Dogliani DOCG Poderi Luigi Einaudi. Al centro, al margine

Dogliani DOCG Poderi Luigi Einaudi. Al centro, al margine

La Verticale
di Armando Castagno
18 giugno 2022

A pochi minuti di strada da storiche roccaforti del nebbiolo e delle Langhe, il dolcetto acquisisce vigore, eleganza e straordinaria longevità

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 22 Maggio 2022

«Su duemilaottocento abitanti di Dogliani, cinquecento erano proprietari terrieri: quasi una persona ogni sei, cioè una persona per nucleo familiare. Quindi c’è questa grande e radicata abitudine alla piccola proprietà, e il conseguente senso di responsabilità anche nei confronti della Comunità. Quando nei documenti antichi si parla della comunità di Dogliani, Comunità è in maiuscolo, e dogliani è in minuscolo». Nelle parole di una produttrice colta e acuta quale Nicoletta Bocca, raccolte da Massimo Zanichelli in un ispirato mediometraggio («Nel nome di Dogliani», 2017), c’è riassunta una storia lunga e originale, in cui individuo, luogo e vitigno si intrecciano per davvero. Sono i tre elementi di un terroir che in questa accezione, la più limpida e onesta possibile, non muove da un perspicace progetto di comunicazione ma dal ruolo sociale dell’agricoltura, decisivo per l’affermazione (nel senso di asserzione) personale, del sé, del proprio senso e del proprio ruolo nelle collettività rurali e nel sistema economico. In quanto tale, è una testimonianza da leggere, rileggere e meditare: una possibile chiave di lettura di tutto quanto segue. Da capitali dell’enogastronomia come Barolo, scendendo da nord, o Carrù, salendo da sud-ovest, basta un quarto d’ora di macchina andando piano; da Monforte d’Alba, nemmeno dieci minuti. Dogliani è lì, acquattata e bislunga nel ventre di un territorio celebrato ovunque nel mondo, le Langhe, eppure ne è al margine; è sempre stata descritta come un ponte, un luogo di transito, una porta verso mercati interessati a ciò che ne è sempre nato, segnatamente al suo vino.

