11 piani e 102 mila metri quadrati con un fronte largo 220 metri, ndr), sul quale in famiglia si è discusso a lungo e spesso, perché tra l’altro mia madre è appassionata di arte e architettura, e mia sorella in architettura si è laureata».

Tu invece in Viticoltura ed Enologia, con 110, lode e menzione, questo me lo ricordo: ma io a un certo punto ascoltando una tua intervista tempo fa ho pensato fossi laureato in Filosofia.
(Fa una pausa). «Mi sarebbe servito, eh». (Altra pausa). «Perché pensavi questo?».

Perché c’è tanto “umanesimo” in te, nel modo in cui pensi e ottieni il tuo lavoro e il vino stesso, e nel modo in cui lo assaggi e lo valuti.
«Mi ci ritrovo abbastanza, sì. Il vino deve avere un contenuto, un racconto, un significato. Non è solo tecnica, non solo inerzia, vive di un approccio culturale».

Parliamo della vigna del Cannubi, il Barolo che abbiamo scelto per la nostra ricognizione verticale. È un cru storico come pochi in Italia, e abbastanza omogeneo, ma anche molto vasto. Dove sta esattamente il vigneto, e che caratteristiche ha?
«La parcella è nella zona detta Cannubi Valletta e misura 0,7 ettari, esposti verso est in un luogo fresco, relativamente alla vigna, che è invece calda, sabbiosa, precoce. La ripiantarono i miei negli anni Settanta sul portainnesto più vigoroso dell’epoca, il Kober 5BB, utilizzando una selezione massale di vecchie piante di Nebbiolo Lampia che arrivava da Monforte, fatta da un vecchio artigiano locale. Già da quest’anno lavoreremo a nostra volta per ottenere una massale dalle piante dei Cannubi».

Qual è il carattere del cru?
«Il calore, la rarefazione, ma anche l’eleganza e la classicità. Cannubi è una vigna calda, bassa in quota, che almeno dal Settecento regala – si è sempre detto - uve di maturità completa e vini di tessitura finissima. Sono dei Barolo che hanno classe, e nelle grandi annate una misura perfetta; sono sobri, dignitosi, definiti. C’è qualche parcella più calda delle altre, dove negli ultimi vent’anni si son viste gradazioni alcoliche alte, ma ci sono delle zone più temperate e fresche, come per fortuna quella dove abbiamo le piante noi».

Quando vendemmi questa parcella, di solito?
«Ah, impossibile rispondere: dipende molto dall’annata, più che altrove. Ci sono stati di recente scarti di tre settimane tra le vendemmie più precoci, come quelle del 2017 o del 2011, iniziate a fine settembre, e quelle più tardive, come la 2014, partite nella seconda metà di ottobre».

Puoi raccontare come poi fai il Barolo Cannubi?
«Portiamo l’uva intera in cantina e diraspiamo integralmente, cosa che come sai non faccio per il Monvigliero. Per i Cannubi (e l’Acclivi, ndr) sì. La fermentazione dura in genere una ventina di giorni, con rimontaggi e follature, a cappello emerso; quindi si svina. Il vino va a finire subito in una singola botte grande da 30 ettolitri di rovere francese, mai nuova: almeno due anni di maturazione del Barbera la botte deve averli vissuti per ospitare il Barolo, ma di solito le botti che uso per il Cannubi hanno 5, 10, anche 15 anni».

Foto di inizio ‘900 ai CannubiIl vino resta sempre nella stessa botte?
«No. La cosa che ho fatto più spesso è trasferire il vino dopo un anno da una botte più giovane a una botte più vecchia. Quanto poi il vino rimanga nel legno dipende, di nuovo, dall’annata: per esempio, nel 2020 a fine giugno ho imbottigliato insieme Cannubi 2017 e Cannubi 2018, che quindi avrà fatto alla fine un periodo di maturazione in legno di un anno più breve: circa 19 mesi contro 31. Il resto è affinamento in bottiglia».

Qual è la cosa che ti piacerebbe venisse detta di te come vignaiolo e come produttore?
«Ti assicuro: io cerco di fare dei vini che piacciano a me. Se arriva qualche complimento, dei consensi, mi fa piacere, è ovvio, ma è una cosa che finisce lì. Non saprei rispondere».

