Fermavento. Passato e prospettiva del Romagna Sangiovese

Fermavento. Passato e prospettiva del Romagna Sangiovese

La Verticale
di Armando Castagno
21 gennaio 2023

Lontano dagli stereotipi del passato, a Bertinoro Giovanna Madonia mostra il volto generoso, austero e territoriale del sangiovese

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 23 Novembre 2022

Basterebbe la nozione che a Bertinoro, nel ventre della Romagna di collina, il vino si chiama e bè, ossia “il bere”, per giustificare un viaggio alla ricerca del suo rosso più significativo. Una terra dove l’ambito semantico del vino coincide tout court con quello del bere deve avere argomenti convincenti da traslarci dentro, diciamo dentro al vino, specie se a produrlo sono persone con un istinto creativo così urgente da non poter essere reso, neanche in parte, in un pezzo di sei pagine. Occorrerebbe averla come prescrizione medica, l’andarli a conoscere, Giovanna Madonia e Giorgio Poppi; passarci del tempo, godere della loro colta, stimolante compagnia, e magari nel mentre guardarsi intorno, tra opere d’arte e fotografie, oggetti di culture artigianali lontane, accensioni di violenze cromatiche e scontri tattili di materiali diversi. Fuori dalle finestre, ecco la collina di Montemaggio e le sue vigne, e più in là dietro un costone le pietre della città vecchia, culla di una coscienza contadina un po’ scrostata dai tempi ma ancora salda, ancora capace di sorprendere per la sua profondità, per la coscienza del proprio valore. Questo posto ha radici fortissime, minate negli anni dai compromessi politici e da clamorose incongruenze nei rapporti di forza, da alcuni inauditi precetti nei disciplinari di produzione, da una comunicazione confusa e folcloristica che si è fatta via via zavorra sempre più pesante.

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E nonostante tutto, grazie a un manipolo di giovani produttori con una visione di ampio respiro, in cui l’incanto non è più sacrificato al disincanto (o alla disillusione), per il Romagna Sangiovese secondo noi il bello viene ora. Ciò che ci è venuto di fare, per cercare nel vino del passato le prospettive del vino del futuro, è aggrapparci a uno dei tre o quattro tralicci più solidi della regione, e questa piccola ma ormai storica cantina ci sembrava perfetta per lo scopo, e tale si è, a nostro parere, dimostrata. Bertinoro, 9 settembre 2022 È tardo pomeriggio, ma il sole è alto; cammino con Giovanna Madonia lungo la stradina che risale alla villa. Ogni tentativo di parlare ancora del vino che abbiamo da poco finito di scandagliare naufraga davanti alle mille cose che attirano la mia attenzione: un cielo che pare retroilluminato, gli uffici e la loro promettente penombra, le siepi fiorite vicine e le colline lontane, e il gruppo di pavoni che, noncuranti della nostra presenza, transitano di traverso in ordine sparso. «Ora sono sette o otto, ma ne ho avuti anche sedici o diciotto. Tutti gli anni mi sparivano le femmine e i maschi impazzivano. Ne ho dovute ricomprare due, una ce l’ha fatta a fare quattro piccolini quest’anno. Son bruttini da piccoli, li hai mai visti? Son come delle quaglie. I maschi d’inverno non sono niente di che neanche loro, le piume l’estate le perdono tutte. L’inverno invece le mettono e in primavera le fanno vedere. Le femmine son dei gallinoni, vanno al concreto; restano ferme immobili quando covano, immobili così; poi arriva la volpe e si mangia tutto, le uova, la pavonessa, tutto».

