Birra e libertà, connubio di espressione

Birra e libertà, connubio di espressione

Non solo vino
di Sara Missaglia
14 giugno 2021

«Nel vino c’è la saggezza, nella birra c’è la libertà, nell’acqua ci sono i batteri». Con questa frase, attribuita a Benjamin Franklin, si apre la serata condotta da Maurizio Maestrelli, per la rassegna WHO, dedicata alla birra

Giornalista e scrittore, Maurizio Maestrelli si è da sempre occupato di birra, ed è giudice in prestigiosi concorsi internazionali. Nella dimensione artigianale della birra c’è qualcosa che trascende calice e luppolo: è l’idea stessa di libertà associata alla birra e al fatto che molti birrai si sentano liberi di percorrere strade ogni volta nuove. L’Italia, che non è considerata un paese birraio, in realtà vede e racconta il mondo della birra attraverso binari differenti che rendono, in un certo senso, più affine la figura del mastro birraio a uno chef fantasioso piuttosto che a un rigoroso cantiniere.

Il relatoreMaurizio definisce la birra artigianale il fenomeno più interessante e rivoluzionario degli ultimi venti e trent’anni: ci sono birrifici ovunque, in tutti i Paesi anglosassoni ma anche in Cina e persino in Giappone. Nel 2016 un articolo si è aggiunto alla Legge del 1962, ed ha definito dal punto di vista legislativo che cosa si intenda per birra artigianale, focalizzando l’attenzione sul concetto di indipendenza, quasi a sottolineare nuovamente il concetto di libertà che abbiamo poco fa citato: indipendenza legale ed economica da altri birrifici, con impianti fisicamente autonomi da altri produttori di birra, con un tipo di birra che non preveda, durante la fase di produzione, processi di pastorizzazione o microfiltrazione, e con il limite massimo di 200.000 ettolitri annui (incluse le quantità di birra prodotte anche per conto terzi).

Questo livello produttivo presenta una distanza siderale dai cosiddetti birrifici industriali, il cui giro d’affari si attesta anche oltre i 3 milioni di ettolitri di birra annui prodotti. Il 2016 è stato l’anno in cui un birrificio artigianale laziale, Birra del Borgo, è stato acquisito dal più grande produttore di birra al mondo, Abinbev: l’operazione societaria ha consentito alla birra artigianale di uscire dalla fase pionieristica, ed ha sottolineato l’interesse per questa dimensione anche da parte dei grandi player.

Maurizio ha definito le principali tappe del percorso che la birra artigianale ha affrontato in Italia, a partire dagli anni ’80 con la Birreria St. Josef’s a Sorrento e i Fratelli Oradini a Torbole, sul Lago di Garda. Il 1996 è considerato nell’ambiente birrario l’anno zero, in quanto sono nati i primi microbirrifici e brewpub (i pub dove viene somministrata la birra prodotta direttamente in loco): Baladin, Birra Italiana,Beba, Lambrate, Mastro Birraio, Centrale Della Birra, Turbacci (che risale all’anno prima).

Le tappe100 i microbirrifici nel 2007, 500 nel 2014, 800 nel 2020, mentre i Brewpub nel 2002 erano solo 50, 100 nel 2008, 200 nel 2020 (produzione e somministrazione). Nel 2020 si contano più di 500 Beerfirm, solo 15 anni prima del tutto inesistenti (zero nel 2005): le beerfirm producono birra sulla base della loro ricetta oppure seguono progetti di comunicazione dalle etichette alla bottiglia, chiedendo poi al birrificio di produrre la birra stessa. Nel frattempo, sono nate birre di tutti i tipi, seguendo l’esempio di quelli che Maurizio definisce i "pionieri": Teo Musso (scuola belga) e Agostino Arioli (più mitteleuropeo, con birre ispirate alla tradizione della Germania del Nord, un po’ più secche e amare). I numeri relativi alla dimensione artigianale della birra (Fonte Assobirra) esprimono una fotografia che rivela che la birra artigianale oggi è prodotta in tutte le regioni italiane, con il Nord che è stato il primo a partire: i dati aggiornati al 2019 registrano 841 birrifici, con 3.100 unità occupate.

Tanti gli stili birrari italiani, figli della mancanza di obblighi produttivi che, ad esempio, il vino prevede, espressioni della fantasia dei birrai italiani declinata anche nell’uso dei frutti o dei vegetali (dalle castagne alle pesche, e ancora ciliegie, foglie di tabacco, miele, fiori, basilico, carciofi) o nella combinazione di cerali diversi tra loro, come il grano arso. Ancora non sappiamo quanto e per quanto tempo il mercato continuerà a gradire e a essere incuriosito da queste espressioni, che comunque sono testimonianza della libertà legata alla birra: espressione priva di condizionamenti, priva di regole e in un certo senso figlia della cultura gastronomica propria degli italiani, con la loro naturale capacità di giocare con alimenti e abbinamenti diversi e sorprendenti.

