Frascati Superiore Riserva Luna Mater 2021-2007

Frascati Superiore Riserva Luna Mater 2021-2007

La Verticale
di Armando Castagno
20 dicembre 2023

Il binomio tra la ricca complessità del suolo vulcanico e i vitigni storicamente legati al territorio, una vinificazione articolata in tre fasi e l’irrinunciabile fattore attesa: è così che il Luna Mater splende su Frascati

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 25 Novembre 2023

Oltre che aver mosso la penna dei viaggiatori e il pennello dei pittori lungo oltre cinquecento anni per la sua straordinaria bellezza paesaggistica, il rilievo a sud-est di Roma appare ideale per una viticoltura di elevata qualità, impostata per produrre con costanza vini di personalità e valore. Si percorrono le strade di Frascati, Grottaferrata, Marino, Monte Compatri, Monteporzio, Genzano o Lanuvio, e le si trova quasi tutte in pendenza: rampe bordate da pini, ville, terrazze, uliveti e vigne, che ogni tanto lasciano filtrare panorami da togliere il fiato. Da un lato, giù in basso, si stende la città di Roma, che da certi vigneti si abbraccia quasi nella sua interezza, sovente coronata dal nuvolone piatto dello smog; dall’altra, un fresco susseguirsi di aree rurali, boschi, laghi e borghi medievali, i quattordici “Castelli”. Tra essi, per via della sua lunghissima storia come paese del vino, ecco Frascati, centro principale della zona e sorta di balcone sulla Capitale, ai cui abitanti, tradizionalmente, ha offerto accoglienza all’ombra delle pergole. «Qui è il campo del dio coronato di pampini» ne scrisse Hans Barth, scrittore e giornalista tedesco venuto da Stoccarda e mai più tornato in patria, in un memorabile libretto-compendio per gourmet del 1909 dal titolo “Osteria”. «I pali delle viti, come piramidi di fucili di un esercito, o come una apocalittica fortezza, circondano e difendono i luoghi della grazia, e l’odore di vino, e il sole, si spandono su questa terra. Poeticamente».

La storia e la tradizione del vino dei Castelli Romani

Ai tempi di questo scritto, il luogo era, se non proprio una capitale, quantomeno un luogo celebre e a suo modo emblematico del vino italiano di qualità: al civico 26 di Oxford Street, nel cuore di Londra, faceva all’epoca numeri da capogiro il “Restaurant Frascati” di Frederick Gordon, inaugurato nel 1873. La tradizione agricola dei Castelli Romani, che ha sempre avuto il vino come elemento centrale e qualificante, era peraltro meno aneddotica e avventurosa di quanto si possa pensare ai giorni nostri, quando magari tendiamo in buona fede ad andare con la mente a feste di piazza in costume folcloristico con le fontane che danno vino, e in generale all’ebbrezza come esito tangibile del consumo locale dei tempi andati. Certo, c’erano anche le feste e le fontane; ma i dati della viticoltura castellana, i documenti che ne attestano la febbrile attività di ricerca scientifica su più fronti, e la qualità dei vini migliori per come la ricorda chi li ha a lungo conservati, mostrano del vino storico locale un volto diverso. L’esplosione delle Cantine Sociali, la redazione di disciplinari a dir poco permissivi, l’urbanizzazione di molte aree di arcaica vocazione (esempio: il Frascati ha perso in un colpo solo 120 ettari di vigneto per la costruzione dell’Autostrada del Sole nel 1961), l’abnorme e disordinato sviluppo della città di Roma che si estende ai suoi piedi, e la mancanza di una “locomotiva” trainante – sotto forma di un’azienda capace sia di produrre sia di comunicare ad alti livelli: in genere o si sa fare una cosa, o l’altra – hanno determinato a partire dalla fine degli anni Sessanta una serie di conseguenze, alcune delle quali negative. Certo, le Cantine Sociali hanno consentito di salvaguardare i vigneti più “fragili”, per essere molto vecchi, o molto piccoli, o le due cose assieme. Tuttavia, oltre al sacrificio del poco richiesto rosso locale, che aveva tanta tradizione quanta il bianco, il vino del luogo, prodotto in quantità e con mentalità industriale e con un aumento improvviso della tecnologia utilizzata, è uscito dalla transizione depotenziato, trasfigurato nella direzione di una neutralità frustrante, di una pallida, anaffettiva correttezza. Va aggiunta alla colonna delle perdite l’inevitabile estinzione di un patrimonio di varietà che era una banca botanica: sono scomparse uve di antica consuetudine, molte delle quali buone anche “da mensa”, leggere i cui nomi oggi lascia un’espressione interrogativa: avete mai sentito nominare la garbagorba, il merichino, la marzacca, l’albarosa, la garofolella, il gennariello, il panzaprecoce e il chiapparone? No? Tranquilli: siete in buona e numerosa compagnia, anche ai Castelli. Lo scadimento qualitativo del materiale vegetale nel vigneto castellano è stato a sua volta conseguenza di piani assistenziali di reimpianto e progetti vivaistici che col senno di poi vengono oggi considerati privi di criterio e del minimo sindacale di lungimiranza. Allo spaesamento stilistico del vino della zona è andata di pari passo l’amnesia collettiva sulla modalità espressiva dei bianchi castellani di un tempo, magari più approssimativi nella fattura, ma dieci volte più intensi. Quanto alla superficie vitata effettiva del Frascati, abbiamo raccolto dati sconcertanti: l’urbanizzazione delle estreme periferie del comune di Roma, e soprattutto l’apparentemente inarginabile fenomeno di abbandono dei vigneti hanno fatto sì che i 1.700 ettari del 2001 si siano contratti a circa 900 nel 2022: il 52,9% in meno in un arco temporale di vent’anni.