In effetti è estate: un’estate bollente senza una goccia d’acqua, e i pavoni maschi, diciamo la verità, son gallinoni anche loro, con l’aria un po’ attonita, interrogativa. Credo di avere un’espressione simile, forse anche per l’effetto dei venti assaggi da cui sono fresco reduce - fresco si fa per dire - e che tuttavia mi hanno lasciato dentro quello strano senso di leggerezza che pervade chi si sia fatto tante domande per tanto tempo, e di colpo si trovi di fronte una prima risposta. «Abbiamo 14 ettari di vigneto» racconta Giovanna «di cui due e mezzo appena reimpiantati e quindi non ancora operativi. Sono qui intorno all’azienda, quindi in comune di Bertinoro; li abbiamo sempre avuti a portata di mano. Nella casa di famiglia, comprata da mio nonno subito dopo la Seconda guerra mondiale, c’era una cantina ed era normale fare il vino. Tutti qui intorno facevano il vino; non c’è una casa a Bertinoro senza la cantina sotto, persino nelle piccole vie del centro storico. La proprietà comprendeva quindi tre ettari di vigna, c’erano ancora dei mezzadri a curarli, e un cantiniere; però io non me ne sono mai interessata troppo. Nella vigna c’era di tutto: accanto al sangiovese c’era la barbera, non so bene perché, e poi c’era l’albana, e ancora trebbiano, cagnina, altre piante locali. Mio nonno, Pietro Antonio Madonia, era palermitano di Terrasini; aveva studiato a Milano, e lì aveva conosciuto mia nonna, Maria Acquati, la più piccola di tredici fratelli di cui la spagnola ne aveva falciati undici risparmiando soltanto il maggiore e lei. Nonno era trent’anni più grande di nonna, ma aveva avuto affari di lavoro con questo solo fratello superstite di lei; poi, con un socio, lui aprì a Forlì una fabbrica di feltri, e prese questa casa in collina dove veniva d’estate; è l’edificio giallo che hai appena visto alla base della salita». Ci raggiunge Giorgio Poppi, il compagno di una vita di Giovanna, e pochi minuti dopo Miranda, quella delle loro quattro figlie che segue l’azienda vinicola più da vicino. Proseguiamo la conversazione da seduti, in un salone al primo piano della casa “nuova”, circondati dai quadri di Giorgio, che ricordavo esprimere questa potente energia, e dalle sue formidabili sculture, che non avevo mai visto prima e che trovo nulla meno che stupefacenti anche dal lato tecnico. Una si chiama “In pace con la volpe”: l’animale a zampe in su che dorme abbracciato a una bambina sorridente, per niente impaurita; mica è una pavonessa, lei, penso. Certo, che la famiglia abbia un intenso afflato artistico potevo immaginarlo da me riflettendo sui nomi qui imposti alla prole, tutta femminile; oltre a Miranda, le altre tre figlie dei due si chiamano Chimera, Pandora e Bramina. Stacco gli occhi dalla volpe scolpita e torno a rivolgermi a Giovanna, per chiudere il cerchio genealogico.

È qui che è nato tuo padre, quindi.
«Sì, esatto. I nonni ebbero tre figli, tra i quali mio padre. Mia madre era anche lei siciliana, di famiglia marsalese; papà la conobbe perché mio nonno materno era venuto a lavorare a Cesena, alla Stock. I miei genitori sono morti entrambi giovani, purtroppo: lui quando avevo 21 anni, mamma poco tempo dopo. Io e Giorgio stavamo già a Roma da qualche anno a vivere; io studiavo vulcanologia, cinese e russo, ed essendo lui un artista frequentavamo cenacoli culturali incredibili, poteva capitare di accettare inviti a cena o a pranzo da amici trovando al tavolo, non so, Balthus, Moravia, un giovanissimo Jas Gawronski... Chimera è nata in quel periodo lì».

Studiavi... cinese e russo?
(Indica Giorgio) «Era stato un consiglio suo: studiare cinese e russo per fare la spia internazionale (scoppiano a ridere tutti. Mi viene il dubbio che sia seria, ndr). Poi, arrivata al quarto anno di cinese, tra storia cinese, geografia cinese, letteratura cinese e storia dell’arte cinese, a un certo punto son tornata da lui e ho detto “senti, noi nel Quattrocento avevamo Piero della Francesca, ’sti qui solo uccellini tra i bambù, io non ce la faccio a proseguire oltre”, e quindi ho mollato lì. Mi mancavano due esami».