«Nel nostro Paese, che registra una componente vitivinicola importante, era quasi scontato che in un processo esplorativo di ingredienti locali e in un mondo in cui la cucina ha un’attenzione per il cibo del territorio, il vino rientrasse nel processo culturale legato alla birra». Queste le parole di Maurizio per introdurre le Italian Grape Ale (IGA), birra nel cui processo di produzione entra a far parte, come materia organica, uva o mosto, non vino. Teo Musso usò uve e mosto di dolcetto del padre, proprietario di un piccolo vigneto dietro casa, e avviò l’IGA. Nicola Perra a Cagliari (BB10, prima Italian Grape Ale ad avere un impatto commerciale), utilizzò la sapa, il mosto cotto in Sardegna, per realizzare una birra da 10 gradi alcolici prima con sapa mista e successivamente con sapa di singoli vitigni autoctoni sardi. Questa birra ha da subito incontrato il favore del pubblico, e ha dato il la a tutta una serie di birre interpretate in maniera diversa: tra i tanti Riccardo Franzosi, che ha avviato una collaborazione con Walter Massa e il suo timorasso, e Agostino Arioli che, in collaborazione con alcuni enologi trentini, ha creato la birra Malmadura (in dialetto trentino), dove l’uva usata arriva dalla vendemmia verde. Contaminazioni tra mondo del vino e della birra con risultati interessanti. Da qui si è cercato e si è ottenuto un riconoscimento internazionale che stabilisce i parametri stilistici secondo cui la birra viene giudicata nei concorsi: l’IGA ha infatti uno stile codificato, tipicamente italiano, emblematico della produzione del nostro Paese, con una sua precisa riconoscibilità.

Gli stili birrai italianiLe Italian Pilsner, invece, non hanno queste caratteristiche e, inoltre, sono prive di certificazione internazionale. Fu Arioli per primo a produrle negli anni 1997-1998, spinto dal desiderio di produrre una birra che piacesse soprattutto a lui: era infatti innamorato di una Pilser tedesca che lo ispirò, a cui diede una carica di luppolo maggiore ricorrendo alla tecnica tutta italiana del dryhopping, utilizzata in molti stili di birra dalla forte luppolatura: nella fase finale della bollitura, il luppolo concede solo sostanze aromatiche e incide sulla birra conferendole un profilo aromatico più marcato. Sono utilizzati in prevalenza luppoli europei che intensificano l’apporto floreale e erbaceo. «Il luppolo è stato un ingrediente a tratti rifiutato e, in un certo senso, ha sempre spaventato», spiega Maurizio: in realtà in Italia era conosciuto sin dai tempi dei Romani. Umberto Pasqui in Romagna nell’Ottocento tentò un esperimento di produzione birraria a tutto tondo, coltivando il luppolo sulle colline di Romagna. Durò poco, ma l’esperimento funzionò.

A fine anni ‘90 nacque sulle colline di Modena l’Italian Hops Company, con la coltivazione locale di varietà importate di luppoli. Da questa sperimentazione sono nate tre varietà italiane di luppolo, a testimoniare che la pianta può esser coltivata e impiegata anche nel nostro Paese. È in corso un progetto del Ministero dell’Agricoltura che punta all’ampliamento e alla diffusione della coltivazione del luppolo anche in Italia, dal momento che il mercato mondiale ne richiede sempre in maggiori quantità, con prezzi che sono arrivati alle stelle. Scatta quindi un interesse alla produzione di luppolo locale, anche con progetti di ricerca promossi da una startup italiana sul luppolo idroponico, che ha il vantaggio della coltivazione in serra con quattro raccolti l’anno e un risparmio del 50% di acqua.

Il luppolo italianoÈ un mercato dinamico e vitale quello italiano, che distingue più protagonisti: da un lato i big player, e dall’altro piccoli birrifici con la presenza di una categoria di produttori medi che consentono il reperimento delle birre anche al di fuori del comune di produzione. Questo, insieme ad altri, è infatti uno dei problemi che i birrifici devono affrontare e, laddove possibile, superare, percorrendo anche strade nuove: sostanzialmente le birre artigianali hanno purtroppo un solo canale di vendita, l’Horeca, una sorta di vera e propria “strettoia”.

Nell’ambito di questa situazione endemica, il covid ha danneggiato fortemente i piccoli birrifici che, a differenza dei big player, non arrivano alla grande distribuzione. Altra situazione complessa è il dilemma della ristorazione legata alle pizzerie, locali per definizione dove il consumo di birra è elevato: il consumo ruota intorno ai grandi brand, con conseguente penalizzazione delle piccole realtà.

Importante è sfatare il mito che la birra sia una bevanda per giovani e da consumare solo d’estate con le grigliate, perché questo espone il consumo al rischio della variabilità delle condizioni climatiche: la realtà è che un’estate fredda fa perdere volumi di vendite. Le birre sono dotate invece di uno spettro aromatico e alcolico molto diverso, che arriva sino a bevande molto forti e di grande struttura, con uno spettro estremamente variegato di modalità di consumo. Altro fattore aggravante per i trend di consumo è legato al fatto che i consumatori di birra artigianali sono inoltre tra i meno fidelizzati: chiedono sempre birre nuove e diverse, alla scoperta di prodotti più originali e innovative. Questo crea ulteriori problemi alle piccole realtà produttive, che faticano a costruire rapporti continuativi con i ristoranti locali.

Importante è quindi dare vita a un vero e proprio turismo birrario per sviluppare i consumi e far conoscere piccole realtà sconosciute ma meritevoli. Una svolta “birra-turistica”: «è finito il tempo del birraio da garage - conclude Maestrelli - oggi nascono birrifici con un business plan strutturato, con la capacità di resistere a un avviamento complesso, con investimenti importanti». Il percorso non sarà facile, ma guarda avanti per lasciarsi alle spalle il concetto di prodotto di nicchia, con l’”effervescente” consapevolezza che la birra possa esser qualcosa di diverso dalla bevanda bionda e un po’ amara di cui tutti sanno, ma che pochi realmente conoscono.