I tuoi Barolo sono oggi al centro di una sbalorditiva speculazione commerciale: oggi (21 luglio 2020), ho visto il tuo Monvigliero 2013 in vendita a 515 euro; ne costava una trentina in origine. Ed è così anche per altri tuoi vini, oggi su cifre siderali nonostante il prezzo “sorgente” sia rimasto sempre più o meno quello. Qual è il tuo pensiero in merito?
«Non mi piace. Per niente».

Perché?
«Voglio esser chiaro: a me non dà fastidio che la gente guadagni sui miei vini; e comunque tanto la speculazione non la eviti. A me dà invece fastidio venire a sapere che tanti clienti appassionati che li hanno sempre bevuti e apprezzati, anche quando non erano così “di moda” come oggi, non li trovino più, non li bevano più, siano stati tagliati fuori da questo meccanismo. Se mi chiedessi quale sia il lato più faticoso del mio lavoro, ti risponderei “fare le allocazioni”, e non quello del più spossante lavoro di campagna o di cantina. È anche il più noioso, e quello che mi crea più malumori».

Allora ti chiedo qual è il lato più bello.
«(Si illumina, letteralmente). Assaggiare un vino che mi piace. E più ancora: camminare in vigna e vedere che l’uva è bella, che le foglie, che le piante stanno bene».

Hai un vino “del cuore”, tra i tuoi?
«No, anzi: facciamo tutti i vini, dal rosato al Cannubi e al Monvigliero, profondendo in ciascuno le stesse energie e la stessa passione. Poi, chiaro: se qualche vino che mi è sembrato avere delle potenzialità viene riconosciuto e apprezzato mi fa piacere. Di recente, puoi confermarmelo tu, è stato il caso proprio del rosato Elatis, nonché del Barolo Acclivi».

Pare anche a me sia così. L’Acclivi è sempre stato buono, ma forse mai come nelle ultime versioni, e l’Elatis secondo me è oggi uno dei più grandi rosati d’Italia. Ma tu produci anche due bianchi da Sauvignon, il Viridis e il Dives, in una zona certo non famosa per questa varietà. Come sono nati? Avevi voglia di una sfida?
«Lo pensate in diversi, invece io le uve bianche le ho trovate in casa: il Sauvignon lo piantarono i miei più di trent’anni fa, nel 1986. A me i due bianchi piacciono, sono sapidi, hanno una bella tempra, una parte “verde” abbastanza sotto controllo. Semmai, la sfida “mia” fu quella col Rosato, perché all’Enologica avevo un docente che insisteva sul fatto che un grande enologo si misura dal rosato che fa. Inoltre, siamo andati in vacanza per alcuni anni in Provenza con quella che è oggi mia moglie. Al ristorante quasi non c’era altra scelta: nove tavoli su dieci avevano su un rosato. Iniziai a portarne indietro due o tre cassette verso casa, ad assaggiarli con attenzione, a sentir crescere un’attrazione. E allora tentai: il 2002 era l’anno perfetto per una sperimentazione, che bissai l’anno dopo; col 2004 abbiamo messo in commercio la nostra prima etichetta di rosato».

Quindi se inizi a viaggiare verso la Champagne ci dobbiamo aspettare una nuova etichetta a metodo classico?
«Non penso, sai?»

Non ami le cosiddette bollicine?
«Le adoro. Appunto. Vorrei lasciarmi almeno un vino, una tipologia di vino, da bere senza doverci pensare su o confrontarmi, o pensare di dovermici cimentare. Ecco. Voglio bere quelle degli altri, di bollicine. In santa pace».

Peccato.
«Non ti bastano i Barolo che faccio?»

Bastano e avanzano.
«E allora? (sorride)».

BAROLO CANNUBI G.B. BURLOTTO
LA DEGUSTAZIONE 2016-2001

2016
Preciso, modulato, intenso (anche al colore), spande un profumo che quasi introduce in un ambiente marino: frutta aspra, china e fiori carnosi affiancano il rimando salmastro in un contesto che suggerisce una quieta saldezza. Sorso più grintoso e dinamico, soprattutto salatissimo; svela così una materia di superiore qualità e si produce in sviluppo inesorabile senza frizioni tanniche o rusticità estrattive; chiude l’assaggio una lunga eco di fiori rosa di clamorosa verosimiglianza ed estenuata finezza. Vino fantastico, tra i più grandi rossi italiani del suo millesimo provati sin qui da chi scrive.