Ma come facevi, con la bambina piccola?
«La portavo con me, nella carrozzina. Me la mettevo di fianco, sentiva queste lezioni di Ripellino di letteratura russa... meravigliose».

E vulcanologia?
«Era la mia specializzazione nella facoltà di geologia. Ho provato a farlo sul serio, quel percorso di studi, ma mi portava via troppo tempo, stavo via dalla famiglia per settimane. A me pesava, a Giorgio anche. Si dovrebbe poter scegliere tra due mestieri, o tra due uomini, ma non tra un mestiere e un uomo. E come vedi, alla fine ho scelto».

E qui a Bertinoro quando siete tornati?
«A un certo punto la decisione è venuta da sola, sai. I miei erano morti, la casa era in semiabbandono, e soprattutto a Roma non c’erano più grandi possibilità di alloggio, avevamo Chimera piccola e pochissimo spazio per vivere e lavorare. Oltretutto, uno studio dove si dipinge a olio non è ideale per una bimba, per via dei vapori, dell’acquaragia, della vernice alla nitro».

E ti sei messa a fare la vignaiola.
«Sì. La vigna e la cantina erano da tempo affittate, stando noi a Roma; ma le abbiamo trovate in uno stato pietoso. Allora abbiamo persino fatto causa e l’abbiamo vinta subito, pare che le uniche cause veloci in Italia siano quelle agricole. Fatto sta che ci trovammo di nuovo con vigna e cantina libere, e iniziai. Non sapevo fare niente, per la verità. Mi ricordo come fosse oggi che degli amici americani mi fecero assaggiare un vino rosso buonissimo durante un pranzo, dicendomi “questo è Sangiovese” – e io, ridendo: “ma no, lo conosco il Sangiovese, non è così eccezionale, e non si tiene” (non è longevo, ndr); era un vino di Castelluccio, un Ronco Ginestre di metà anni Ottanta, forse il 1985. Ho avuto lì l’illuminazione: forse potevo fare anche io qualcosa di buono. Forse vale la pena, mi son detta. E ho incontrato Remigio Bordini, sarà stato il 1991 o il 1992».

L’agronomo. Ti ha aiutato?
«È stato decisivo, non è che mi ha aiutato. È venuto nelle mie vigne, si è mangiato un po’ di terra, ha detto che era buona, che si poteva fare vino buono. E tra 1993 e 1995 ho ripiantato tutto, i tre ettari che avevamo da sempre più due ettari che mi aveva concesso la Regione. Per più della metà mettemmo albana, il resto sangiovese. Nel 1996, feci 40 ettolitri, cinquemilatrecento bottiglie, le prime che uscirono in commercio».

E com’era quel vino?
«Buono, aveva ragione Bordini. Anche 1997 e 1998 sono state grandi annate qui, iniziammo quasi da subito a produrre anche una Riserva. Nel frattempo, non sapendo bene come muovermi, mi ero iscritta a tutto: enti di tutela, enti turistici, e simili, e in una riunione fatta proprio qui conobbi Claudio Drei Donà, che mi presentò una serie di personaggi, commerciali, rappresentanti eccetera, e così iniziai a lavorare con alcuni di loro, dapprima solo qui e su Bologna, poi pian piano anche in altre province».

Remigio Bordini è un agronomo. Chi ti aiutava a fare il vino?
«Attilio Pagli. Gli regalai una bottiglia di Sauternes dicendogli che volevo mi desse una mano a fare il mio Albana così; mi rispose che se c’era una cosa che detestava era l’Albana. Bene! (ride). Scherzi a parte, mi ha sostenuto tanto all’inizio, ero preoccupata di qualunque cosa, lo chiamavo alle ore più impensate per problemi che, mi spiegava, non erano quasi mai tali. Sono stata fortunata a lavorare con lui. Oggi la parte agronomica la seguono Stefano Dini e Dario Ceccatelli, quella enologica Leonardo Conti, che con Pagli collabora da molti anni».

