I Campi Flegrei di Cantine Astroni: due verticali parallele

La Verticale
di Armando Castagno
05 giugno 2025
Un luogo unico, che non assomiglia a nessun altro, dove falanghina e piedirosso si arrampicano su suoli vulcanici tra terrazzamenti, gradonate e l’aria fumante di vapori di zolfo
Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 28 Maggio 2025
I tempi cambiano: per la mitologia greca, come noto, i Campi Flegrei rappresentano la via d’accesso agli Inferi; per la mitologia attuale, invece, a un autentico Paradiso rurale, specie per noi appassionati di vino. Il bello è che i bianchi e i rossi odierni, prodotti nel quadro dell’omonima denominazione nata a metà anni Novanta, partecipano di entrambe le nature, in bilico tra gli echi affumicati delle caldere ipogee e la fiabesca dolcezza di certe versioni. Siamo saliti in aprile su uno di questi versanti vulcanici, il cratere degli Astroni, per verificare di questa vocazione acrobatica dei vini locali la ragione d’essere, la tenuta nel tempo, la capacità di trasformazione. La sommaria indagine che segue ci ha detto alla fine più cose di quante ne sperassimo; calici e panorami a parte, ci ha rafforzati nella convinzione che la Doc Campi Flegrei sia oggi, nonostante non superi i 150 ettari vitati e il milione scarso di bottiglie complessive, una delle quattro o cinque più eccitanti d’Italia per qualità media dei vini e dei progetti che stanno loro dietro; e riteniamo si possano fare qui ulteriori passi in avanti nella messa a fuoco di entrambi, vini e progetti. Uno dei produttori cui il merito di questa recente accelerazione va senz’altro ascritto si chiama Gerardo Vernazzaro, e la sua azienda “Cantine Astroni”; è da lui che siamo diretti. Lasciamo il serpentone di automobili della tangenziale di Napoli all’uscita di Agnano, e in breve il contesto muta radicalmente: lo sviluppo verticale delle periferie rurali di Napoli emoziona persino più di quello orizzontale, sublimato nel classico soggetto per cartoline con il golfo, il mare e il Vesuvio di sfondo. Per una Napoli colorata e chiassosa, ad altezza d’uomo, ce n’è una, di bellezza meno spudorata ma altresì memorabile, silenziosa e segreta, e non parliamo di quella sotterranea, ma di quella che si vede alzando la testa, quella delle colline: Napoli è al secondo posto in Europa, dopo Vienna, per estensione delle vigne urbane. Sono distretti dal vasto respiro paesaggistico; li accerchiano aspri innalzamenti di origine vulcanica, sui quali terre verticali, gradonate e terrazzate nei secoli, sono state rese coltivabili; è buona terra, scura e leggera, per colture che vi trovano il paradosso di cui sopra, un infernale paradiso nell’aria talvolta fumante di vapori di zolfo, scaturiti come da un turibolo dalle solfatare della vallata. La collina degli Astroni è uno di questi luoghi, inattesi e sconcertanti: una pendice a ovest della città, solo in parte connessa al suo incasinato schema: sospesa sopra il frastuono impietoso del traffico del quartiere di Pianura, è da esso fonicamente isolata. Siamo arrivati qui alle undici di mattina, passando in cinque minuti dall’incubo dei clacson al soffio gentile del vento nelle orecchie come unico rumore. Guardando verso sud-est, in direzione di Bagnoli e Posillipo, una quinta zigzagante di dirupi sbarra la vista del mare e determina in basso un fondovalle concavo, dove l’occhio precipita; laggiù, oggi inondata di sole, c’è la zona di Agnano, con la stazione termale e la lunga ellisse dell’ippodromo. La cantina di Gerardo, con le sue vigne ordinate e i piccoli fabbricati in fila lungo ripidi vialetti, è abbarbicata al fronte sudorientale, e deve bearsi della luce mattutina che ci batte; le pendenze si accentuano verso la cima, fino a sconsigliare la salita finale ad automobili di incerta efficienza frenante, a meno di non voler percorrere all’indietro la via breve per l’ippodromo, cento metri più in basso. In vetta, sporgendosi oltre un parapetto di pietra di epoca borbonica, si spalanca la stupefacente visione dell’interno del cratere, dal perimetro di quasi sei chilometri e che occupa oltre duecentocinquanta ettari. Ci si affaccia, e