Extra Vergini d’Italia. Tanto osannati quanto disconosciuti

Extra Vergini d’Italia. Tanto osannati quanto disconosciuti

Non solo vino
di Luigi Caricato
13 dicembre 2007

Il decreto sul made in Italy non risolve i problemi strutturali del settore. Le riflessioni dell'esperto oleologo Luigi Caricato

Tutti oggi esultano per l’emanazione di un decreto. Quale? Quello con cui il ministro per le Politiche agricole Paolo De Castro ha dato l’atteso via libera alla tutela dell’olio made in Italy. Un provvedimento che, visto da lontano, può apparire un’ottima mossa, per chi ha a cuore le sorti del nostro comparto oleario e la necessità di garantire il consumatore. Ma è davvero così? Dobbiamo esultare anche noi, insieme con il ministro? Voi non so, io certamente mi dissocio da simili manifestazioni di giubilo.
E, credetemi, non sono affatto un bastian contrario, né tanto meno uno che disconosce l’urgenza e la necessità di tutelare le nostre variegate produzioni olearie.
Variegate perché sono tante le molteplici espressioni, sia in base alle aree vocate, sia in relazione al ricco germoplasma olivicolo autoctono, costituito da oltre cinquecento differenti varietà.
Veniamo dunque ai fatti. C’è una domanda che corre l’obbligo di fare: qual è l’effettivo stato di salute del comparto dell’olio di oliva in Italia? La domanda è legittima e richiede una risposta franca: pessimo. Vediamo il perché. Il mercato interno presenta un’anomalia di fondo: non premia, se non in via eccezionale, né le produzioni di qualità, né tanto meno le produzioni a marchio Dop e Igp. Di conseguenza, l'origine, così costantemente al centro del dibattito, non incontra affatto una adeguata risposta da parte dei consumatori. Questi sono attratti solo dal prezzo, il più basso possibile. Poi magari, in cuor loro, vorrebbero pure che fosse italiano l’olio delle bottiglie acquistate, ma le nostre produzioni hanno prezzi in generale poco competitivi. troppo alti i costi di produzione e piuttosto vetusti, in generale, i nostri oliveti. Non si può chiedere tutto. Lo scaffale pertanto non premia le produzioni che riconducono a una italianità certa: le vendite degli
oli a denominazione di origine non decollano, e nemmeno si ottengono grandi numeri con le bottiglie certificate “100% italiano”. Il risultato, nel frattempo, è che i produttori
non riescono a conseguire un’equa remunerazione, rispetto alle fatiche e alle tante risorse investite. Un bel problema. Gli acquisti di extra vergine avvengono soprattutto sulla spinta propulsiva delle continue promozioni, o, peggio, tramite le deleterie vendite
sottocosto. Vengono in tal modo premiati solo gli oli generici, quelli senza peculiarità. Nessuno che si strappi i capelli, per carità! E’ il consumatore che, con i suoi atteggiamenti, rifiuta la certezza dell’olio italiano. Si calcola che l'89% degli oli extra vergini di oliva venduti nel nostro Paese corrisponda a un profilo riconducibile a un prodotto di massa, dalla dubbia provenienza. Gli extra vergini a marchio “100% italiano” rappresentano invece la misera quota del 6,6% del totale. La restante parte, va suddivisa tra gli oli a denominazioni di origine, tra quelli definiti in modo generico “fruttati” (differenti dai prodotti base solo per le note olfattive e gustative più accentuate) e, infine, quelli da agricoltura biologica.
Il quadro è deludente: ci fa capire quanto sia ancora lontana l’acquisizione di una reale cultura dell’olio. Il settore, di conseguenza, non può essere in grado di decollare. E’ un cane che si morde la coda, invano. Il settore è pesantemente impantanato. Lo Stato, con tutti i suoi ministri agricoli che si sono finora succeduti, non ha fatto nulla, proprio nulla. Nessun Piano olivicolo nazionale, quindi nessuna progettualità. Si vive costantemente alla giornata. In un simile contesto, l’emanazione del decreto sul made in Italy fa ridere. Non serve a nulla, è solo aria fritta. Un modo per far vedere che si sta facendo qualcosa, ma non apporta vantaggi.
Una riflessione è d’obbligo: il decreto sull’etichettatura obbligatoria dell’origine il ministro De Castro in realtà l’ha firmato senza alcuna convinzione. Essendo un uomo intelligente (per lo meno così sembrerebbe), sa bene il perché. Il decreto sarà infatti bocciato da
parte dell’Unione europea perché è inammissibile la procedura attuata. Insomma, cavalcando l’onda emotiva di Slow Food e Coldiretti, si è fatto soltanto rumore, tanto rumore per nulla, giusto per far finta di aver fatto qualcosa di utile alla società. Invece, va precisato che il regolamento comunitario 1019 del 2002 stabilisce molto chiaramente
la natura facoltativa dell’indicazione d’origine. Può non far piacere, ma è così.
Per poter introdurre l’obbligatorietà in etichetta occorre modificare prima il regolamento comunitario. Non ci sono altre soluzioni. Siamo in Europa, vanno rispettate le regole, altrimenti si va incontro a una procedura d’infrazione, con le relative brutte figure sulla scena internazionale e con conseguenze pesanti per il Paese. De Castro fa solo l’illusionista, dicendo di intraprendere una battaglia per la qualità dei prodotti, oltre che per la trasparenza delle informazioni al consumatore. Il principio è giusto e
legittimo, ma le battaglie andavano condotte con tempestività. La nostra classe politica eletta a Bruxelles quando si poteva intervenire però latitava: non ha fatto sentire la propria voce, come spesso accade. Con volontà e idee chiare, si può invece far tutto.
Quando si trovano gli accordi giusti tra le parti, si possono conseguire risultati concreti. L’esempio viene dal settore abbigliamento e calzaturiero e da comparti similari. Insieme, e in modo coeso, tali soggetti sono riusciti a far approvare dal Parlamento europeo una dichiarazione con cui si chiede agli Stati membri di adottare la proposta di regolamento con l’obiettivo di rendere obbligatoria l’indicazione del paese di origine, relativamente ad alcuni prodotti importati dai Paesi terzi nell’Unione europea. Cosa è successo, dunque?
Che quando sono implicati settori importanti, che muovono grandi fatturati, il tavolo delle trattative a Bruxelles trova le soluzioni più adeguate. Nel caso specifico, si pensa
di introdurre un sistema dal marchio di origine obbligatorio. Ora però non mi dilungo sul settore non food, ma evidenzio il limite del comparto agricolo, debole, mal messo e incapace di farsi sentire. Le colpe dei nostri politici sono gravi. Il risultato è ciò che si vede: un comparto oleario, quello però strettamente agricolo, in ginocchio. La parte industriale della filiera non versa invece in brutte acque, ma non perché sono cattivi: perché sono in gamba, si tutelano. E’ il mondo agricolo che non sa farsi rappresentare.
I politici, aggiungendo dal canto loro sale alle ferite, anziché tutelare questo mondo, lo ingannano. I problemi del made in Italy non riguardano il nostro Paese, perché i consumatori sono indifferenti all’origine, visto che acquistano oli di provenienza senza
alcun dubbio straniera. Per loro scelta, perché puntano al prezzo più basso.
Il problema semmai è all’estero, dove i danni all’immagine (e all’economia) delle nostre produzioni olearie sono piuttosto ragguardevoli. Ma, da questo punto di vista, si sta solo a guardare, salvo poi intervenire quando ormai è troppo tardi.

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