Come sei arrivata ai 14 ettari attuali, e cosa c’è ora in vigna?
«Ho preso in affitto come terreno nudo e ripiantato sei ettari nel 2006, e ne ho comprati poco meno di tre nel 2012 e uno, che abbiamo chiamato “Punta Miranda”, tre anni fa. In vigna c’è sangiovese per la grande maggioranza, almeno otto ettari sui 12 in produzione. Ne ricaviamo tre vini, una IGT Forlì Sangiovese d’ingresso, che si chiama “Tenentino”, e due Romagna Sangiovese, il Superiore Fermavento e l’Ombroso, che esce come Riserva e che rivendica la sottozona Bertinoro. Anche il Fermavento viene tutto da Bertinoro, peraltro».

Quante bottiglie produci in totale, e divise come?
«Tenendo da parte il vino di base, le Albana macerate e passite e un taglio bordolese che si chiama Barlume, facciamo più o meno cinque-seimila bottiglie di Albana Secco, circa nove-diecimila di Ombroso e una media di ventimila di Fermavento».

Abbiamo assaggiato venti annate di quest’ultimo. Come viene prodotto?
«Quello di oggi viene in larga parte dalle vigne ad alberello del 2006; sono su un particolare sasso locale, lo spungone, una formazione calcarea di fondale marino di colore chiaro, stracarica di fossili, che esalta le componenti di freschezza e di sapidità. Le vigne sono quasi tutte su portainnesti classici come il 420A, l’SO4, il 110 Richter o il 140 Ruggeri, e sono tra i 250 e i 350 metri di altitudine, con esposizioni essenzialmente a sud-ovest. Il vino fermenta in vasche di acciaio quasi tutte molto piccole, da 20 o da 34 ettolitri, sperabilmente senza inoculo; noi non controlliamo la temperatura, e il rischio sta tutto qui perché si potrebbe bloccare la fermentazione e se c’è una cosa che nei miei vini voglio sempre è che siano a zero di zuccheri residui. Una delle vasche viene da qualche anno vinificata in modo particolare, con una sostanziosa quota di grappoli interi, nel tentativo di alleggerire un po’ la fisionomia del vino; ma parlo al massimo di un 15% della massa».

E quanto all’affinamento del Fermavento?
«Abbastanza ragionato. Una metà va in barrique vecchie. Del vino rimanente, una parte matura in vasche di cemento; ciò che resta, infine, non si muove dall’acciaio. Tutto questo, nei vari contenitori, per una durata di un anno; a quel punto assembliamo le varie masse, e quindi si va in bottiglia per minimo sei mesi di ulteriore affinamento».

E quanto costa il Fermavento?
«È costato a lungo dieci euro di prezzo finale al privato, ma con la nuova annata purtroppo dovrò aumentarlo».

Portandolo a quanto?
«A undici».

La degustazione di cui a seguire leggerete (scarica il PDF per leggerla), ampia abbastanza da abbracciare pressoché tutta la storia del Fermavento sin dai primordi, ci ha reso testimonianza di un rosso di grande forza espressiva, e dal rapporto qualità-prezzo francamente onirico. I suoi tratti? La generosità, la peculiarità e la riconoscibilità varietale e territoriale, un talento evolutivo che lo trasforma in bottiglia in modo drastico svelandone l’anima solo dopo anni, mai nulla di facile o ruffiano, e una brillantezza al sorso che è una costante, e che talvolta stupisce accompagnando profili aromatici assai più austeri e compassati. Un modo di porsi che rifugge valori come la stucchevole dolcezza, la densità fine a sé stessa, la protervia, la fretta, l’autocompiacimento. Esattamente come chi lo fa.