I ribelli della birra

I ribelli della birra

Non solo vino
di Maurizio Maestrelli
09 dicembre 2009

L’apertura, nell’ormai lontano 1996, del brewpub Lambrate è stata la prima pietra della rivoluzione artigianale nel capoluogo lombardo. Un “gioco” che è diventato un lavoro e che ha cambiato, in città, l’idea della “buona birra”…

Tratto da L'Arcante N° 11

Che cosa rimane in via Adelchi, a Milano, dello Skunky Pub, un nome che ricorda da vicino il termine inglese “skunk” ovvero mascalzone, di questi tempi? Il luogo è sempre quello, una stretta e corta laterale di viale Porpora, zona Città Studi ma non esattamente il salotto buono di Milano e nemmeno l’area della movida di via Brera e dintorni. Al vecchio nome sono rimasti affezionati, forse, i clienti della prima ora. Per la maggioranza adesso si deve parlare del Lambrate, brewpub inaugurato quasi per scommessa nel 1996 e rapidamente diventato il posto delle fragole per gli appassionati meneghini di birre non pastorizzate. Dello Skunky forse sono rimasti i capelli lunghi e i tatuaggi, l’atmosfera informale, il pubblico eterogeneo, la spillatura senza soste e quell’aria da “comune” che si respira appena si apre la porta. Dal nostro personale punto di vista, ci auguriamo che così lo Skunky-Lambrate rimanga a lungo senza troppe derive fintopretenziose né atteggiamenti da esteti di filiera corta. Il Lambrate è bello così com’è.
Punto. Ci si va per godersi delle ottime birre, per guardarsi in faccia tra clienti e con i gestori, per “pogare” durante l’ora dell’aperitivo, la ressa è quasi sempre da record della cabina telefonica, o per rilassarsi in orari meno affollati. Magari a pranzo o a cena visto che, nel corso degli anni e insieme alle birre, è cresciuta anche la cucina del Lambrate che oggi quindi sarebbe riduttivo limitare al momento dell’happy hour o a qualche panino. Valga su tutto, come esempio, l’ottimo stinco cotto nel mosto di birra e un paté casalingo, ed eccezionale, di cui abbiamo vivida memoria… Di certo, dalle prime battute di oltre dieci anni fa, molta acqua è passata sotto i ponti. I fratelli Sangiorgi, fondatori e ancora al comando insieme a Fabio Brocca, ormai acclamato headbrewer, e alla sorella Alessandra, nella vitale posizione di responsabile delle problematiche burocratiche, commerciali, amministrative, hanno fatto davvero tanta strada.

Dal primo microscopico impianto, che li obbligava a chiudere la serranda ogni volta, e succedeva spesso, che la birra finiva, sono arrivati oggi a guidare una “macchina da guerra” capace di accontentare non solo i clienti in loco ma anche quelli di qualche altro locale milanese, l’Hop vicino alla rotonda della Besana e l’Isola della Birra in via Medardo Rosso, tanto per non fare nomi, nonché feste ed eventi vari. La produzione da esclusivamente alla spina si è allargata alle bottiglie e le birre sono andate moltiplicandosi. Le birre appunto, ovvero il cuore, il pensiero fisso e il primo amore di questi ragazzi, che ragazzi sembrano restare a lungo… Nel 1996, all’esordio, erano tre: la Montestella, la Porpora e la Lambrate. Nomi milanesi, Montestella ad esempio è la montagnola artificiale ottenuta coprendo le tonnellate di macerie della Milano post guerra, per birre originali e tuttora in produzione. La Montestella è una chiara luppolata, da 4,9% vol, di facile beva ma non priva di personalità. A tutt’oggi è una delle più
gettonate al bancone.