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Le peculiarità del terroir

Presa coscienza di questa tormentata vicenda e dei relativi contraccolpi, che vino fare oggi ai Castelli? Quali caratteristiche enfatizzare? Con che denominazione uscire sul mercato, e su quali uve puntare, delle molte che i disciplinari consentono? Domande dalle risposte molto, molto difficili; la più frequente, infatti, è stata “lascio perdere”. Noi, però, partiamo, cercando di rispondere, da una premessa doverosa: i dati stabili del terroir, che sono una garanzia. Merita un cenno, ad esempio, l’eccezionale situazione geologica del distretto. I Castelli Romani altro non sono, infatti, che i borghi fortificati svettanti sulle alture del cosiddetto “Vulcano Laziale”, un colossale edificio vulcanico di pozzolane, tufi, rocce laviche e basalti il cui diametro reale di quello che ne fu il cratere principale supera i 18 chilometri sull’asse est-ovest (da Frattocchie di Marino a Lariano) e i 22 da nord (Colonna) a sud (Lanuvio). In effetti, tuttavia, il cratere si individua solo – ma in modo nitido - tracciando la mappa dei sottosuoli; al suo posto, dopo una serie di esplosioni e trasformazioni morfologiche avvenute circa mezzo milione di anni fa, c’è oggi visibile una coppia di piccoli laghi (Albano-Castelgandolfo e Nemi) e almeno sei caldere gassose a distribuzione irregolare. L’area “di rispetto”, cioè quella di effettiva matrice vulcanica, si estende ulteriormente per oltre venti chilometri, soprattutto in direzione della città di Roma: scavando il primo metro di terra nel quartiere ormai divenuto centrale della Garbatella, nel Parco delle Tre Fontane, a Grottarossa e Saxa Rubra, all’estremo nord della città, o accanto agli edifici barocchi di Villa Borghese, si troveranno inequivoci materiali vulcanici: tufi grigi e pozzolane nere, viola e rosse, lapilli e ceneri, leucociti e pietre pomici, e persino colate laviche, talora salienti dal terreno come onde rimaste sospese, fossilizzate. Ebbene, le denominazioni castellane sono tutte all’interno di questa matrice, come i disciplinari stabiliscono limitando l’areale ai “terreni di origine vulcanica”: e del resto i contadini hanno da sempre presente la differenza tra la terrinella, ossia l’ottima pozzolana, e il terraccione, termine che battezza i fondi fertili di argille grasse, atti a vini generosi ma mediocri. Di conseguenza, le vigne insistono su terreni straricchi di elementi minerali, tanto peculiari quanto positivi per la viticoltura, quali la silice, lo zolfo, il potassio, il fosforo, il magnesio, ma anche il calcio, il rame, il manganese e lo zinco. Di norma, il pH di questi suoli formati dalla degradazione dei basalti è a reazione sub-alcalina, con quel che ne consegue in termini di scelta della varietà, del clone e soprattutto del portainnesto. Nonostante l’omogeneità geologica, peraltro, la varietà di situazioni ambientali ha portato all’individuazione di un gran numero di zone, qualcuna con oltre cinquecento anni di storia. Distinti via via nel corso dei secoli per posizione, altitudine, declività, esposizione o ventilazione, per la gestione mezzadrile per conto di nobili o per la proprietà ecclesiastica, per la commercializzazione o il consumo interno, la vastissima estensione o la chiusura entro recinti murari, emergono dalle pagine dei vecchi catasti gli antichi “cru” dei Castelli Romani. Elencando qui a braccio i più celebri della sola zona di Frascati, ecco Santi Apostoli, Casale Marchese, Grotte Dama, Prataporci, La Torretta, Colle Pisano, Fontana Candida, Marmorelle, Casale Filonardi, Santa Teresa, Colle Mattia, Torricella, e ancora Vallechiesa, Spinoretico, Quarto Santa Croce, Quarto 22 Rubbia (un rubbio: 1,85 ettari), Vigna Ferri, Pian dell’Olivo, Casale Piccolomini, Castel de’ Paolis, Sant’Andrea, San Matteo. Dal lato climatico, il distretto vive stagioni vegetative all’insegna del caldo e di una diffusa luminosità, anche per l’effetto della massa riflettente del Mar Tirreno, che dista in linea d’aria solo 27 km da Frascati. La piovosità annuale è sopra la media nazionale, quella nei mesi estivi di parecchio al di sotto, con frequenti periodi di siccità, i cui effetti sono acuiti dalla grande capacità drenante dei suoli. Le temperature medie annue sono elevate, le escursioni termiche estive rilevanti, sebbene l’effetto più evidente del “global warming” degli ultimi 20 anni sia qui proprio l’appiattimento del delta termico giorno-notte, una caratteristica preziosa anche per le uve e i vini che ne vengono, e non solo per i romani in fuga dalla città, e che da sempre salgono qui alla ricerca di un po’ di frescura.

