Birrificio Italiano. Una certezza.

Birrificio Italiano. Una certezza.

Non solo vino
di Maurizio Maestrelli
01 aprile 2010

Il primo ad aprire in Lombardia, da sempre un punto di riferimento nel panorama italiano, campione degli stili classici, ma capace di stupire quando si tratta di sfogare la propria creatività. La storia di Agostino Arioli, dei suoi soci e della sua “creatura”, deve essere riletta alla luce della “moda artigianalbirraria”…

Tratto da L'Arcante N° 12

C’era una volta la birra artigianale italiana. Pochi pionieri con molto entusiasmo e superiore fiducia nell’avvenire, una certa dose di avventatezza giovanile e il desiderio di proporre qualcosa di diverso dalle birre che dominavano, e che dominano tuttora, il mercato. L’esempio dei colleghi americani che avevano sfidato i colossi come Bud e Miller, i belgi maestri delle piccole produzioni di paese, gli anglosassoni ferocemente attaccati alle loro ale, le birrerie bavaresi ancora indipendenti… Insomma, gli italiani avevano le loro fonti d’ispirazione, ma ben poche certezze che l’Italia, nazione enofila nel midollo, potesse concedere loro qualche chance. E invece… Invece oggi, passati quasi quindici anni dalla prima alba, ecco un mini-esercito di birrifici artigianali sparsi su tutto il territorio nazionale, aperture quasi settimanali, attenzione dei media, classifiche e premi, guide di settore e servizi televisivi. Talmente tanto ossigeno da dare alla testa. Che cosa si intende allora, oggi, per birra artigianale? Al di là della definizione tecnica ossia una birra non pastorizzata o dei quantitativi limite di produzione annua, la birra artigianale è sicuramente, anche, moda, con tutte le implicazioni negative che questa comporta (anche se le positive non mancano). Esordienti allo sbaraglio, sogni di gloria “ready to drink”, originalità a tutti i costi e via di questo passo. È bene allora iniziare a cambiare registro sull’argomento, cominciando a raccontare, e a distinguere, chi al talento ha aggiunto costanza e solidità e magari aspettando al varco le comete di passaggio, per scoprire se sono solo un agglomerato di polvere o se invece sono fatte di dura roccia destinata a durare nel tempo.

Perciò, eccoci ad affrontare non una cometa, ma un vero e proprio pianeta. Magari non per dimensioni, ma per presenza ormai fissa nel firmamento birrario artigianale. Si tratta del Birrificio Italiano guidato da Agostino Arioli insieme a Maurizio Folli e Giuliano Marini. Natali nel 1996, primo birrificio lombardo a tagliare il traguardo, Arioli ha vissuto l’avvio faticoso del vero apriprista, ma supportato da esperienze di homebrewing, studi e laurea in scienze agrarie, tirocinio e stage vari in aziende birrarie italiane e bavaresi. Caso raro nella sua professione, ma non solo, non ha mai voluto smettere di studiare nemmeno dopo varie consacrazioni e con la navigazione del Birrificio più tranquilla. Già questo lo distingue, insieme alla sua ben nota maniacalità nell’approcciare una birra, dalla fase di ideazione a quella dei singoli step produttivi fino al settimanale, se non quotidiano, controllo sulla qualità. Nel corso degli anni il Birrificio Italiano si è ingrandito, senza mai farsi prendere la mano dalle chimere del mercato, ha rifiutato di spedire la sua birra in ogni dove fino a quando non si è sentito in grado di garantire una qualità certa, ha lavorato su una serie di birre “classiche” come la Tipopils, la Bibock, la Amber Shock senza togliersi lo sfizio di creare prodotti originali come la Cassissona, con sciroppo di Cassis, o la Fleurette, con pepe nero, sciroppo di sambuco e petali di rosa e violetta, o la fantastica Scires, con duroni di Vignola.

