Mai di moda, mai fuori moda. Il Chianti Classico di Castello di Cacchiano, 2021-1990

Mai di moda, mai fuori moda. Il Chianti Classico di Castello di Cacchiano, 2021-1990

La Verticale
di Armando Castagno
05 dicembre 2024

Un Chianti Classico "classico": così sono i vini del Castello di Cacchiano, dove la scelta estetica interpreta la vocazione del luogo. L’intervista a Giovanni Ricasoli Firidolfi e la verticale

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 27 Novembre 2024

Rispetto agli altri grandi territori vitivinicoli della Toscana centrale, da San Gimignano a Montalcino, da Montepulciano a Bolgheri, ai Colli Senesi e Fiorentini, il Chianti Classico suggerisce, nei suoi paesaggi, un’anima più rocciosa e arcaica, un senso di ombrosa frescura. Tuttavia, di questi celebrati luoghi, esso è di gran lunga il più vasto, e di conseguenza le eccezioni all’assunto di partenza sono eclatanti. Per chi proviene da sud, ci sono due possibilità per incunearsi nel suo ventre, ad esempio verso Gaiole, dove sono diretto in questa assolata mattina di giugno. E sono ipotesi così diverse da dare da sole una compiuta idea di quanto variegato – e persino contraddittorio – l’areale sia in effetti. Più spesso, in passato, ho scelto la prima via, che avvicina il borgo antico di Castelnuovo Berardenga, ne indaga serpeggiando i quartieri residenziali più recenti, costeggia le sabbie color oro della frazione di Stellino e poi le terre dure, venate di vermiglione, di Villa a Sesta. Quindi, ed è la parte del tragitto che preferisco, si infila nel cupo dei boschi dopo il bivio di Castell’in Villa lungo un percorso fatto solo di curve, ritmato da ponti di pietra, ruscelli trasparenti, tunnel di penombra sotto lunghe volte di chiome arboree, strapiombi di roccia nuda dove riconoscere le lastre di alberese, le lamine del galestro, le radici scoperte che pescano nelle argille. Si sbuca, infine, sotto gli imprendibili bastioni del Castello di Brolio, laddove il panorama, pur frastagliato, si apre a una luce diffusa. Con quattro ulteriori chilometri di saliscendi, si raggiungerebbe facilmente la mia meta odierna, il Castello di Cacchiano. Ma ho scelto un percorso alternativo, quello che scocca all’uscita “Casetta-Monteaperti” della Statale Siena-Bettolle. So di dover fare più strada, ma ne vale la pena. Viaggio attraverso sterminate estensioni di prato, oppure accanto a impianti di vigneto, molti dei quali a dimora da poco, lungo piaggioni o su vaste distese pianeggianti. Un cipresso dal tronco di sei metri di circonferenza segnala la curva oltre la quale, a metà di un rettilineo, trovo la chiesa di Sant’Ansano a Dofàna, rifatta da cento, ma vecchia di mille anni nel suo impianto originario. Visti da qui, i panorami del Chianti Classico sembrano promettere solo dolcezze, aprendosi a perdita d’occhio, vasti e solatii, punteggiati da coloniche e cantoniere, pievi tra alberi, siepi che ombreggiano case. In questo suo estremo lembo meridionale, il Chianti Classico mostra il suo lato più placido, e uno storico dell’arte, pensando al tratto gentile e un po’ naïf, alle forme smussate e ai colori tenui di un certo Quattrocento di Madonne adorabili, si azzarderebbe a descriverlo come “più senese”. Anche il resto della tratta, quindici chilometri, che mi separa dalla mia destinazione, vive dello stesso senso di quiete sospesa, come in un’eterna controra in cui non passa nessuno: più che di guidare un’auto, pare di navigare. Sono le undici di mattina, e mi avvicino alla meta abbordando il salitone di Monteaperti; supero San Piero e mi lascio alle spalle Pianella, svoltando a destra. Infine, abbandono la Provinciale 408, deviando in salita verso Monti in Chianti, e in breve raggiungo la dirittura che porta al Castello, oltre il quale non c’è più strada. Aggiro l’edificio centrale, che svetta su una specie di promontorio collinare consentendo in direzione sud una vista che lascia ammutoliti; il mio altimetro segna del resto, al centro del parcheggio, 499 metri sul livello del mare. Un po’ più in basso, metto a fuoco le case affastellate della frazione di Monti, contornate da vigne; slanciandolo oltre, invece, lo sguardo si dissipa in una campagna disegnata a onde successive, lei verdissima, le onde via via più celesti. Giovanni Ricasoli Firidolfi, che mi ha visto arrivare, fa capolino da un portone socchiuso su cui stagliano due croci di Malta argentate, e mi saluta. Vengo accolto in un locale di degustazione già approntato, piacevolmente fresco; rifletto che un condizionatore non serve granché, quando i muri esterni di una casa sono spessi due metri. Sul lungo tavolo centrale di massello scuro, noto una quindicina di bottiglie allineate: seguendo la loro traccia, proveremo a ripercorrere insieme la storia di questo luogo e delle persone che lo hanno fondato, abitato e plasmato. «Io ho iniziato a novembre 1983, a diciannove anni: avevo da poco preso la maturità scientifica, quando venni mandato da mia madre a Vienna, dove si teneva una degustazione di Chianti Classico organizzata dal Consorzio. Sapevo poco. Imparai molto. Non era un periodo di transizione soltanto per me, lo era anche per Cacchiano: era in corso una divisione tra mia madre e le mie zie che si completò poi nel marzo del 1984, quando finalmente ci trovammo nella condizione di poter investire».