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A questi due elementi, la porta e il vino, è sembrato utile riferire i due termini che, fusi insieme, si suppone ne compongano il nome: dolium, cioè “giara”, e ianua, propriamente “porta”. In realtà, non c’è bisogno di scomodare due termini, perché ne basta uno: il toponimo di luogo in doliariis, da cui facilmente “Dogliani”, significa infatti qualcosa in autonomia, identificando niente altro che le cantine, qualcosa che qui c’è sempre stato. Quale che sia l’etimo geografico, il vino rosso di questa terra, comparato con quello delle gloriose zone con cui confina a nord, si trova comunque anche lui al margine: al margine della loro fortuna. L’agglomerato urbano di Dogliani ha la struttura delle città di mare, forzate ad assecondare la costa: ha forma curvilinea e concava, è spesso al massimo settecento metri ma è lungo oltre sette chilometri e mezzo. In effetti, asseconda qualcosa: le sponde del torrente Rea, un affluente del Tanaro, che scorre tra due versanti. Di uno di essi, sulla sinistra entrando dalla Provinciale 661, si intuisce la natura calcarea di arcaico fondale marino – che riguarda tutto il comune – grazie alla presenza a bordo strada, dietro le prime abitazioni, di dirupi di roccia dall’aspetto farinoso, di un bianco abbacinante, arabescati di vegetazione spontanea. Tutt’intorno, a perdita d’occhio, ecco il maestoso anfiteatro dei vigneti del Dogliani-vino, disposti a corolla del paese; si stendono ben oltre la prima quinta di colline, fino a tracciare i propri geometrici reticoli su un territorio da quasi 25 mila ettari proteso verso Sud per ulteriori 31 chilometri, fin troppi; ma così hanno stabilito i disciplinari della Doc (come “Dolcetto di Dogliani”, 1974) e poi della DOCG, arrivata nel 2005, e che a partire dal 2011 impone la semplice denominazione “Dogliani”, giustamente eliminando il riferimento al vitigno. La scelta secolare del Dolcetto come varietà-base del vino locale sarà sembrata oggi a qualcuno uno strumento di proto- marketing; “altrove fanno Nebbiolo, Moscato e Barbera, noi proviamo a differenziarci con qualcosa di insolito”. Analisi non solo superficiale, ma errata; i dati climatici, le ripide giaciture, le specificità geologiche del Doglianese spiegano il tutto in modo semplice, e rendono la scelta perfettamente logica. I suoli sono più argillosi e grassi che nella Langa di Alba; drenano in modo meno efficace se non sui versanti, e sono più freschi, inadatti a varietà tardive come il nebbiolo. Quanto al clima, è sufficiente scendere a Dogliani dalla zona del Barolo nei mesi invernali per verificarvi spesso la tenace persistenza di brume, foschie e nebbie di fittezza inusitata. Una varietà precoce come il dolcetto si trova dunque a meraviglia in un luogo simile, offrendo il meglio di sé anche perché qui gli sono riservate le posizioni migliori, in declivio sui fianchi dei contrafforti (del resto Dolcetto non c’entra col termine “dolce”; viene da dossèt, cioè “collina”); il film di Massimo Zanichelli sopra citato è stato girato per intero in discesa, salvo le scene in interni; molti protagonisti vi agiscono o si raccontano lungo autentici burroni. Il vitigno matura di solito senza intoppi in queste vigne, dove ha tutto il tempo di elaborare preziosità aromatiche speziate e floreali sposandole a una struttura fondata sulla dolcezza del frutto, più serrata e corposa che altrove; ci verrebbe da affermare come la vocazione ancestrale del Dolcetto ad accompagnare brillantemente la cucina locale, rendendolo per antonomasia il “rosso per tutti i giorni” sia stata la sua croce almeno quanto la sua delizia. Ferme restando la bellezza e la modernità delle versioni in leggerezza del vino di Dogliani e dei suoi dintorni, riteniamo che l’esito in bottiglia dei vini la cui ambizione nasca da una situazione ambientale favorevole, e non solo dalle diavolerie tecniche di cantina volte a concentrarlo, risulti meno caricaturale di quello di altre varietà messe alla prova per rinnegare una radice popolaresca. Il rammarico – non solo nostro – è quello di aver visto più spesso osannati dalla critica nazionale negli ultimi venti anni ipotesi di super-Dolcetto locali cupi, confetturati, peciosi, brucianti e affumicati – cioè vini frutto di una forzatura enologica evidente – piuttosto che Dogliani dalla più spontanea concentrazione di sapore, sapidi e freschi, il cui carisma nasceva e nasce dalla bontà dei vigneti di origine e dalla capacità di sposare nel bicchiere equilibrio e forza d’urto, vigore ed eleganza. Del resto, ogni nostra verifica in tema di longevità degli uni e degli altri si è risolta per i primi in un catalogo di delusioni e per i secondi in una serie di sorprendenti epifanie, di una delle quali diamo qui conto.