L’eterogeneità della base ampelografica

Si accennava al patrimonio di uve dei Castelli Romani, che oggi consente, per la produzione del Frascati e dei suoi “fratelli” limitrofi (le micro-denominazioni Marino, Montecompatri e Zagarolo, tutte previste nella sola tipologia “bianco”, ma poco rivendicate) la scelta da un ventaglio piuttosto ampio, con evidente pungolo all’uvaggio piuttosto che all’utilizzo di una varietà in purezza. Quest’ultima può essere per il Frascati, a termini di legge, solo una delle due malvasie previste, ossia la più generosa e neutra “bianca di Candia” oppure la qualitativa e autoctona “Puntinata”, nota anche come “del Lazio”, “Nostrale” o “Gentile”; in ogni caso il contributo delle malvasie non deve essere inferiore al 70%. Il saldo eventuale può essere costituito da uve di indole anche assai diversa, il che consente una certa plasmabilità del vino a seconda dello specifico ambiente di coltivazione. Ve ne sono di neutre ma sostanziose come il trebbiano toscano o il trebbiano giallo (nel nord regionale chiamato “rossetto” o “roscetto”), di più sottili, acidule e vibranti come il greco bianco e il bombino bianco (detto qui “bonvino”, o anche “ottonese bianco”), o appena aromatiche come il raro bellone, una delle uve più rustiche e generose d’Italia, un tempo così popolare in queste campagne da portare più o meno un nome diverso per ogni comune in cui veniva piantato: arciprete bianco, zinnavacca, pampanaro, cacchione, pacioccone, bello velletrano e persino – il nome più toccante di tutti - uva pane. Infine, è possibile utilizzare, nell’inconsueta misura del 15% del saldo (e quindi al massimo per il 5% circa del totale), altre uve bianche presenti nei vigneti; una sorta di “sanatoria” per situazioni di promiscuo conseguenti all’enorme confusione degli anni Settanta e Ottanta (fiano, grechetto, verdicchio, nonché le internazionali). Queste prescrizioni valgono sia per il semplice “Frascati”, una delle DOC più vecchie e tribolate del Paese (nata nel 1966, è stata modificata 18 volte), sia per il “Frascati Superiore”, che segue un disciplinare proprio, approvato nel 2011 e rivisto nel 2014. I due vini, così come la loro tradizionale versione abboccata, il “Frascati Cannellino”, possono essere prodotti entro i territori amministrativi di Frascati, Grottaferrata e Monteporzio Catone, e in lembi dei comuni di Roma e Monte Compatri. Il varo (2011) della DOC Roma, che si sovrappone per intero all’areale, non ha inciso che per una percentuale minima sulla superficie dei vigneti del Frascati: chi lo faceva prima, lo fa ancora, o non fa più viticoltura.