2015
Profilo classico per i Barolo di annata calda, e in particolare per i Barolo dei Cannubi in questi frangenti: il bouquet è rarefatto e sfrangiato, scurito appena da un tocco che richiama la soia. Concedendo qualche minuto d’aria, emergono la tipica suggestione agrumata, un che di delicatamente selvatico (fragolina di bosco, felce, radici) e una traccia aromatica stregante, quasi da pinot borgognone, che tende tuttavia a coprire il resto. Sapore più delicato e cauto del prevedibile, “tocca” con grazia e si ritrae; il tannino è appena più secco del solito, l’acidità più sfuggente; sfuma sui toni eterei. Versione meno concreta e più trasognata del solito, in cui il soave intreccio aromatico infrangerà – in verità ha già infranto - molti cuori, ma a rischio di rabbonire e sottrarre carisma al vino stesso. I puristi del Barolo gli preferiranno quindi altre edizioni.

2014
Profilo non solo diverso rispetto ai due vini sopra descritti, ma anche didascalico per il tipo di annata che è stata a Barolo la 2014: una stagione buia, assai umida, irregolare. Come quasi sempre, in gioventù questi millesimi forniscono buone vibrazioni ed esprimono originalità: qui le note dominanti sono ad oggi quelle “medicinali”, a corolla di un frutto dalla buona maturazione, già screziato però da chiaroscuri boschivi. In bocca il lavorio del tempo è già avvertibile: all’insieme mancano sia un po’ di coesione e di integrità, sia la tensione delle grandi occasioni, e non basta la pur intensa freschezza a promettere margini significativi di evoluzione. Andrà secondo noi bevuto, e con vivo piacere, in questi prossimi due o tre anni, se lo si vuole cogliere al suo meglio.

2013
Non abbiamo un aggettivo migliore di “solenne” – avremmo anche “monastico”, “rabbuiato” e “autorevole”, ma andiamo con “solenne”. Una complessità da capogiro rende difficoltosa la resa per descrittori (volendo tentare: alghe, fogliame, fumo, arancia amara o tamarindo, rosa appassita, vibrante nota minerale); meglio tentare suggerendone l’emozionante reattività all’aria, il carattere ruvido e bilanciato a un tempo, la severa grana del tannino e la furiosa salinità capaci di conferire irruenza e tensione, l’uscita tersa, nitidissima. Persistenza di venti minuti; prospettive future esaltanti, avendo almeno tre decenni di positiva evoluzione davanti; tipicità impeccabile sia come Barolo, sia come Cannubi.

2012
Parto di un’annata che ha diviso più o meno in due critica, osservatori e pubblico, e dalla quale confessiamo di non essere mai stati troppo coinvolti. Qui, però, c’è il meglio che la 2012 abbia saputo dare, almeno ai Barolo: risorse aromatiche non negabili (i profumi, dominati dalle note floreali, sono sobri, coordinati, tutt’altro che banali) e un bel garbo d’insieme, basato su un’estrazione prudente e una spontanea levità “gestuale”. L’assaggio rivela un talento non esaltante e forme morbide; è virato all’amaro, asciutto e stringato, manca di quella tempra – patrimonio per noi irrinunciabile anche nei Barolo poco tannici - e chiude senza concedere che tenere e generiche citazioni floreali. Per spezzare una lancia a suo favore, troviamo probabile che regga nel tempo – magari altri dieci anni o più - così com’è oggi; nel caso, solleciterà una parziale revisione del giudizio.