Tornando al fatto storico, era quindi verosimilmente un vino da uve dolcetto già quello che i Marchesi di Saluzzo accettarono per decreto fosse conferito, in luogo di adempimenti fiscali o periodi di servizio militare, da parte dei contadini doglianesi, ed era l’anno del Signore 1369 (!). Della presenza del dolcetto su questi versanti qualche decennio dopo siamo invece del tutto certi – il vitigno è diffusamente citato tal quale nei testi degli Statuti e delle ordinanze. Una di esse, datata 1593 e conservata negli archivi comunali di Dogliani, condiziona la possibilità di vendemmia anticipata a uno speciale permesso. Recita: «Niuno ardischi, al di qua della festa di San Matteo, vindimiar le uve, et se qualcheduno per necessità o altra causa dovrà vindimiar qualche Dozzetti, dovrà prender licenza dal deputato sotto pena della perdita delle uve». La festa di San Matteo è il 21 settembre, e quindi chi legge questo testo si trova di fronte due dati interessanti: né più né meno che un ban de vendange sul preciso modello borgognone ma risalente alla fine del secolo XVI; e una data di avvio della vendemmia che ai giorni nostri, in epoca di riscaldamento globale, sarebbe quella di un millesimo tardivo. Come accennato, il territorio di Dogliani non è il territorio del Dogliani inteso come vino, allargato dal disciplinare a un ambito quasi otto volte maggiore; tuttavia, nell’areale della DOCG possono individuarsi aree concentriche partendo dal fulcro della denominazione, che è ovviamente il comune di Dogliani, con le sue diverse sottozone, che passeremo in rassegna più avanti. Una prima corona esterna è costituita dai (pochi) vigneti dei tre paesi limitrofi: a nord-ovest di Dogliani le vigne di Monchiero, a est quelle di Roddino e di Somano. Unendole alle vigne del comune eponimo, esse formano sia il vertice settentrionale della denominazione, sia il suo culmine qualitativo: è per dir così la zona “classica”. Scendendo verso sud, si individua una successione di sei comuni lungo una ventina di chilometri di sviluppo, dove il vigneto ha da secoli strappato fianchi collinari al bosco e dove si individuano ancora toponimi catastali comuni a quelli delle Langhe settentrionali (Villero, Bricco, San Rocco); i comuni sono Farigliano, Belvedere Langhe e Clavesana, e più lontani Bastia Mondovì, Cigliè e Rocca Cigliè. Oltre, in ogni direzione, dove la vigna ha presenza sporadica ma è ancora possibile produrre il Dogliani DOCG, si entra nei territori dei restanti 11 comuni: Piozzo e Carrù (a ovest), Murazzano, Marsaglia, Igliano e Castellino Tanaro (a est), e le Langhe monregalesi di Briaglia, Niella Tanaro, Vicoforte, San Michele Mondovì e Mondovì (a sud). Qualcuno di questi comuni, placidamente adagiato nei fondivalle in riva a corsi d’acqua, rivela la sua vivace natura di mercatale, di luogo di commerci e di confronti (Dogliani, Clavesana, Farigliano); altri, al margine del margine, sono torvi, splendidi bastioni abbarbicati sui colli, in posizione difensiva (Belvedere Langhe, Rocca Cigliè, Bastia). Il comune di Dogliani, come intuitivo, è il cuore pulsante della denominazione; diviso orizzontalmente in due dal letto – in estate abbastanza sguarnito – del torrente Rea, esso annovera due “rioni” (Castello e Borgo) dal punto di vista urbanistico, ma da quello vitivinicolo le zone sono almeno sette, che non solo la conformazione del luogo ma anche secoli di attività contadina hanno permesso di delimitare; non sono tutte ugualmente adatte ad ospitare il Dolcetto, ma tutte mostrano una notevole vocazione.