Il Luna Mater di Fontana Candida

Alla denominazione “Frascati Superiore”, e con la qualifica “Riserva”, appartiene il Luna Mater, il bianco di punta di una delle aziende più famose e meglio organizzate del territorio, Fontana Candida, 22 ettari di proprietà (dei quali 13 del solo, antico vigneto detto “Santa Teresa”, al lembo estremo orientale del comune di Roma) e un vasto contributo dai viticoltori della zona. Mauro Merz, trentino classe 1960 ma ormai castellano di adozione, è enologo e direttore generale della cantina, dove opera da più di vent’anni. Insieme a lui, una mattina di marzo, abbiamo ripercorso il tragitto progettuale che ha portato alla realizzazione di questo vino, fondamentale per una serie di ragioni che la verticale di cui qui diamo conto intende mettere in luce. Fosse il copione di un film, partirebbe a questo punto una lenta carrellata sulle bottiglie aperte e allineate sul tavolo, e sul gradiente cromatico dei vini nei calici. Il più vecchio ha quindici anni e ha la stessa vitalità di quello che ne ha quattro, e più o meno lo stesso colore. Penso ai tempi in cui il già citato Barth, centodieci anni fa, annotava come i vini dei Castelli andassero consumati sul posto e velocemente - un viaggio di un’ora in calesse li avrebbe ossidati - e chiedo a Merz di partire dalla genesi dell’idea, da questo nuovo possibile punto di ritrovo e ripartenza. «L’idea di fare un vino come il Luna Mater è nata nel 2007, quando preparavamo i festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario dell’attività di imbottigliamento della Cantina» racconta. «Fontana Candida esisteva già molto prima del 1958, ma fino a quell’anno produceva solo uva, conferendola. Poco prima, nel 2003, avevamo ripensato e ristrutturato l’intero ambiente della vinificazione in bianco, per cui ci eravamo dotati di nuove attrezzature al passo con i tempi; e ci era apparso subito chiaro che l’aggiornamento tecnologico era inutile senza una adeguata qualità della materia prima, ossia delle uve che arrivavano, e che risentivano ancora di retaggi della viticoltura e delle modalità di raccolta di un tempo, poco accurate per usare un eufemismo. L’imminente ricorrenza ci dette lo spunto per elaborare un nuovo protocollo da proporre ai nostri viticoltori, cercando di ottenere delle uve sane, mature e integre; si stabilì di assumere in pianta stabile un agronomo che potesse seguire i nostri conferitori che ne avessero bisogno; così facemmo, e devo dire che fu un’idea molto apprezzata. Al contempo, decidemmo di proporre un nuovo vino, che non rimanesse solo una citazione della storia passata, ma che segnasse una forte presa di responsabilità da parte della nostra cantina, la quale, allora come oggi, rappresenta pur sempre un 40% della denominazione. Nacque in questo modo il Luna Mater 2007, un bianco che intendeva recuperare la migliore tradizione agricola ed enologica del territorio, esaltando sia i tratti delle uve tipiche, sia quella speciale energia gustativa che secondo me è il carattere più qualificante dei vini dei Castelli Romani. Il primo provvedimento “operativo” fu la selezione dei vigneti adatti a fornire uve per il Luna Mater. Scelsi i più vecchi, con le produzioni più contenute, cloni e biotipi di qualità, ad altitudini significative, fino ai 350 metri; a seguire, vagliammo le tecniche di vinificazione più adatte a trasformare queste uve nel vino che cercavamo. Ne abbiamo “trovate” tre, e via via abbiamo imparato a usarle tutte».