si prova la sensazione di abbracciare in un solo sguardo uno smisurato diorama preistorico, costruitosi da solo. Nulla di simile il cratere degli Astroni presenta rispetto al riarso, desertico, arroventato Vesuvio; all’interno, qui, la natura è esplosa a formare un folto bosco di un verde sfolgorante; la macchia lascia spazio solo a due laghi e protegge una miriade di specie animali, stanziali o migratorie; lo spettacolo degli uccelli che, in stormi a forma di cuneo, sorvolano il cratere tracciandone il diametro toglie all’occhio la possibilità di valutare le distanze, e causa un vuoto allo stomaco, una vertigine. Ora, io che scrivo sono il classico “topo di città”; ma nemmeno Gerardo, autoctono locale, si è mai abituato – mi confessa en passant – a tanta bellezza. L’ho convinto a raccontare se stesso e il suo lavoro, senza gran fatica per la verità: l’ho conosciuto come un ragazzo disponibile, generoso, solare e affabile, sempre sorridente oltre che talentuoso, curiosissimo e di mente aperta; ora è un uomo, ed è uguale a com’era. Così, mentre camminiamo sull’erba del ciglio più alto, sedendoci ogni tanto sui blocchi di tufo che delimitano il cratere, mi racconta di cosa ci faccia lì, da quanto tempo, e che vini cerchi di trarre da un luogo che non somiglia a nessun altro.
«Io vengo da una famiglia locale, di Pianura, che da quattro generazioni è nel mondo del vino; almeno dai tempi di mio nonno Giovanni Varchetta. Quando Giovanni tornò dalla guerra, dopo dieci anni di prigionia e di lavoro tra India e Inghilterra, riprese qui l’attività di suo padre Vincenzo». Mi indica, appesa al muro, la gigantografia di una foto in bianco e nero di metà anni Sessanta. Giovanni, un omone in canottiera dai bei lineamenti mediterranei, sorride al fotografo circondato da bambini scalzi, tutti sorridenti. «La ragazzina che vedi a sinistra è mia madre, una di dieci figli; qui doveva avere dodici anni. Quel bambino lì è zio Vincenzo, quell’altro è zio Giorgio, quello zio Salvatore: questi tre hanno poi lavorato con Giovanni, portando avanti l’azienda di famiglia, con il commercio di vino sfuso da loro stessi prodotto, e le altre attività agricole».
Come si è arrivati dalle Cantine Varchetta alle Cantine Astroni?
«È successo alla fine degli anni Novanta, a pochi anni dalla nascita della Doc (Campi Flegrei, ndr). Lo stimolo lo dette zio Salvatore, padre a sua volta di Cristina, che oggi aiuta me in ufficio; lo zio pensava che la nascita di questa denominazione potesse creare scenari nuovi per la viticoltura locale, e spinse perché imbottigliassimo il nostro vino. Nel 1999 è nato il marchio Cantine Astroni, con sede qui dove siamo, in una storica masseria proprietà della famiglia. Il locale dell’imbottigliamento di oggi era stato adibito a stalla fino a quel momento, c’erano vecchi torchi per la pressatura, grandi utensili agricoli di primo Novecento».
C’erano altre masserie come questa, nei dintorni?
«Sì, almeno quattro o cinque, corrispondenti alle varie contrade di Pianura; per esempio, quella di Santo Laurienzo (San Lorenzo, ndr), poi un’altra nella direzione dei Camaldoli, e così via. Fornivano servizi e attrezzature ai contadini che non ne disponevano; un po’ come da sempre si fa per l’olio».
E tu, in tutto questo?
«Io in tutto questo finivo le superiori, tra qualche difficoltà dovuta al mio carattere, ai tempi, diciamo così, un po’ dispersivo (ride); ma alla fine mi sono diplomato bene, e ricordo che già da anni mi piaceva venire a lavorare in cantina nei due o tre mesi in cui le scuole erano chiuse. In cantina era stato scelto un enologo molto preparato che accompagnasse quella che oggi si chiama start-up, Maurizio De Simone, e fu lui a darmi il consiglio giusto per i miei studi universitari. “Se ti interessa tutto il settore agricolo e zootecnico” mi disse “la Federico II di Napoli va benone, ma se vuoi concentrarti solo sul vino, secondo me devi andare a Udine, dove insegna il professore Roberto Zironi, oppure a Milano, dove insegna il professore Attilio Scienza”. A me, in effetti, interessava il lavoro di cantiniere: così, seguii la sua indicazione e me ne andai a studiare a Udine».