Ha cercato di capitalizzare tutta la freschezza del luppolo appena raccolto nella stagionale, ma imperdibile, Extra Hop, ha percorso le via delle ale britanniche conpersonalità, la Cinnamon Bitter Ale aromatizzata alla cannella, fino ai più recenti
progetti rappresentati dal “poker” delle Muse, quattro birre stagionali prodotte ricorrendo
ai “second runnings”, una tecnica che prevede il recupero del filtrato a basso estratto ottenuto dal lavaggio dei cereali a fine ammostamento. In parole più semplici, una sorta di “seconda” birra ottenuta dopo la prima semplicemente utilizzando lo stesso mosto. Pratica appresa da Arioli durante un suo viaggio di studio negli Stati Uniti ma già impiegata in tempi antichi, quando i monaci che brassavano creavano una prima birra, detta anche “prima melior” e, successivamente, una “secunda”. Birre quindi più leggere, ma non per queste meno godibili e create dal team del Birrificio Italiano secondo il ritmo delle stagioni.
Ecco allora la Musa Primavera, con fiori di sambuco e di robinia, la Musa Estate, di soli 3% vol, con scorza e succo di limoni della Costiera Amalfitana, la Musa Autunno, con uva inizialmente di Nebbiolo, ma potrebbe cambiare di anno in anno, e infine la Musa Inverno, con fave di cacao e anice stellato.

Un progetto, ultimo per ora, che dimostra una volta per tutte l’ecletticità di Arioli e della sua squadra, a volte accusati di essere birrai poco fantasiosi e creativi. Un progetto che soprattutto fa capire le potenzialità ancora inespresse del Birrificio Italiano che, dopo essere diventato una tappa imprescindibile per tutti gli appassionati anche in virtù dell’ottima cucina, per ingredienti e abbinamenti, che si può sperimentare in quel di Lurago Marinone, ha ora le possibilità di garantire reperibilità e costanza qualitativa in altre parti d’Italia. Maggiore produzione di bottiglie, formati e packaging giusti, etichette gradevoli e adatte anche a locali diversi da pub e birrerie, insomma tutti gli elementi a posto che troppo spesso vengono visti dai birrai artigianali come degli inutili orpelli ma che poi, arrivati a dover stare sul mercato, contribuiscono in maniera decisiva al successo delle proprie birre. In altre parole, non devi solo saper fare la birra buona, sempre. Devi anche
saperla vendere, altrimenti il birrificio dopo anni di fatiche e di entusiasmi, può mandarti gambe all’aria.

In questo Arioli non ci sembra aver sbagliato una mossa, anche se lui probabilmente
sosterrebbe il contrario: è cresciuto come abbiamo detto all’inizio gradualmente, si è sempre guardato in giro per capire dove poteva migliorare e cosa poteva sperimentare e, sulla strada, si è pure “fermato” a raccogliere consensi nazionali e internazionali: proclamato Birrificio dell’Anno nel 2007, vanta la sua Tipopils migliore espressione mondiale di categoria nel popolare sito ratebeer.com e due significative medaglie di bronzo all’ultima edizione dell’European Beer Stars in Germania. In mezzo, citazioni su guide varie, partecipazioni a giurie internazionali, dalla World Beer Cup all’International
Beer Challenge, organizzazione di eventi nel locale di Lurago come il ben noto agli
appassionati, Pils Pride.
La morale, se ne dovessimo ricavare una, è che l’iter del Birrificio Italiano è la dimostrazione che, a volte, i salti nel buio possono riuscire. Ma non è solo una questione di talento personale o di squadra affiatata, ma anche e forse soprattutto, di senso della misura, di capacità di tenere il passo lento anche quando tutto ti sembra convincere a correre. Per quante chiacchiere si facciano, per quanti articoli si scrivano, quello della birra artigianale è ancora un mercato di nicchia, in crescita certo ma fragile, facile preda di improvvisati pseudo-imprenditori che sperano possa essere il grande business dei prossimi anni. Francamente, ci sembra giusto cominciare a distinguere i birrai dell’ultima
ora da quelli che sono una garanzia, i birrai che fino a ieri facevano altro da chi ha fatto pratica per anni tra le mura domestiche e magari in altri birrifici, tra chi quando si apre la bottiglia si deve sperare e chi assicura un prodotto sempre bevibile, e vendibile. Ecco: in tutte queste seconde opzioni, ma l’elenco potrebbe ancora andare avanti, potete collocare con tranquillità il Birrificio Italiano di Lurago Marinone.

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