Ripensare il mezcal

Non solo vino
di Maurizio Maestrelli
23 gennaio 2025
È molto probabilmente il primo, in ordine di tempo, distillato prodotto nelle Americhe, antecedente all’arrivo degli europei. E ancora oggi, quando è prodotto con metodi artigianali, il mezcal rivela il suo profondo legame con la terra e con una pianta che, nelle sue molteplici varietà, sa offrire infinite sfumature organolettiche
Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 27 Novembre 2024
Si fa presto a dire mezcal. Certo il distillato messicano sta vivendo una stagione positiva, godendo di un notevole successo commerciale negli Stati Uniti, e anno dopo anno guadagnando attenzione in Europa tra bartender, importatori e appassionati. Tuttavia resta ancora molta strada da fare per capire bene che cosa si debba intendere quando si parla di mezcal soprattutto per cancellare quel luogo comune, in voga fino a qualche anno fa, che il mezcal sia fondamentalmente un distillato piuttosto ruvido, dominato da sentori di fumo e nelle cui bottiglie riposa il “gusano”, quella larva che, un tempo, l’inghiottirla con l’ultimo sorso costituiva quasi una prova di virilità per almeno una giovane generazione di italiani. Niente di più lontano dalla realtà. Il mezcal innanzitutto non va confuso con la tequila: se quest’ultima infatti si produce da una sola varietà di agave, la varietà azul, il mezcal può nascere da almeno una quarantina di varietà diverse tra le quali certamente l’espadin è la più popolare e conosciuta ma non l’unica. E per iniziare a comprendere il mezcal si deve proprio partire dalla terra, dalle agavi e dal disciplinare. Quest’ultimo, pronunciato nel 2016 dal Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal (Comercam), ammette la produzione del mezcal come frutto della distillazione di agave matura, cotta, macinata e fermentata in nove stati: Oaxaca (dove si concentra il 90% della produzione), Guerrero, Puebla, Michoacan, Guanajuato, San Louis Potosì, Zacatecas, Durango e Tamaulipas. Esistono poi tre definizioni di mezcal: quella generica ammette la distillazione continua a colonna e l’autoclave per la cottura, poi c’è il mezcal artesanal per il quale è previsto esclusivamente l’alambicco discontinuo e il forno interrato per la cottura dell’agave e infine l’ancestral, che evita qualsiasi contaminazione meccanica e gli alambicchi in terracotta come forse si usavano in epoca precolombiana.
Il nostro viaggio in compagnia dell’azienda genovese Velier ci ha portati proprio a Oaxaca, per visitare alcuni produttori artigianali che coltivano le agavi, le cuociono nei forni interrati, le frantumano a mano o, più spesso, con la “tahona chilena” ovvero con una macina da mulino trainata dalla forza di un cavallo. Ogni loro mezcal è diverso dall’altro e, come dicevamo, la diversità parte dal terreno e dall’agave utilizzata. Per delle piante che impiegano anni per arrivare a maturazione, da un minimo di cinque o sei per arrivare fino a trenta, al fattore varietale e a quello del suolo si aggiunge quello del tempo e delle sue variazioni climatiche: la collina o la pianura, il sole o la pioggia sono elementi con i quali il mezcalero (più correttamente definito palenquero, da palenque/distilleria) deve fare i conti. Le agavi sono come dei bambini che crescono, alcuni in una sorta di asilo/scuola che sono i campi coltivati, altri addirittura liberi (tecnicamente le agavi silvestri) e quindi cercati, tenuti sotto osservazione e infine tagliati al momento giusto. Il taglio esatto, altro momento piuttosto complicato considerato che dopo la cimatura delle “foglie” a colpi di machete si deve staccare la piña a colpi di mazza e di coa, una sorta di pala che termina con una lama circolare, e questo “cuore” dell’agave può pesare una ventina di kili, come nel caso della varietà tobalà, ma anche un’ottantina per l’espadin o addirittura centoventi nel caso della varietà barril. Insomma, trasportarlo in distilleria non è una cosa facile. Una volta giunte sul posto le piñas sono collocate all’interno di quella che, a prima vista, sembra essere una grande buca. Una buca nella quale, sul fondo, arde il legno di mezquite o di encino negro, alberi locali, e sulle cui braci si posano pietre o anche foglie di agave e, sopra di esse, le piñas. Si sigilla poi il tutto con altre foglie e terra e si attende. Giorni, non ore. Una volta cotte, le piñas sono pronte per essere spaccate a colpi d’ascia e il loro cuore, l’abbiamo assaggiato, è straordinariamente dolce, come mordere un favo di miele. Una volta macinata grossolanamente, la piña frantumata è posta in tini di legno e lasciata per un paio di giorni a riposare. In realtà la dolcezza delle fibre richiama gli insetti che, inconsapevolmente, contribuiscono a innescare la fermentazione spontanea con i lieviti che portano con loro. Si aggiunge acqua e si assiste alla “magia”, magia dalla durata variabile ovviamente, legata comunque alla temperatura esterna. Non si distilla mai infatti il mezcal artesanal in inverno o quando la temperatura esterna scende sotto i 20 °C. E anche in questa fase del processo la varietà di agave incide: alcune varietà ad esempio, come l’espadin, fermentano più velocemente, altre impiegano più tempo; alcune invece producono nella fermentazione una schiuma abbondante e si deve avere l’accortezza di riempire meno, in quel caso, il tino.