Perché non Milano?
«I due professori che ho citato erano, e sono, due mostri sacri. Però io tra le due opzioni ho scelto quella che mi sapeva di più di cultura rurale; cercavo quella tradizione contadina che tornando poi qui avrei dovuto approfondire. Udine ha meno abitanti del quartiere di Napoli di un chilometro per un chilometro dal quale provenivo, Pianura, ma distribuiti meglio: mi pareva un contesto perfetto; e quel contesto che cercavo, l’ho trovato».
Alla fine come è andata?
«Molto bene. Oltre a stringere amicizie salde, che durano ancora adesso, mi sono laureato in tre anni col massimo dei voti, ho fatto poi esperienze in Cile e in Argentina, e sono infine tornato alla base, alla mia famiglia, per prendere su di me in un tempo abbastanza breve la responsabilità della cantina. Ed eccomi qui».
Parliamo delle varietà che hai nelle vigne, falanghina e piedirosso.
«Sono le cultivar locali; rustiche, a ciclo lungo, di profonda tradizione. Hanno punti in comune e tratti distintivi. La falanghina, che qui a maturazione arriva di rado a 12,5% di alcol potenziale, è una varietà generosa, a grappolo spargolo e acino tondo, che non dà problemi al vignaiolo, a parte la sensibilità all’oidio. Ha una fertilità di 2,5, quindi lasciando su un guyot, mettiamo, dieci gemme, ne nasceranno venticinque grappoli. Che sono troppi, con il rischio di diluizione del gusto e della sapidità; conviene contenerne gli entusiasmi, e questa è la sfida. Il piedirosso.... il per' e palummo, eh... (fa una pausa; sospira come gli innamorati) è come un figlio problematico, gli devi stare appresso; è tremendamente sensibile alla peronospora, e ha una fertilità media di 0,5. Quindi, le dieci gemme dell’esempio di prima daranno cinque grappoli in totale: la metà dei germogli non arriva a dare il frutto. Perciò le rese che si ottengono col piedirosso sono infime: quaranta quintali a ettaro con quest’uva sono un risultato che qualsiasi vignaiolo qui firmerebbe per avere tutti gli anni. Il vino ha mille risorse aromatiche, una bella freschezza, poco alcol e poco tannino; ha inoltre una tendenza alla riduzione che in passato era spacciata per tipicità, un po’ come accaduto per le note di cavallo dovute alle contaminazioni da brettanomyces nelle vecchie cantine di Bordeaux o della Rioja. Note che poi, quando sono arrivati i soldi, e con loro le botti nuove e una diversa igiene in cantina, non ci sono state più».
Non c’è stato più il cavallo.
«Esatto (ride), se n’è scappat’ o cavall’. Oggi non ci sono più riduzioni forti nemmeno sui vini da piedirosso, abbiamo tutti capito come ovviare al problema, che tale era, non “tipicità”. Quanto alle acidità, sono sostenute su entrambi i vitigni, ed è un dato di importanza vitale, perché la ricchezza di potassio dei nostri terreni determina qui una salificazione rilevante: si formano tartrati, e quindi l’acidità tende a scendere in vinificazione. Ma come detto, e per fortuna, partiamo su valori alti in vendemmia, sopra i 7 grammi per litro. Dei profili dei vini dalle due uve non ti dico nulla, perché a breve ne assaggiamo un bel po’ insieme, ne ho preparati ventidue».
Quanti vini produci?