2011
Il vino più più austero della verticale, nonché il più enigmatico, da un millesimo che non è mai stato facile inquadrare, avendo fornito vini contraddittori da un comune all’altro e da un vigneto all’altro, quand’anche limitrofi. Lo governa da sempre la timbrica fenolica: si avverte la tannicità del vino già solo accostandoci il naso – che sa di concia, lentisco, terra, liquirizia e spezie tostate, oltre che di fiori secchi e ciliegia nera. La ricchezza estrattiva contrae l’assaggio, che trova una materia densa, corrugata, un tannino che stringe, un’acidità in deficit; l’uscita è di conseguenza in chiaroscuro, amarostica, spinta in lunghezza dalla veemenza minerale. Forse, tra tutti i vini della verticale, è quello del quale un abbinamento gastronomico riuscito – stracotti, brasati, zuppe intense dalle lunghe cotture - può rivelare inattesi punti di forza.

2010
Altro Barolo a elevato tasso emozionale, e interpretazione colta dell’annata classica e del concetto stesso di “classicità” nel vino. Il quale, appena stappato, fornisce di sé un’idea oscura – rimandi alla torba e alla brace, note medicinali, di bergamotto, di vermouth – e poi via via si schiarisce, fino a lasciar emergere il suo tratto più sentitamente marino (salsedine, iodio, salicornia) e una evocazione floreale. Al sorso è l’equivalente enoico di una scultura di Giacometti: stilizzata ed essenziale, ma ferrea, inscalfibile, e potentemente espressiva, persino monumentale; il tannino è di una dolcezza straordinaria, l’insieme ha una coordinazione davvero portentosa, e non gli manca nulla, certo non l’acidità, che distilla agrumi nel finale di bocca, né una sorta di energia latente, che è impossibile non cogliere; l’epilogo ha infine un nitore da togliere il fiato.

2009
Qualche tono sanguigno e selvatico dona interesse al bouquet, per il resto incline a richiami dolci o dolciastri (zucchero bruciato, maraschino, ciliegia sotto spirito, liquirizia dolce). La sorpresa è nella qualità del sapore, ben distribuito, più fresco e meno sfacciatamente alcolico del previsto (l’annata è rubricata tra quelle molto calde, in zona), e dal finale setoso, modulato, elegante. Pur non avendo ricevuto in dote la scintilla del genio, e nonostante sia finito schiacciato nella sua “batteria” in mezzo a due mostri sacri (2010 e, come vedremo, 2008), non ha affatto sfigurato. Ha inoltre a nostro avviso valide prospettive di ulteriore evoluzione sui sei-otto anni a partire da ora.

2008
Apparso da subito ai grandi aficionados come un Barolo di autentica grandezza, e invece sottovalutato dalla stampa internazionale in cerca di valori ed espressioni “universali”, è tuttora in ottimale stato di servizio. È, volendo sintetizzare, un vino completo e un Barolo perfetto: porge un profumo di violetta e melagrana, spezie officinali e agrumi, tabacco, iodio e menta, e un sapore ampio e succoso, ritmato da tannini minutissimi e percorso da una corrente di freschezza. Chiusura linda per definizione e corrispondenza, lunga ed espressiva. Per noi è il capolavoro della cantina se ce n’è uno nel suo decennio di pertinenza; ormai, d’altro canto, una bottiglia irreperibile o quasi, e anche trovandola ha quotazioni astronomiche – che considerandone il valore per noi fuori discussione di “archetipo tipologico”, non sorprendono.

2007
Primo elemento di un trittico (2007-2006-2005) di annate diseguali, di estremo interesse proprio per la diversità di indole rivelata nei fatti dai tre vini nel bicchiere; un piccolo, istruttivo “ologramma” di quanto il territorio di Langa abbia espresso, salvo le ovvie eccezioni, nei millesimi in questione. Dei tre, dunque, il 2007 è il più lieve al colore, il più delicato, varietale e sobrio: un vino di proporzioni minute ma esatte. Descrittori utilizzabili per il bouquet: mandorla, spezie dolci, fiori rosa, salvia, con un che di “sciropposo” e un tocco alcolico in progressiva emersione. Bocca intatta da anni e ancora coesa, giovanile e fresca, profilata, armoniosa, poco o nulla astringente; chiude magari non così lungo, ma su piacevoli accenni sapidi e floreali. Averne.