Terminata la fermentazione ovviamente non si ha il mezcal, ma il “tepache” ovvero un liquido misto alla fibra dell’agave sui 4% vol. L’ulteriore particolarità è che nell’alambicco, per la prima distillazione, non finisce solo il liquido ma anche le fibre della piña, nella seconda si tagliano teste e code e alla fine se ne verifica il grado. Come? Raccogliendo un po’ di mezcal con una corta canna di bambù e versandolo poi in una jicara, una scodellina ricavata da una piccola zucca che si usa anche per bere il mezcal. Se il liquido cadendo crea delle piccole bolle che durano qualche istante, allora la gradazione è giusta. Una valutazione empirica insomma come è empirico tutto il processo di produzione artigianale del mezcal. Niente strumenti, niente tecnologia, nessun computer. Solo tempo, fatica e un amore viscerale per la propria terra e per quella pianta, che declinata al plurale, è fonte di vita in Messico da millenni tanto che gli aztechi l’avevano eletta al rango di divinità con il nome di Mayahuel, dea dell’agave e della fertilità. Per tutti questi motivi non abbiamo alcun timore a suggerire di andare alla scoperta del mezcal in purezza, a piccoli sorsi per poterne apprezzare ogni minima sfumatura e imparare a riconoscere la mineralità della corpulenta Tepextate, la dolcezza del Coyote, le note speziate della piccola Tobalà o, ancora, quelle floreali regalate dalla Madrecuische. Solo allora si inizierà a ripensare il mezcal, comprendendo che non è un semplice distillato, ma un vero e proprio mondo di profumi e di sapori.
Gli assaggi
Sono otto i mezcal riuniti nel progetto Palenque Spirits pensato da Luca Gargano, patron di Velier, nel 2018. Su ogni bottiglia compare il volto e il nome del distillatore, la varietà di agave impiegata, oltre ovviamente alla gradazione alcolica, (si oscilla tra i 46,6 e i 50,1% vol). Sono mezcal “firmati” dunque, “puri” nel senso che derivano da un solo tipo di agave e per questo motivo sono un perfetto affresco delle differenze che si possono registrare tra un mezcal e l'altro. In Messico li abbiamo assaggiati tutti, meravigliandoci di quanto sia distante il luogo comune del mezcal che “sa di fumo” dalla realtà; impossibile qui per motivi di spazio raccontarli nei dettagli per cui, ci scuserete, andremo a “pescare” quelli che ci hanno colpito maggiormente. Avvertenza: il primo nome identifica l’agave usata, seguito poi dal nome del palenquero. Un posto d’onore lo merita dunque il Tepextate di Baltazar Cruz Gomez, minerale, quasi sapido che in un secondo momento lascia emergere sensazioni di frutta secca e, soprattutto in bocca, erbacee e vegetali. Diverso il Tobaziche di Juan Hernandez che vira su note più fruttate che ricordano la banana e ancora di più il Coyote di Valente Garcia (mela cotogna e agrumi, morbido e tendenzialmente dolce al palato), eccellente infine pure il Tobalà di Alberto e Onofre Ortiz, leggermente speziato e dalle note che ricordano il fiore del cacao.