«Circa una dozzina. È una gamma variegata, che include due rossi flegrei da piedirosso a nome Colle Rotondella e Tenuta Camaldoli, due spumanti charmat a nome “Astro”, in versione bianca e rosé che da qualche anno otteniamo solo da uve della zona, e una manciata di bianchi, tre dei quali rivendicano la denominazione Campi Flegrei. Provengono da vigneti specifici, e si chiamano Colle Imperatrice, Vigna Astroni e Tenuta Jossa. I primi due sono da falanghina in purezza; il Colle Imperatrice esce nell’annata successiva alla vendemmia e fa solo acciaio, ma non è un vino “di base”, è un vino per me importantissimo, un fedele interprete del territorio. Gli altri due escono invece anni dopo la raccolta. Il Vigna Astroni proviene dalle vigne terrazzate che hai visto sul bordo del cratere; anch’esso matura in solo acciaio, e da qualche anno non è più sottoposto a bâtonnages, a tutto vantaggio, mi sembra, della sua reattività. Il Tenuta Jossa, l’ultimo nato, viene dalla collina qui di fronte, fermenta e matura in anfore dei tipi Clayver e Tava, ed è l’unico ad avere in uvaggio una percentuale minoritaria di fiano».
La nostra ricognizione verticale ha preso in esame il Colle Imperatrice, bianco, e il Colle Rotondella, rosso; il loro assaggio comparato ci ha confermato che la tenuta sui due decenni di qualunque vino flegreo di una qualche ambizione è più un punto di partenza assodato, un minimo sindacale, che una conquista.
La degustazione
IL BIANCO
Partiamo con la carta d’identità dei vini. Il bianco, nome completo “Campi Flegrei Falanghina Colle Imperatrice”, è nato nel 2007; si ottiene da un vigneto a 200 metri di altitudine, posizionato sui due versanti creati da una specie di cuneo, di promontorio; quindi, per metà hanno esposizione rivolta al sole del mattino, e per metà a quello del pomeriggio. Si tratta di 2,7 ettari piantati vent’anni fa, per un terzo su piede franco e per due terzi sul vigoroso portainnesto 1103 Paulsen, scelto per la sua formidabile resistenza alla siccità, dovuta alla stagione o alla forza drenante dei terreni. Il suolo è sabbioso, del tutto privo di scheletro se non per qualche sporadico agglutinamento di pietra pomice. Gerardo produce di questo bianco 15-18.000 bottiglie all’anno. La degustazione ne ha fornito un esito lusinghiero. Oltre a essere un vino la cui origine vulcanica si può ipotizzare restando a un metro di distanza dal bicchiere, registrandone il vapore affumicato dei profumi, è anche un virtuoso esempio di evoluzione sui dieci-quindici anni. Parte, tuttavia, con il freno a mano tirato: l’anteprima della 2024, da un mese in bottiglia al momento dell’assaggio (11 aprile 2025), ha un carattere fumé tanto intenso da schermare il resto dei profumi; l’energia, la tessitura e la concentrazione che questo giovane campione mostra al sorso sono tuttavia più che una promessa. L’annata è assai favorevole in zona, per la sua regolarità nella distribuzione di temperature e piogge, e l’assenza di picchi estremi in un fattore o nell’altro. Vendemmia al 26 settembre, gradazione di 12%, acidità rinfrescante: un bianco esemplare per la tipologia, dalle ottime prospettive. Il Colle Imperatrice 2023 è invece pronto, ricco ed estroverso nei toni solari comuni a parecchi coetanei del centro- sud d’Italia. Ha meno mistero del 2024, ma più disponibilità. Altra storia con il 2022, millesimo capriccioso e fresco lungo tutto l’arco stagionale e piovoso in epoca di vendemmia, a fine settembre; si è arrivati a ottobre per raccogliere, «come in tutte le annate classiche nei Campi Flegrei» aggiunge Gerardo. La bizzarria meteorologica si coglie nella parziale diluizione del centro bocca e nell’incerto nitore degli aromi, ma con l’aria si svela un bonus di eleganza e