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ANCHE PER IL VINO ITALIANO ERA UN PERIODO DI TRANSIZIONE, FORSE.

«Certamente. Si viveva in una specie di Rinascimento, soprattutto qui nel Chianti Classico, che ne era stato l’incubatore alcuni anni prima. L’azienda aveva cominciato a imbottigliare e commercializzare nel 1974 con il marchio “Castello di Cacchiano”. Mio padre Alberto era mancato, purtroppo giovanissimo, nel dicembre 1973, ma aveva tenuto da parte diverse annate, anche degli anni Sessanta, che vennero imbottigliate, separatamente, pochi mesi dopo. Quello è stato il punto di partenza».

MA CHE STORIA HA CACCHIANO, E PERCHÉ SI CHIAMA COSÌ?

«Questo è un luogo di fondazione romana, abbiamo trovato anche una stele su cui è inciso il toponimo Caculanus; doveva essere un accampamento militare, perché in latino cacula sta per “attendente”, il soldato che assiste gli ufficiali. La fortificazione è medievale, della fine del X secolo, ed è stato un Ricasoli a costruirla. Ha avuto poi gli ovvi compiti difensivi di tutta la linea di castelli posti tra Siena e Firenze. In tempi più recenti, quando Cacchiano apparteneva a mio nonno, è stata una delle aziende-satellite della Barone Ricasoli per la produzione del vino. Era, a sua volta, il fulcro e il centro di raccolta di un sistema di fattorie autonomo dal punto di vista amministrativo, con più di mille ettari di fondi rurali, sessanta ettari di vigneto e venti o venticinque casali al suo interno. Oltre ad altri prodotti agricoli, conferiva vino alla casa madre di Brolio, che lo assemblava e lo imbottigliava con il suo famoso marchio “Barone Ricasoli”».

IL LETTORE PERÒ RISCHIA DI NON ORIENTARSI, CON TUTTI I RICASOLI CHE IL CHIANTI CLASSICO ANNOVERA.

«Hai ragione, ma la famiglia è in effetti una sola, e il rapporto di parentela tra i vari Ricasoli è molto stretto. A Rocca di Montegrossi c’è mio fratello Marco, mentre il Francesco Ricasoli di Castello di Brolio è mio cugino primo: mio padre e suo padre erano fratelli. Cacchiano era sì un’azienda autonoma, ma l’intera famiglia, almeno una trentina di persone, viveva a Brolio, e per questo parlo di “casa madre”. Io stesso, con il mio nucleo familiare stretto ma anche con zii, nonni e almeno una quindicina di cugini, per i primi dieci anni della mia vita, ossia fino al 1974, ho vissuto lì. C’è un pezzo del mio cuore, in quel luogo, anzi del nostro, di tutti noi che ci abbiamo passato l’infanzia e la prima gioventù».

HAI DETTO CHE TUO PADRE È MORTO GIOVANISSIMO; MI SEMBRA DI CAPIRE PERÒ CHE STESSE AVVIANDO PROGETTI, QUI A CACCHIANO.

«È così, lui è mancato a 45 anni, in modo repentino. E di sicuro non se lo aspettava: oltre alla scelta dell’imbottigliamento, aveva infatti progettato un rinnovo strutturale di Cacchiano, e posto le basi per reimpostare le vigne con criteri più razionali e moderni. Quando è morto, tuttavia, mia madre ha realizzato i suoi progetti, uno dopo l’altro, stabilendo qui la nostra casa, pur non essendo lei di origine toscana».

DI DOVE ERA?