Parliamone.
«Una parte delle uve, che sono di malvasia puntinata, malvasia bianca di Candia, greco e bombino, segue un normale protocollo di vinificazione in bianco, ma utilizzando l’acciaio solo per le fermentazioni, perché trovo che con i vini locali l’acciaio esalti valori di crudezza, di spigolosità, di freddezza, che non desidero. A seguire, il vino passa in vasche di cemento per la maturazione, e dalla vendemmia 2016 compresa partecipano a questa fase anche alcuni tonneaux. Una seconda frazione delle uve segue una strada diversa: viene raccolta in cassette e depositata in fruttaio per tre o quattro settimane, che non bastano per un vero “appassimento”, ma per una piccola “asciugatura” sì. Queste uve vengono poi diraspate e pigiate, e il vino fermenta e matura a contatto con le bucce in botticelle da dieci ettolitri, non più di legno di castagno del Tuscolo, come usava ai tempi del tuo Barth, ma di acacia, che trovai adatte alla delicatezza dei profumi delle malvasie. Le abbiamo adottate quasi subito, dal 2008. Anche i tonneaux cui accennavo prima sono di legno di acacia, ungherese per la precisione».

Resta la terza tecnica.
«Una piccola quota, un 10% circa, delle uve “appese” viene lasciata nel fruttaio un po’ più a lungo. Quando le vasche della fermentazione in bianco sono arrivate a tre o quattro gradi di alcol svolto, immettiamo nel mosto, senza schiacciarli, i soli acini da questa quota di uve “asciugate”, sgranati a mano. La fermentazione va avanti, e gli acini freschi subiscono una sorta di fermentazione intracellulare, che dona al vino finale Il lungo affinamento in bottiglia è un elemento essenziale al Luna Mater 66 un bel contributo di profumi varietali e primari, assai eleganti. Una procedura che pare complessa, ma che ci consente di tirar fuori le risorse più interessanti delle nostre uve. Il vino risulta fresco e salino, profumato senza eccessi, e cospicuo al sorso, ma con una certa soavità, una certa delicatezza, e tiene a lungo, in qualche caso migliorando molto sui cinque, sei anni almeno. Infine, abbiamo rivisto l’affinamento in bottiglia, che oggi prolunghiamo, consentendo un assestamento del vino che mi sembra in generale faccia un gran bene a tutto quanto di buono prodotto in zona. L’annata attualmente in commercio del Luna Mater è quindi la 2019 (data della degustazione: marzo 2023). Ho sempre pensato, anche perché la letteratura li descrive così, che i vini bianchi più riusciti della storia del territorio avessero queste caratteristiche. Inclusa la conservabilità».

La Verticale

Iniziamo la degustazione dalle annate più giovani, partendo da due dei tre campioni che stanno affinando in bottiglia: per il 2022 è troppo presto. Al netto dei diversi andamenti stagionali, la differenza tra i due vini a livello di compiutezza espressiva è abissale, e giustificherebbe da sola la scelta dell’uscita ritardata. La 2021 è grezza e opulenta, prodiga di profumi ma ancora poco complessa, imbozzolata com’è nel suo corredo varietale, in cui spicca veemente il contributo della malvasia puntinata: glassa, resina, miele caldo e una fragranza vanigliata, con una vasta apertura gustativa verso una modalità avvolgente, eterea, e con l’immancabile bordata salina di fondo. La 2020 è più rigida, ma è già al naso un vino fatto, e un signor Frascati, tipico e riuscito: sa di fiori di campo, acetosella, buccia di cedro, ha un tono fresco, erbaceo a far da quinta, e un che di piccante a ricordare forse l’odore del pepe bianco. In bocca ha una superiore presenza scenica, una materia coesa e saporita, e finisce lunghissimo e appena ammandorlato come da tradizione, su vaghe citazioni di agrume e salsedine. «Io credo» chiosa Mauro «che anche con due vini così giovani, e per noi ancora non pronti, si possano distinguere i due caratteri irrinunciabili di un Frascati. Uno è la sapidità, questa scia salina finale che rilancia la sensazione del gusto e che trovo molto nobile; l’altro è il patrimonio aromatico della malvasia puntinata, un’uva capace di fare la differenza nonostante a livello di ricerca genetica e vivaistica di cloni esenti da virosi si sia purtroppo ancora indietro».