finezza, rilanciate da una sapidità così intensa da fornire, in fondo, una sensazione di astringenza. È possibile non si dimostri il Colle Imperatrice più longevo, ma dei tre assaggiati per primi è quello che oggi si beve più volentieri. La 2021 è la sola raccolta iniziata prima della festa di San Gennaro (19 settembre) nella storia aziendale. Il vino, come prevedibile, mostra in luogo della consueta lieve affumicatura una dolcezza di frutto dal tono esotico, oltre a una nota di camomilla e tarassaco; l’assaggio lo rivela rilassato, modulato, confortevole, più ampio che lungo. La grazia, in definitiva, è qui; per tempra ed energia meglio rivolgersi ad altre bottiglie della verticale. La 2020, a differenza che in altre parti d’Italia e Francia, è millesimo tardivo nei Campi Flegrei: ha donato un vino rigoroso e lento a evolvere, persino crudo in alcuni suoi aspetti (alcol basso, acidità affilata, sfumature erbacee). Due o tre ulteriori anni di bottiglia non potranno fargli che bene, ammesso che a quel punto decida di concedersi. Del trittico di annate provate a seguire (2018, 2017, 2016), la più riuscita ci è sembrata la 2018, del resto stimata in tutta la Campania come una delle migliori del recente passato. Il Colle Imperatrice vi ha trovato le risorse per sviluppare in bottiglia un carattere autorevole, ricco (mandorla, mimosa, succo d’ananas), compiuto e dettagliato; l’aspetto gustativo è la sua parte più esaltante, con i suoi continui rilanci e una sapidità finale che quasi pizzica. La 2017, torrida e precoce, ha partorito un bianco cui l’aggettivo “monolitico” si attaglia bene, a volerne raccontare il maggior pregio e il maggior limite. Ha autorevolezza e vigore da vendere, e sarà longevo; manca di dettaglio e di sviluppo dinamico. Il vino del 2016 racconta di una vendemmia effettuata in pieno ottobre dopo una stagione tribolata, con temporali sporadici e violenti, qualcuno insidioso per la presenza di ghiaccio frammisto all’acqua. L’uva ha risposto alle ferite riportate nel modo che sa: producendo polifenoli, ed ecco difatti nel bicchiere un bianco che pare maturato in legno piccolo, e in cui la potenza è più semplice da percepire della complessità. Eppure, dandogli il tempo giusto, l’insieme evolve nel calice in modo affascinante, rivelando chiaroscuri, una nota di malto, sfumature di pasticceria, di burro, di anacardo, persino di agrumi. Abbiamo infine approcciato le tre annate precedenti. Il 2015, solare e positivo, ha dato un Colle Imperatrice strepitoso, hands down la migliore bottiglia della sessione dei bianchi; si è qui costituito un profilo abbagliante, in cui le erbe aromatiche (rosmarino, salvia) fanno da corolla a un impianto solidissimo e luminoso. Il 2014 viene da un millesimo non fortunato, piovoso e freddo, assai tardivo (vendemmia al 16 ottobre, San Gerardo) oltretutto dalla produzione bassa, solo novemila bottiglie, la metà del consueto. Ha colore topazio carico e una silhouette inattesa; ci si aspetterebbe un profumo dai toni ossidativi e invece il profumo non arriva affatto: l’insieme propone suggestioni solo per via retrolfattiva (noce, fico secco, crosta fiorita, lanolina). Poco salato in fondo, ma fresco per impetuosa acidità, è un bianco irrisolto e strano, del quale è difficile dire cosa sarà nei prossimi anni; nel dubbio, stapperemmo. Infine, ecco il 2013, altro millesimo tardivo (8 ottobre) che ha vissuto una stagione contrastata in cui si è visto di tutto anche a breve distanza di tempo. Il vino ha reso questo andamento irrequieto in una dinamica furiosa, tra sferzate di acidi e sali; la sua integrità ne fa tuttavia uno dei più interessanti campioni della verticale, ideale da assaggiare oggi prima che il tempo inizi ad intaccarlo.