«Era veneziana, si chiamava Elisabetta Balbi Valier. E se vuoi una curiosità, era la nipote del conte Marco Giulio Balbi Valier, quello che a metà Ottocento aveva inventato il Prosecco moderno».

E TU NON FAI SPUMANTE, ALLORA?

(Ride) «Lo faccio, ma pochissimo». (Tace un attimo) «E a metodo classico».

PARLIAMO DEL PRESENTE. LA TUA PRODUZIONE È INCENTRATA SU UN’IPOTESI DI CHIANTI CLASSICO PIUTTOSTO SOBRIA E TRADIZIONALE, PERSINO SEVERA.

«Noi abbiamo 37 ettari di vigna, non trecento. Il nostro mercato è più contenuto rispetto ad altri, e forse è stato più facile rimanere rigidi nel rispetto della tradizione chiantigiana. Ovviamente c’entra una questione di gusto personale: trovo che il Sangiovese interpretato in questo modo un po’ austero abbia un gran fascino. Ci tengo però a dirti una cosa. Andando ad assaggiare oggi i vini che produceva mio padre, io avverto le stesse suggestioni. Mi sarebbe piaciuto chiedergli se fosse una sua scelta stilistica, e diciamo pure estetica, oppure una vocazione naturale del luogo, o entrambe le cose, ma non ne ho avuto modo».

E COSA GLI DIRESTI, OGGI, SE POTESSI?

«Gli confermerei che aveva ragione quando sosteneva che Cacchiano fosse una grandissima terra da vino. Quel che mi sorprende è che lo pensasse ai suoi tempi, quando lavorava senza tecnologia, con materiale “botanico” di livello, per così dire, non straordinario, e parlo di piante, di portainnesti, di conduzione del vigneto. Penso avesse un’incrollabile fiducia nella terra del posto dove siamo; io ho iniziato ad averla più tardi di lui».

COME È ORGANIZZATA LA PROPRIETÀ?

«Sono 200 ettari circa. Più della metà è bosco, elemento fondamentale, irrinunciabile. Per il resto, come ti dicevo, ci sono 37 ettari di vigneto ‒ e di questi 29 sono a Chianti Classico ‒ e altrettanti di uliveto; quel che rimane sono campi, incolti, strade, costruzioni».

LE VIGNE SONO ACCORPATE?

«Non tutte, ma per la gran parte sì; il grosso si trova di fronte all’abitato di Monti in Chianti. Lì ce ne sono alcune di particolare importanza per noi, come quelle a nome “Corte di Sotto” e “Pian della Fonte”, intorno ai 400 metri di altitudine. Alcune (e punta il dito verso nord-ovest e poi verso est) sono qui sopra, non lontane dal castello. Altre, le Morelline e i Sodini, sono giù oltre Monti, ancora un po’ più in basso, intorno ai 350 metri. Nei vigneti abbiamo una schiacciante prevalenza di Sangiovese, e poi Colorino, Malvasia Nera, Canaiolo, Malvasia Bianca per il Vin Santo, e un po’ di Merlot in una vigna specifica, Fontemerlano».

DAL PUNTO DI VISTA GEOLOGICO, INVECE, DOVE CI TROVIAMO?

«Su una placca di pietra calcarea di alberese, frammista però a galestro, questa roccia fatta di argilla compattata, friabile e scistosa. In superficie c’è un po’ di limo, a grana intermedia, ma anche argille fini e qua e là vene di sabbia. C’è una quota di arenaria solo nelle nostre vigne più meridionali, quelle che si protendono verso l’Argenina, verso San Giusto; lì è la sabbia a prevalere nella costituzione del suolo, e il vino viene più trasparente e più etereo nei profumi, e particolarmente sapido».

E QUESTO SUO LATO TI PIACE?

«Moltissimo».

COSA TI PIACE SI DICA DEI VINI CHE FAI?

(Di slancio) «Che sono classici. Che produco un Chianti Classico classico. Non mi interessa altro».

E COSA SIGNIFICA PER TE CLASSICO?

(Qui invece riflette. Poi alza la testa. Parla lentamente) «Che non ha l’ossessione di inseguire le tendenze passeggere, perché è come deve essere: è come è logico che sia. Classico è ciò che non va mai di moda e, di conseguenza, non passa mai di moda». ◆

LA DEGUSTAZIONE

Castello di Cacchiano produce, a oggi, sei vini. Tre sono Chianti Classico: quello d’annata, la Riserva e la Gran Selezione ora battezzata “Millennio” (nome che in passato ha identificato talora vini delle altre tipologie). I restanti tre sono: un Merlot da singola vigna (“Fontemerlano”), cui tutto si può dire meno che sia un vino facile, come fama planetaria del Merlot suggerirebbe; un Brut Rosé millesimato; uno straordinario Vin Santo del Chianti Classico, il primo vino aziendale a diventare famoso, grazie all’innamoramento ‒ e alla conseguente entusiastica comunicazione ‒ di Luigi Veronelli.