La successiva batteria allinea vini dai 4 ai 7 anni di età: ci aspettavamo il meglio della degustazione, e invece ci siamo fatti l’idea che al Luna Mater serva più tempo. Il Luna Mater 2019 è indietro ma promette mirabilie; ha un profumo austero e un carattere minerale cupo e potente, quasi metallico. All’assaggio sciorina una tale dovizia di materia da preludere, aspettandolo ancora almeno un paio d’anni, ad abbinamenti emozionali con gli strepitosi piatti regionali di carne bianca e di quinto quarto, dall’abbacchio “a scottadito” alla coda alla cacciatora, alla pajata arrosto. La 2018 è l’annata di gran lunga più piovosa delle ultime nove ai Castelli; il vino è elegante, affilato, floreale, e in bocca compie un percorso cauto, attento al dettaglio, fino a un’uscita oggettivamente un po’ sbrigativa. La sua diluizione non lo ha segregato sui toni amari né dotato di un temperamento ombroso, ma solo di una silhouette esile ed essenziale, sacrificandone la persistenza sapida. La 2017 si dispone al suo opposto diametrale; come spesso accade con i bianchi castellani da annata rovente, parte con un odore di “elastico” dal tono idrocarburico, poi si stende bene rivelando somiglianze con la scorza di limone e la pesca gialla matura. In bocca è generoso, ampio, alcolico, e in fondo punge per quanto è salato. La 2016 chiude degnamente il quartetto: come gli altri, ha un colore luminoso e intatto, un intenso profumo di marmellata di limoni, olio di girasole, salicornia, salvia e tarassaco, e una bocca vasta e bellicosa, in cui tuttavia splende un equilibrio generale perfetto. È come una musica che suona splendidamente nonostante le levette dell’equalizzazione tutte impostate al massimo. «La 2018» ricorda Mauro «è stata difficile, per noi, c’è stata poca luce e troppa acqua: credo che la sola via fosse quella di puntare sui valori di misura e raffinatezza dei profumi. La 2016 è invece la sola mia annata in cui il vino ha “deciso” autonomamente di fare la malolattica, che di solito evito, per conservare quella piccola pungenza malica che dà freschezza senza incrudire. Ebbene, questo vino mi sta sorprendendo, si sta comportando ottimamente e migliora anno dopo anno. Le altre due edizioni sono valori sicuri, concordo con te».

La 2015 è una sorta di gemella della 2017: ha profumi provocanti, indole da vino pronto e sicuro, valori alcolici non timidi e un senso di bilanciamento assicurato dalla vitalità sapida. La 2014 è come ce la si aspetta, ove si rammenti l’impietoso meteo di quell’estate bagnata e piuttosto buia. È una versione flebile ai profumi, eterei e un po’ sfrangiati (ovatta bagnata, un tocco di glicine, alcol, mentolo) e stemperata al gusto, che ha come una pausa di silenzio tra il promettente attacco e il composto finale. È un’anima lunare e intimidita, non priva di un suo lirismo, e con ogni probabilità il miglior esito attingibile in zona nella stagione. Il Luna Mater 2013, l’anno prima, non era stato invece prodotto per la situazione ancora più drammatica delle uve, ovunque aggredite dalla botrite e dai marciumi. Quindi, procedendo all’indietro, c’è qui da registrare l’unico salto di millesimo. La 2012 ha fatto tesoro della precocità di alcune aree della denominazione, perché il clima si guastò a fine estate, ma 67 a vigneti già vendemmiati. Ne è venuto fuori un bel vino: ha stato evolutivo incoraggiante (è di un oro zecchino chiarissimo, brillante di riflessi), una generosa dotazione di frutta esotica e fiori grassi come la gardenia al naso, un sorso vigoroso e dalla apprezzabile completezza. Manca la scintilla imprevedibile, ma è un bianco dalla coordinazione sorprendente, dopo dieci anni abbondanti dalla vendemmia. «Sento questi vini e trovo che qui si fosse arrivati a una buona coscienza di ciò che stavamo facendo. Arrivavano finalmente uve sane, mature al punto giusto, effettuavamo vinificazioni pulite, affinamenti lunghi; insomma, si lavorava con le idee chiare. Poi, sai, serve una mano dal buon Dio: e purtroppo, queste dalla 2012 alla 2015 non sono state annate eccezionali come le precedenti, specie le due intermedie. Però noi siamo andati avanti con piena convinzione; forse, con le vecchie procedure di raccolta, avremmo dovuto saltare anche la 2014, che invece trovo si difenda bene, così come la 2012, un’annata felice che ha dato il vino più logico, un bianco goloso».