A nord del torrente, parallele tra loro, si individuano quattro dorsali disposte diagonalmente da nord-est a sud-ovest: 1) Santa Lucia, con la storica zona di San Giacomo e la cosiddetta “Toscana” (sic) verso il confine con Monforte; 2) San Luigi, lungo la quale sfilano toponimi resi celebri da etichette blasonate, come il Bricco Botti o il Briccolero; 3) Valdibà, dall’omonima cascina al limite nord dell’areale, in direzione di Monforte, che comprende “cru” autorevoli come San Fereolo, Costabella o le ventose Coste di Riavolo; 4) San Martino, lungo la strada che porta a Roddino, con le zone di Castiglia e di Pianezzo; 5) la piccola zona della Cascina Martina, sulla strada verso Bonvicino, dopo la confluenza nel Rea del torrente Gomba. A sud del Rea, altre due zone fondamentali di, e del, Dogliani: 6) le vigne al confine con il comune di Farigliano, tra il Piancerreta e il Pian del Troglio; e infine 7) l’ampia zona intorno alla Madonna delle Grazie, con i “cru” Tecc, Spina, Gombe, Borgata Pironi, Cozzi, Barroeri, Masanti, Casale Soprano, Casale Sottano e Giacchelli. In totale, i comuni interessati sono 21, dei quali 14 per l’intero territorio e 7 per una sua frazione; gli ettari vitati rivendicati per il Dogliani DOCG (dato del 2020) circa 788; il totale di bottiglie prodotte all’anno attorno ai 3 milioni. Il “trend” recente è di segno negativo: dal 2011 al 2020 sono usciti dalla rivendicazione qualcosa come 257 ettari e due milioni di bottiglie, “migrate” in particolare verso la Doc “Langhe Dolcetto”, la quale intercetta una domanda di rossi di stile nettamente più fresco e disimpegnato, tanto che le rese consentite per ettaro sono di parecchio più generose rispetto al severo disciplinare del Dogliani (il Langhe Dolcetto permette fino a 100 quintali per ettaro contro gli 80 del “Dogliani”, o i 70 del “Dogliani Superiore”).

Nell’ultima delle zone sopra citate, la Madonna delle Grazie, ha sede la cantina che è stata meta di questo nostro viaggio: i Poderi Luigi Einaudi, la cui vicenda storica si intreccia persino coi destini nazionali, e abbiamo trovato meritasse un racconto. Ci si arriva attraverso una Via Crucis; non perché la strada sia particolarmente insidiosa o ripida, pur montando fino ai 400 metri della sommità della collina dei Tecc (“tetti”), quanto perché ritmata dalle stazioni della Passione di Cristo opera dell’architetto Giovan Battista Schellino (1818- 1905), doglianese della borgata Spina. Progettista e finanziatore in proprio della Parrocchiale del paese e di altre 17 opere una più bizzarra dell’altra nel solo comune (più una pletora di altre sparse nella Granda, da Murazzano a Bra, da Novello a Mondovì), “Schelìn” è passato alla storia in zona come il “Gaudì delle Langhe” – e speriamo vivamente che i morti non ci ascoltino. Si diceva dell’azienda, che ha trasferito una trentina di anni fa la sua sede dalla cantina storica di San Luigi, fattasi troppo angusta, a quella – più ampia e allo scopo ristrutturata – della Cascina Tecc. A fondare l’intrapresa era stato proprio quel Luigi Einaudi (1874-1961) che si studia a scuola: correva l’anno 1897, e il futuro successore di Azzolini come Governatore della Banca d’Italia e di Alcide De Gasperi alla Presidenza della Repubblica, aveva 23 anni ed era fresco di laurea in Giurisprudenza a Torino. Luigi acquistò terreni presso la villa San Giacomo, li reimpiantò interamente destinandone buona parte alla viticoltura (in promiscuo, come normale all’epoca: il nipote Ludovico Einaudi, famoso musicista, ricorda che si andava in vigna a cogliere e mangiare le pere) e tracciò le linee guida della produzione, attivando un efficiente sistema mezzadrile. Ebbe, come noto, molti e grandi meriti dal lato politico prima e dopo la Seconda guerra mondiale (ci crediate o no, è persino esistito – e fu lui – un Ministro del Bilancio italiano che abbia abbassato le tasse) e tre figli. Il primo, Mario, non era interessato all’agricoltura; seguì la carriera diplomatica fino a diventare ambasciatore negli Stati Uniti; il terzo, Giulio, è forse divenuto più celebre del padre, ed è figura nulla meno che leggendaria dell’editoria italiana (Giulio Einaudi Editore); il mezzano, Roberto, ingegnere meccanico a sua volta di fama internazionale, fu colui che proseguì l’attività vitivinicola. Sua figlia Paola lo affiancò a partire dalla fine degli anni Ottanta, ed è a lei che si deve l’operazione più convinta, più metodica e più efficace di rilancio dello storico marchio doglianese, che aveva vissuto tempi difficili. Il figlio di Paola, Matteo Sardagna, architetto, è oggi al timone di una cantina che sforna 14 etichette di vino, tra cui cinque Barolo e due Dogliani, da otto poderi diversi di cui tre nel comune di origine. Il Dogliani che in questa nostra ricognizione abbiamo “scandagliato” nella verticale di cui leggerete è il vino “di base”; è frutto della vinificazione delle uve dolcetto dei tre poderi, per complessivi 23 ettari. Le esposizioni dei vigneti, tutti sulle marne argillo-calcaree tipiche del distretto, girano da Sud-Est a Sud, fino a Sud-Ovest, ad altitudini di 375-400 metri (podere Madonna delle Grazie), 350-370 (podere San Luigi) e 340-350 (podere San Giacomo). L’età degli impianti è variabile: i più recenti sono del 2010, i più vecchi del 1941, e tutti utilizzano il portainnesto SO4 o il più debole 420A. Si vendemmia di solito a inizio settembre; il vino è lasciato fermentare in acciaio o in cemento avendo cura che la temperatura non si alzi sopra i 28°C, e una volta svinato matura in contenitori dei medesimi materiali, acciaio e cemento, per tempi variabili; le 150.000 bottiglie prodotte sono infatti il risultato di più imbottigliamenti differiti, ma in generale il vino esce in commercio durante l’anno successivo alla raccolta.