La nostra degustazione, però, ha preso in esame soltanto le tre tipologie di Chianti Classico, alternandone l’assaggio in una sequenza il più possibile decontratta. La richiesta di non concentrarci su un’unica etichetta può apparire bizzarra; ma il suo intento, assecondato volentieri da Giovanni Ricasoli, era lo stesso perseguito dalla doppia verticale di Valtellina Superiore Ar.Pe.Pe. pubblicata qualche anno fa su questa stessa rivista (n. 14 - marzo 2018). Ossia, misurare alla prova del tempo alcuni vini pensati per durare (in questo caso Riserva e Gran Selezione) a confronto con altri (i Chianti Classico d’annata) concepiti invece per un consumo più pronto e rapido. Anche stavolta, l’assaggio ha mostrato come in tema di longevità (non la generica tenuta nel tempo, ma la capacità di evolvere in maniera virtuosa e interessante) i vini d’annata di grandi terroir, sobriamente interpretati, non chinino il capo davanti ad alcunché, magari raccontandosi a voce più bassa, se ci passate la metafora, ma senza alcuna incertezza. Partiamo proprio dalle sei annate degustate del “semplice” Chianti Classico, ottenuto da Sangiovese e Colorino vendemmiati e vinificati insieme, con un saldo di Malvasia Nera che segue un percorso a parte e viene poi assemblata. La fermentazione è svolta in acciaio a temperatura controllata, e con due settimane di macerazione; dopo la malolattica e l’assemblaggio delle diverse partite, il vino passa in botti di rovere di Slavonia da 20-25 hl, dove matura per 12 mesi. Una sosta di un ulteriore anno in bottiglia ha preceduto la messa in commercio. Con le sole eccezioni del 2021, senz’altro troppo giovane per una valutazione accurata, eppure assai elegante nelle premesse, e del 2005 ‒ compatto e tenace nell’insieme ed esente da decadimenti ossidativi, ma impersonale e impreciso negli aromi, con in evidenza il “petricore” (acqua piovana, asfalto bagnato, ecc.) dei Sangiovese toscani del millesimo ‒ le altre cinque bottiglie aperte erano di tempra e complessità notevoli. Energico, sebbene ancora chiuso e riservato, il Chianti Classico 2020, dalla forza controllata e dal frutto assai puro, a ricordare il profumo fresco e sottile insieme dei sorbetti o delle gelatine. Più comunicativo, in quanto più ampio, estroverso e complesso, il 2016, floreale ai profumi e capace di una significativa accelerazione al sorso, ricco e persistente. Lo stato evolutivo di questo vino, a otto anni dalla vendemmia, lascia presagire almeno un decennio di positiva evoluzione. Il 2004 ha una nota mentolata che domina l’intero spettro olfattivo. C’è bisogno di attenderlo un’ora per iniziare ad annotare l’emergere di timide nuance di ciliegia, tè fermentato, tamarindo e iodio, in un insieme che nel bicchiere guadagna grazia. La bocca, invece, è da subito espressiva, fresca e potente, di perfetta coordinazione e con uscita di classe su note floreali e minerali. Il 1995, uscito con la dicitura “Millennio” ‒ a ricordare i mille anni dalla fondazione del castello – è, semplicemente, un 1995 toscano che più tipico non si può. Ovvero, un rosso arcigno e reticente, duro come una pigna, integro in modo incredibile (è granato acceso con bagliori rubino, a trent’anni dalla raccolta) e destinato a vita lunga ma, per così dire, eremitica. I profumi, raggrumati attorno a un nucleo cupo di prugna e liquirizia, preludono all’assaggio di un liquido innervato di acidità, denso di sapore, affidato più alla rude trama tattile che a distinguibili ritorni aromatici. Una specie di guerriero in armatura, che dubitiamo si apra mai a una silhouette più concessiva e gentile. Infine, il 1990 “annata” ‒ clamorosamente superiore alla Riserva della stessa, memorabile vendemmia per la persistenza del frutto, qui integro e soave; ha un profilo aperto a suggestioni di viola e di felce, con una vena dolce e acidula di miele grezzo e una distensione gustativa portentosa, dovuta al sostanziale discioglimento della grana tannica nella struttura.