Ed ecco infine le cinque annate più risalenti, il banco di prova al quale aspettavamo il Luna Mater. La 2011 traccia un gradevole quadro campestre, in cui la frazione erbaceo-vegetale-balsamica è in inconsueta evidenza; menta, latte di fico, lantana, scorza di lime e una sfumatura dolceamara di miele di cardo ne compendiano la palette aromatica “filtrata in verde”, mentre all’assaggio il suo punto forte è per così dire il garbo espositivo, l’ordine cartesiano della sua struttura. Raro trovare bianchi del 2011 così precisi nella fattura; il millesimo, perfetto dal lato climatico, ha spesso convinto i vignaioli a premere a fondo il pedale del gas, sfornando vini in effetti impressionanti – e che riscossero consensi unanimi - ma in cui si avverte più potenza che controllo. Sul Luna Mater 2010 le chiacchiere al tavolo si interrompono di colpo. Nel bicchiere rotea infatti uno dei tre migliori vini dei Castelli Romani mai assaggiati da chi scrive, e un grande bianco in senso assoluto; un bianco che pretende un ascolto attento. Ricco e morbido di suggestioni di pasticceria, di fiori dolci e sfumature agrumate, ma salato in fondo come uno Chassagne-Montrachet, con echi tra la ginestra e il mais tostato, è un vino che lascia senza fiato anche per il “ritmo” che impone, privo di pause e in accelerazione continua. Sono apparsi straordinari anche i tre Luna Mater degli esordi. Il 2009 ha una austerità ai profumi che è di suo un successo, vista l’estate afosa e fin troppo asciutta; invece ha la statura dei migliori, una materia dalla densità calibrata e un’impeccabile puntualità nei rimandi tra l’acidità, l’amabilità alcolica e la limpida mineralità. Il 2008, dal colore surrealmente giovanile, è dei tre il più contraddittorio, perché fa seguire a un profumo dolce, glassato e mellito, che suggerirebbe la derivazione da uve surmature - oppure un residuo zuccherino - una bocca ruggente, di micidiale coesione, tenacissima eppure espressiva, e inequivocabilmente secca. Una vaga citazione vanigliata è la sola concessione di un vino di lapidaria assertività, tra i più in forma della degustazione, ancora con margini di crescita. L’ultimo della serie, il capostipite, è il Luna Mater 2007, trovato in ottimo e per noi impronosticabile stato di servizio. Unico a non aver mai toccato legno, e unico a non aver svolto affinamento (uscì in tutta fretta per la convention dei 50 anni di Fontana Candida, a febbraio 2008) ha davanti a sé come minimo dieci o dodici anni di ulteriore, virtuosa evoluzione. La forte sapidità del sorso, irrorato di acidità, segue uno sfoggio di giovanile compostezza ai profumi che non avremmo mai immaginato di trovare dopo 15 anni: tutto è nitido, e ha colori intatti. «Se penso a un manifesto delle potenzialità del luogo, penso a un vino così», dico a Mauro.

«Ne vuoi un altro?»
«Di cosa?»
«Di manifesto».

Scompare per un minuto e torna con una bottiglia di malvasia puntinata aziendale del 1996. La stappa e versa nel mio calice un vino che, tirando le somme di quanto mi ha detto, viene da una filiera precedente al suo arrivo, ben più anarchica, e da una vinificazione artigianale svolta con strumenti obsoleti. Non mi aspetto nulla. Avvicino il naso. È un prodigio di minuzie: noce, palmito, miele amaro, foglia di tè, crema pasticciera, complesse sfumature minerali e salmastre, e una bocca compatta, dallo sviluppo severo e capace di sfumare lentamente, con classe, sulla solita, inconfondibile scia salina.
Mi guarda.

«Ci sono molti semi che possono tornare a germogliare qui» dice.
«Dimmene qualcuno».
«L’impegno. Il talento. Il rispetto. E la memoria. Perché fare un grande bianco qui non è inventare nulla».
«E cos’è?»
«Recuperare qualcosa».