Prima di passare al resoconto della degustazione, l’autore desidera ringraziare Matteo Sardagna Einaudi e con lui il personale della cantina per la disponibilità e l’affettuosa accoglienza, il prof. Michele Antonio Fino per l’amichevole, e imprescindibile, aiuto nell’organizzazione, e il direttore di Viniplus Alessandro Franceschini per aver accettato di condividere con chi scrive le sue impressioni di viaggio e di assaggio.

La degustazione

2021
Colore porpora dalle belle trasparenze e dai riflessi indaco. Bouquet brioso, pepatissimo, piccante e cosmetico: c’è una netta traccia floreale di peonia che si staglia col passare dei minuti su frutto non meno che esuberante e piacevolmente selvatico (ribes rosso, o lampone maturo). Sapore come ce lo si attende: intenso, fresco, di non timida densità e con tannino dolce e corposo, ma ritmato da acidità così infiltrante da rendere piacevolissimo il sorso. Chiude su un leggero ricordo alla liquirizia, appena più amaro. Semplice e irresistibile, è il più classico rosso da tutto pasto che possa venire in mente, solo all’inizio di una traiettoria che sarà istruttivo seguire.

2020
Il tono aromatico che lo inaugura, tra i più eleganti della verticale, ricorda da vicino i profumi del glicine e della rosa, accompagnati da una nota di confettura di fragola, un tocco rugginoso e un vivace richiamo speziato tra il pepe e lo zenzero. Al sorso vive di una materia tenue e calibrata, irrorata di freschezza; il tannino stringe con estrema delicatezza, il finale è una inattesa quanto gradita infusione salina. La consideriamo un’edizione riuscitissima: comunica un senso di purezza e coesione, diremmo di quieta sicurezza. Ha una marcia in più del 2021, essendosi avvalso di un fondamentale anno in più di affinamento.

2019
Profondo e baritonale, presenta una marcata distanza espressiva dai due vini precedenti: qui il frutto è ugualmente dolce ma molto più maturo – amarena, gelso – e l’insieme, sfumato di nuance minerali quasi affumicate, ha un che di severo. La bocca conferma l’impressione: compaiono un cenno boschivo (humus, corteccia) e un tono amarostico nella dinamica del sapore, frizionato da un tannino e da un estratto rilevanti per la tipologia, e con ruolo dell’acidità confinato in secondo piano. Finale peraltro lungo e saporito, con classica eco di cuoio conciato e liquirizia. L’annata ha qui creato le premesse per un Dogliani adatto più ai secondi piatti della verace cucina locale che ad un consumo spensierato. Non riteniamo tuttavia matematico che un rosso di questo genere evolva meglio dei suoi “colleghi” dalla materia più lieve.