IL ROSSO
Il rosso, nome esatto “Campi Flegrei Piedirosso Colle Rotondella”, viene da una parcella all’interno della Tenuta Camaldoli; anch’esso è nato con la vendemmia 2007. Il vigneto, di 3 ettari, è potato a guyot bilaterale, si trova tra i 230 e i 300 metri sul livello del mare, ha esposizione a sud e circa 30 anni di età media. I portainnesti usati per l’impianto sono il 1103 Paulsen e il 140 Ruggeri, resistenti alla siccità ma vigorosi, «anche troppo», specifica Gerardo. I suoli sabbiosi e i sottosuoli tufacei di questa vigna hanno circa 12-15.000 anni di età, corrispondendo entrambi alla seconda esplosione della caldera flegrea: è il cosiddetto “tufo giallo napoletano”, del quale dalla collina in questione si inquadrano grandi cave, impressionanti strapiombi verticali che precipitano nelle viscere della terra. Il vino fermenta in acciaio senza inoculo di lieviti selezionati e senza solforosa, e lì rimane per qualche mese, sur lies; se ne ottengono solo 10.000 bottiglie all’anno da tre ettari, per le questioni, già affrontate sopra, legate alla scarsa produttività del piedirosso. Anche di questo vino abbiamo assaggiato undici annate, partendo dalla 2024 appena imbottigliata, che promette mirabilie pur essendo in stato embrionale. Se ne coglie un preciso riferimento varietale nella delicatezza fruttata e floreale, esaltate dalla vinificazione in semicarbonica di un terzo della massa ad acino intero; una nota selvatica di bacca di bosco e una sfumatura floreale dolce che richiama la peonia affiancano un frutto gelatinoso e leggero (anguria, melagrana). Potrebbe sbocciare, dandogli uno o due anni di vetro, come uno dei più bei rossi prodotti nei Campi Flegrei da quando esiste la denominazione. Il 2023, che ricordiamo ai primordi come un vino un po’ scontroso (eufemismo: in realtà era un chiummo, un piombo, come dicono qui), ha acquisito non solo profondità e muscoli in bottiglia, ma anche una linea aromatica decisamente più chiara, orientaleggiante perfino in certe sfumature come di incenso; rammenta da vicino la comunicazione giovanile di alcuni rossi borgognoni ed è uno splendore. Delle altre annate dello stesso decennio, il 2022 – che riscosse un grande successo di critica all’uscita – è delicato e un po’ diluito sia al naso sia all’assaggio, tanto che ne filtrano lievi note floreali e una suggestione minerale gessosa, che nel finale di bocca prende un tono amaro; la versione 2021, unico rosso aziendale dall’annata precoce, è invece calda e incupita, tanto da poter essere scambiata per altro alla cieca (sa di bergamotto, terriccio, prugna. La 2020, così come per il corrispondente bianco, ha al contrario una pressante eloquenza, con profumi resi complessi da un inizio di vera evoluzione (vermouth, agrumi, radici, metallo) e una forte tensione acido-sapida in bocca, energica e vitale. Molte conferme e qualche sorpresa dalle annate precedenti; ad esempio, dalla 2019, qui molto piovosa, ma che ha regalato un bel vino composto, profumato e disponibile, compatto all’assaggio; se qualcosa gli manca, sono le sfumature, ma non la presenza scenica. Il 2018 è un unicum nella verticale: ha un tono generale ombroso, qualcuno direbbe “terragno” (qualcun altro, in Campania, cazzimmoso). Lavora su una tavolozza caravaggesca di soli toni scuri: cola, ginepro, felce, liquirizia e humus, poco frutto e ancor meno fiore; la bocca invece è in equilibrio, ed è capace inoltre di un potente allungo finale, che qualifica come molto alto il valore del vino. Indole opposta ha il 2017 (3 ottobre), dal frutto maturo e dolce e con qualche vezzosa nuance di rabarbaro, china e rosa canina; è solo un po’ sbrigativo in persistenza, potendo contare su una dotazione acida superiore a quella sapida. Delle ultime tre annate assaggiate, il 2016 (17 ottobre) ha già avviato la trasformazione terziaria della sua ricca materia: note di fiori macerati e cenni rugginosi preludono a un assaggio segnato, e forse un po’ bloccato, dal gran tannino, che ha forza astringente insolita per la tipologia e il vitigno. Il 2015 (9 ottobre) è un credibile corrispondente del bianco di pari annata: ispira aggettivi quali “solare” e “raffinato”, ha morbidezza da vendere pur essendo tutt’altro che sfibrato, lo stato evolutivo di un vino di quattro anni e prospettive eccezionali per i prossimi dieci almeno. Il 2014 (vendemmia ultra-tardiva al 20 ottobre) è infine, in tutta franchezza, incredibile: ingannerebbe chiunque in assaggio coperto, per la sua somiglianza ai Borgogna di pari annata, sia nel profilo olfattivo, in cui si coglie l’impeccabile integrità del frutto, una verosimile rosa selvatica e una nuance “termale”, sia in quello gustativo, che la latitanza del tannino e una lieve diluizione hanno reso classico, fine e setoso senza smagrirlo; per il complicato millesimo, una vera prodezza.