Porpora è un’ambrata molto gradevole, poco grado alcolico ed evidenti note di caramello; la Lambrate è anch’essa ambrata, ma di grado più deciso, sviluppa toni fruttati e lascia al palato una tenue e piacevole persistenza amarognola. Comunque, fatto il trio, Fabio Brocca e company, tra cui il talentuoso “ultimo arrivato” Maurizio Cancelli, non si sono fermati: negli anni sono nate infatti la Sant’Ambroeus, la Domm, la Ghisa, la Brighella, la Bricola e, ultime ma solo in ordine di tempo, la Ortiga, la Ligera e la Drago Verde. Se ce ne siamo dimenticati qualcuna, chiediamo venia. Del resto, c’è una tale abbondanza di scelta e un livello qualitativo tale che sul Lambrate ci si scommette in tutta tranquillità. Nella nostra personale, e quindi discutibile fin che si vuole, lista delle “top five” metteremmo senza dubbio la Ligera, una american pale ale da 4,5% vol fantasticamente aromatica e luppolata, una sorta di “spegni sete” perfettamente calibrata, a seguire la Ortiga, spettacolare interpretazione di una bitter di chiaro stampo britannico, anch’essa pensata per dissetare con aroma e sapore, poi la Ghisa, originale scura in stile “smoked” che si caratterizza quindi per dei profumi di fumo e per le sue potenzialità di abbinamento, sempre che non ve la siate già bevuta, con sushi e sashimi, a seguire inseriremmo la Domm, una weizen particolarmente fruttata e “nutriente” ricca delle classiche, per lo stile, note di banana e infine chiuderemmo con la Montestella, un po’ perché continua a piacerci ma anche per una sorta di obolo affettivo per la prima birra che abbiamo provato al Lambrate. Enne anni fa. Vale la pena inoltre ricordare la stagionale Brighella, dalla maschera dell’arte milanese mentre per tutte le origini degli altri nomi rimandiamo al sito www.birrificiolambrate. com, ovvero la birra di Natale da 8,2% vol particolarmente fruttata e “calda”, adatta a piatti robusti ma “azzardabile” anche su dolci della tradizione tipicamente natalizia, ovvero panforti e panettoni.

La maggior parte di queste birre sono ora, grazie a un impianto di imbottigliamento nuovo di zecca, reperibili sul mercato, pronte quindi a sfidare la curiosità e il giudizio di sommelier ed enotecari, ristoratori e titolari di botteghe gourmet. Una nuova sfida che, a nostro avviso, i ragazzi del Lambrate possono vincere perché, per quanto l’anima popolare delle loro birre resti un punto di forza, qualità e originalità promettono di intrigare anche professionisti presumibilmente più abituati a lavorare nel mondo del vino e dei distillati ma che, forse proprio per questo motivo, sono quasi sempre più attenti agli aspetti organolettici di un prodotto e alle sue possibilità di abbinamento a tavola. In effetti, questo è d’altronde il percorso che vede coinvolto in misura sempre maggiore il mondo delle birre artigianali italiane; un trend sicuramente positivo, non solo in termini di immagine ma anche di sdoganamento delle birre di qualità dagli ambiti originari che sono pub e birrerie, ma che tuttavia non deve far dimenticare le origini della birra in senso lato ovvero la sua informalità, la sua “semplicità”, termine che non a caso vogliamo virgolettare perché fare una buona birra non è per niente facile, semmai può essere
facile berla.

La produzione del Lambrate, su questo punto, è distintiva: le birre sono pensate e create allo scopo di essere bevute, senza tante “tirate” degustative, che restano comunque facoltative, ma piuttosto allo scopo di gratificare il palato del consumatore, evoluto o alle prime armi che sia. Ed è per questo allora che ci sentiamo di raccomandare le birre del Lambrate ai lettori de L’Arcante non solo o non tanto per la loro milanesità, quanto per la loro valenza, se così possiamo dire, didattica. Ossia una sorta di introduzione al magico mondo delle birre non pastorizzate, senza per forza dover ricercare ingredienti particolari
e inusuali. Nelle birre della “banda” del Lambrate ci sono ottime materie prime, malti e lieviti selezionati, luppoli di diverse provenienze geografiche e caratteristiche organolettiche, e un pizzico di sana fantasia.
Può bastare? Noi pensiamo proprio di sì ma, visto che non vi vogliamo convincere
a parole, vi invitiamo a recarvi in via Adelchi, visitare se possibile l’impianto di produzione (si consiglia nel caso di prendere appuntamento), fare due chiacchiere con il birraio Fabio e poi infine sistemarvi su uno sgabello o a un tavolo del pub e avviare il vostro personale giro di assaggi. Poi magari ne possiamo ancora riparlare…

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