2018
Un’ulteriore, differente ipotesi, almeno la terza nelle quattro più recenti vendemmie. È infatti una versione calda e avvolgente, dai profumi maturi e rarefatti: viola, amarena sotto spirito, saggina e fieno, con un che di iodato e persino di ematico in fondo; note queste ultime in convinta emersione man mano che il vino prende aria nel calice. Al sorso risulterà tra i più duri, asciutti ed essenziali della sessione, con la sua materia rigorosa, il suo tannino di decisa astringenza, e soprattutto la vasta, magnifica diffusione salina del finale. Inequivocabilmente più Dogliani che Dolcetto, poco concessivo, assai austero e carismatico, certo non in cerca del consenso ma di virtuosistico equilibrio generale; facile pronosticargli una vita lunghissima, pur senza che sia prevedibile un suo addolcimento di indole: per un vino della sua fascia di prezzo, un carattere del genere è di per sé conseguimento lusinghiero.

2016
Integro ed estremamente reattivo all’aria, mostra pur nelle varie trasformazioni registrate in mezz’ora un carattere estroverso e fruttato, tanto da sembrare di almeno quattro anni più giovane, nel colore come nell’integrità del patrimonio aromatico. Profuma di ciliegia e rosa rossa, ma anche di fiore bianco, cappero, ginepro, salsedine: una complessità inaspettata che pare essersi sviluppata indipendentemente dal sapore, in linea con quello dei vini precedenti per peso estrattivo, viva acidità, rigore tannico e compostezza. Chiude su ritorni di frutta rossa fermentata e forse un leggero ricordo di tabacco biondo e anice, nel consueto, generoso rilascio di sensazioni saline.

2015
Trentottesimo al mondo nella famosa classifica dei guru d’oltreoceano. Ma non scoraggiatevi: è un vino che ha il suo perché, sebbene sia il classico rosso da dolcetto di annata calda, in cui ogni componente sembra evaporata tranne l’essenziale. In particolare, spicca una vena di frutto rosso dolce che percorre il sorso come una corrente carsica e che sembra destinata, tanto è integra, a persistere per altri dieci anni almeno. Il resto – ossia le note floreali, erbacee, minerali e speziate – è finito sacrificato al gran calore del millesimo, e non è che una flebile voce appena distinguibile nella coltre alcolica e fruttata. È, di conseguenza, un vino “di puro tatto” all’assaggio: materia densa e in debito di sfumature, tannino masticabile, freschezza in second’ordine e purtuttavia un finale salino di lunghezza inaudita per la categoria e la tipologia. Da spendere senza timore su piatti untuosi, come quelli fatti “in casseruola”: cibi che ne esalteranno la rude, accalorata veemenza.

2014
Prevedibilmente impersonale e in plateale deficit di vigore ed energia, ha se non altro qualche carta da giocare ai profumi, di discreta finezza in una declinazione speziata tra la liquirizia in bastoncino e il pepe bianco, e nell’aplomb dell’insieme, nonostante l’affacciarsi dei primi cenni “termali” di acqua piovana e argilla. Al sorso è tuttora ben coeso, sebbene probabilmente non per molto; l’innegabile diluizione del sapore a centro bocca, lascito indesiderato di questa annata, non promette nulla di buono per i prossimi anni, e consiglia una stappatura veloce delle bottiglie ancora eventualmente nelle nostre cantine. Del resto, è quanto con il senno di poi i millesimi di questo genere (ad esempio 1987, 1992 e 2002) sarebbe stato il caso di fare, salvo poche mirabolanti eccezioni.