2006
L’annata dei vini italiani più estroversi del primo decennio del secolo, spesso anche troppo estroversi, fino a correre il rischio di risultare poco bevibili per eccesso di muscoli, estratti, alcol, tannino o maturità, a seconda dei luoghi. Qui invece tutto è in un equilibrio virtuosistico: certo, il calore alcolico non manca, e filtra puntuale e ben leggibile nelle intense note di ciliegia macerata, mirto e rosolio del bouquet; di contro, però, la spontanea coordinazione e la gradevole sensazione di pienezza - mai arrogante o dimostrativa - dell’assaggio ne fanno il più riuscito esempio della verticale di interpretazione di un Cannubi “muscolare”. Anche il finale, amabilmente avvolgente, porta con sé un’impronta positiva nel ricordo.

2005
Ed ecco invece un rosso profondo, misterioso e inafferrabile, come non pochi 2005 di Langa. Ritroso e poco espansivo nel tema aromatico – impressionante il confronto ravvicinato con la frenesia del 2006 – è declinato su note di lavanda, mora e spezie tostate, appena “affumicate”, dal tono intimistico e scontroso. Bocca più materica del preventivabile, ma di nuovo con chiaroscuri decisi che ne ombreggiano la fisionomia. Ha svolgimento veloce, non complesso, ma ben equilibrato tra tannino e freschezza; epilogo a sua volta conciso, veloce. Sollecita una riflessione: non sempre la cupezza espressiva coincide con, o prelude alla, “tangibilità” della materia. Anzi: abbiamo visto in Italia almeno tre annate nel nuovo secolo, tutte piovose o comunque umide e poco irraggiate (2002, 2005 e 2014), in cui spesso si incrociano una silhouette in chiaroscuro - presagio di maturità e ricchezza - e una fisionomia scorrevole e diluita al gusto, alla fin fine deludente.

2004
Fu un’annata generosa e accolta bene per via della disponibilità dei vini sin dall’uscita. A oltre quindici anni dalla vendemmia, la fisionomia più comune nei 2004 di Langa è quella testimoniata da questo Cannubi: una sorta di essere bifronte, in cui a un naso maturo ma integro (solo cenni di cacao e tabacco scuro su un bel frutto dolce e qualche suggestione floreale e speziata) fa riscontro una bocca più corta, sbrigativa e ammandorlata all’epilogo, in cui manca, rispetto ad altre annate del periodo (2001, 1999, 1998), la forza salina capace di rilanciare le sensazioni finali. L’esito globale è quindi positivo, ma con riserva: lo approcceremmo entro due o tre anni, per non rischiare di coglierlo all’inizio della sua parabola discendente.

2003
Unico vino della verticale – anzi: unica bottiglia delle quindici – provata e fiaccata dal tempo. Fragile, dolciastro, un po’ appiccicoso nei richiami di dattero e tabacco biondo, sciroppo d’acero e fichi, e timbrato da una strana nota “verde” da maturazione incompleta, il 2003 non decolla neanche all’assaggio, dove anzi fila via rapido verso un epilogo senza grazia né espansione “da Barolo”. Sentita l’azienda, e avuto notizia di assaggi più edificanti dello stesso vino in tempi recenti, ci è balenato il sospetto di una bottiglia sfortunata. Dunque, chi ne ha non disperi; ma per verifica lo stappi, se accetta un consiglio, in tempi non epocali, perché la conservazione di questo campione così stanco era stata ottimale, e il tappo perfetto.

2001
Dopo il piccolo “salto” temporale dovuto alla mancata produzione del 2002, ecco infine il fuoriclasse che non aspettavamo. L’annata aveva dato Barolo dall’indubbio carisma, ma non facili: avevano anche in gioventù un carattere recisamente minerale e un’indole riservata, qualche volta finanche poco accogliente. Ebbene, non è il caso di questo Cannubi da sogno, dopo evoluzione di quasi vent’anni. Più che di Barolo, viene da parlare di Barocco: profuma a un metro di distanza di rosolio, mare, fiori bianchi, spezie tostate e pesche gialle, ed è in grado di scatenare a seguire un autentico tourbillon in bocca, espansiva, materica e fresca dall’attacco all’uscita. La forza astringente del tannino, di suo molto addolcito, è calmierata dalla vena di freschezza che lo percorre; la chiusura è in piena propulsione; il senso di accuratezza che lascia alla memoria è infine un omaggio al Barolo nella sua mitizzata capacità di nascere e rinascere, sempre nuovo e sempre diverso.