Cinque, per proseguire, i Chianti Classico Riserva assaggiati, ad abbracciare un arco temporale di un quarto di secolo. La migliore fra quelle valutate, a giudizio di chi scrive, è oggi la Riserva 2003, che rispetto ad altre ‒ e non rare ‒ mirabolanti esibizioni di rossi toscani della rovente annata ha una ammirevole tipicità e una sicura leggibilità varietale. Non è solo la stupenda evocazione di viola, humus fresco, mare, ciliegia e luppolo a lasciare irretiti, ma soprattutto la compostezza e la vitalità del sapore, libero da ardori alcolici e ruvidità tanniche. La Riserva 2007 è, per contro, il vino più giovane dell’intero lotto in cui siano rilevabili note evolutive avanzate, e anzi, francamente, un chiaro cenno ossidativo. Rimandi al dattero e al catrame serrano il profilo per decine di minuti, prima che si faccia strada una timida sfumatura fruttata (amarena sotto spirito); meglio all’assaggio, che se non proprio giovanile è comunque vigoroso, rilanciato com’è dalla qualificante chiusura salina. Lo avessimo in cantina, ad ogni modo, non aspetteremmo anni per “tirargli il collo”. Un vero classico per la sua vendemmia è invece la Riserva 2006, come da letteratura vino potente e quasi urgente nel dirompere dei profumi, e con un tono esotico nel frutto (pesca, papaya) che lo rende un unicum nella verticale. In bocca, la gagliardia tannica del millesimo lo frena nello slancio e lo fa un po’ troppo astringente, ma la bella chiusura su toni intensamente minerali redime il tutto. Delle due Riserve più datate, 1993 e 1990, meglio la seconda, che pur non attingendo la grandezza del “semplice” Chianti Classico pari annata ha valide carte da giocare: è ben modulato, non manca di struttura né di equilibrio, e propone citazioni di erbe aromatiche, con un rosmarino olografico. Il 1993 (due bottiglie contestualmente aperte, identiche tra loro) ha invece esaurito la spinta, e vagabonda ormai su monocordi note ossidative. Resta infine da dire dei quattro Chianti Classico Gran Selezione, inaugurati dal primo ad essere uscito in ordine di tempo, il Millennio 2010. Si tratta della selezione delle migliori uve aziendali di Sangiovese (5.000 bottiglie prodotte e solo nelle annate ottime), fermentate in parte in acciaio e in parte in cemento, con macerazione di tre settimane e sosta di un anno e mezzo in barrique nuove o piccoli tonneaux. Ha una silhouette invero curiosa e di tono mediterraneo nelle note di pomodoro concentrato e macchia marina; deborda quindi di materia al sorso, con conseguente, avvertibile deficit di dinamica gustativa. Per il frutto di un’annata chiantigiana per cui la stampa d’oltreoceano ha gridato al miracolo, uno stato attuale non proprio esaltante. Tornando progressivamente verso i nostri giorni, segnaleremo del Millennio 2013 la rarefatta balsamicità al ricordo di eucalipto e la trama magra ed essenziale del sorso, che sembra essersi liberato di una zavorra, rimanendo coeso intorno a un saldo nucleo minerale. In fondo alla bocca, i quindici gradi alcolici ‒ che per la verità sembrano anche di più ‒ si fanno sentire: sfrangiano i contorni della persistenza aromatica, e lasciano in eredità una sensazione piallante di distillato di frutta. Il Millennio 2015, dal canto suo, titola 15,5% di alcol in etichetta, ma li “porta” alla grande; trattasi di un signor vino, sanguigno al naso dopo avvio tutto sulla violetta, e in grado di fornire al palato una sensazione vellutata davvero piacevole. L’uscita è lunga, coordinata, nitida e salata, di tutta soddisfazione. La Gran Selezione Millennio 2020, infine, è uno dei tre o quattro vini più severi, e allo stesso tempo più avvincenti, da noi sentiti a Gaiole in Chianti relativamente all’annata. Di un bel colore rubino con eleganti trasparenze, profuma di fragola selvatica e rosa, con un tocco erbaceo di acetosella e un che di affumicato; dopo venti minuti di aerazione anche di liquirizia, gesso e china. Considerandone il grip tannico ancora mordace e il quadro aromatico in assestamento, raccomanderemmo pazienza, confidando che il tempo la premi: due o tre anni di cantina dovrebbero confermarne la potenziale grandezza, rivelandolo forse come uno dei migliori rossi aziendali degli ultimi vent’anni.