2013
Assaggio indimenticabile e del tutto inatteso negli esiti. Si accosta il naso e si rimane esterrefatti davanti allo straordinario bouquet di susina rossa, garofano, calcare, limone e torba che è in grado di squadernare. Un insieme inedito nella nostra memoria, del quale un vino della zona confezionato in acciaio non avremmo ritenuto capace. Invece non è neppure tutto lì: la bocca, senza il benché minimo cenno ossidativo, ha una appassionante durezza, piena coesione e un candore monacale, ed è in grado di allungare all’epilogo su suggestioni marine di autentico fascino. Si tratta di uno dei più grandi vini da Dolcetto mai assaggiati da chi scrive, in stato evolutivo miracoloso e pronto ad affrontare almeno altri dieci anni di evoluzione esente da rischi.

2011
Un’edizione giocata sull’ardore espressivo, cui mancano forse le sfumature di altri millesimi. Un frutto rosso ben maturo, potente e definito, la fa da padrone nello schematico quadro di aromi aperto a deboli suggestioni floreali e, non molto più convintamente, vaporose, mentolate e balsamiche; alla fin fine, è un quadro semplice. Al sorso va un filo meglio: il vino esprime esuberanza e calore, ha un tannino decisamente compatto, una freschezza relativamente depressa e una veemente nota di liquirizia ed erbe nel finale, caratterizzato da insistiti toni amari. Se fosse un motore di automobile, sarebbe al limite del “fuori giri”; nel vino, però, esiste sempre la possibilità che una evoluzione ancora più spinta possa ammansire un simile impeto, regalando magari suggestioni nuove, a oggi imprevedibili.

2010
Questo è – a trovarlo! – un rosso da piazzare alla cieca in una tavolata di appassionati del grande vino di Langa. Sa di glicine e catrame vegetale, humus e carciofo, ciliegia e aghi di pino: in sostanza, un clamoroso profilo da Barolo della tradizione, e che evidentemente non richiama potenzialità del vitigno, del quale ai profumi onestamente non si intuisce traccia, ma del luogo, che invece salta subito alla mente. L’apertura gustativa è di ampio respiro e perfetta misura, e ne rivela qualcosa; del Barolo gli manca infatti l’incalzante dinamica del sapore, qui più sincopato e cauto, con il suo tannino minuto e saporito e il puntuale controcanto nell’acidità. Un cenno salino conclude l’assaggio di un Dogliani positivo e sorprendente in ogni aspetto.

2009
Profilo olfattivo simile a quello del 2015: c’è in primo piano un frutto confetturato e dolcissimo, tra visciola e mora. Per il resto, dal lato aromatico, il quadro è un po’ sguarnito: un “ascolto” attento rivela accenni di carbone dolce, resina, mandorla glassata, e un che di floreale (fiori da bulbo), ma l’insieme risulta velato, non a fuoco. Il sapore, a sua volta, non manca di polpa, ma ahinoi nemmeno di ardore alcolico, e ci si trova a desiderare un quid di acidità in più. Il finale, pur lungo e carnoso, torna a suggerire analogie con il sapore della frutta più matura e zuccherina, stemperata alla fine nella solita, violenta sapidità. In definitiva, giudizio semplice da esprimere: è una versione dalla materia eclatante rimasta però sempre “in disordine”, senza cioè aver mai trovato una coesione d’insieme che ne lasciasse cogliere l’unità.

1991 (Dolcetto di Dogliani DOC)
Stappato senza grandi aspettative, è un rosso emozionante. Ha note di rabarbaro e rosolio nel celestiale profumo che il tempo ha trasformato con garbo; un profumo che stringe il cuore, e che l’improvviso contatto con l’aria, dopo più di trent’anni, allarga alla terra battuta, al fiore bianco, al peperoncino, al metallo rovente, e via via verso complessità di cui è arduo rendere l’idea. Il sorso è delicato, di purezza intatta, senza un cenno di scalfittura: la grana del tannino è sottile e dà l’idea di esserlo sempre stata, l’acidità tuttora vivida e incisiva; in fondo si affaccia un’idea affumicata prima che la sapidità provveda a foderare guance e palato, lasciando una sensazione di classica purezza.