Il volto rosé del Salento
Speciali ViniPlus
di Gabriele Merlo
01 agosto 2024
La storia dei vini rosé pugliesi è, contemporaneamente, antica e recente. Se la produzione di questa particolare tipologia di vini in Puglia, e in particolare nel Salento, è perlomeno centenaria, è solo nell’ultimo ventennio che ha raggiunto le luci della ribalta
Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 26 Maggio 2024
Se fino a qualche anno fa si associava l’enologia pugliese soprattutto a vini rossi violacei nel colore e corposi nella struttura, ottenuti da uve primitivo e negroamaro surmature, oggi il mercato premia sempre di più i vini rosa che sanno unire, in un perfetto connubio, struttura, equilibrio e bevibilità. In questo scenario enologico il Salento è l’assoluto protagonista. Una terra in cui ogni estate si riversano da tutto il mondo milioni di turisti che vogliono godere delle acque cristalline dei suoi mari, rilassarsi al sole e al vento tra gli ulivi e divertirsi nei ristoranti e locali alla moda che si affacciano sui tramonti del Mar Ionio e invitano al brindisi con calici di ottimo rosato: sono questi i primi consumatori e ambasciatori. La diffusione della viticoltura in Puglia risale alla colonizzazione della penisola da parte degli antichi greci che piantarono le prime viti di negroamaro, nero di troia, malvasia nera, che, assieme al primitivo, sono le principali varietà di uva a bacca rossa coltivate oggi. Tuttavia la storia commerciale dei vini rosa è più recente e il primo imbottigliamento risale solo alla metà del secolo scorso. «Il Five Roses è stato il primo vino rosato imbottigliato in Italia, con la vendemmia 1943» ci racconta Piernicola Leone de Castris, erede della Leone de Castris, la più antica e famosa cantina salentina produttrice del vino icona tra i rosati di questa terra, il Five Roses, da uva negroamaro in purezza. «Mio nonno Piero ha realizzato questo prodotto in una tenuta chiamata in famiglia “Cinque Rose” perché per molte generazioni si erano avuti cinque figli. Nel gennaio 1944, in occasione di un incontro, l’ufficiale americano Charles Poletti di base a Brindisi degustò il vino e, trovandolo eccellente, fece un ordine per le truppe che erano nel territorio. In seguito chiese di dare un nome in inglese. Essendo impossibile reperire delle bottiglie in quanto tutte le vetrerie avevano sede nel centro-nord Italia, per quella prima annata furono utilizzate bottiglie da birra degli eserciti alleati».
VITIGNI E VINIFICAZIONI
«L’uva negroamaro rappresenta il vitigno principe del territorio – continua Piernicola –. Si è dimostrata adatta, nella sua versatilità, per creare differenti ottime tipologie: vini rossi e rosati giovani, spumanti, vini rossi per grandi riserve. Le sue caratteristiche, che la rendono perfetta per rosati di grande qualità, sono molte. La sua spina acida, sempre sopra i valori medi, e il basso contenuto in tannini, consentono, insieme ai terreni argillosi del Salento, di far esprimere aromi, freschezza, salinità, equilibrio e grande piacevolezza. Il tutto, logicamente, deve essere seguito in vigna e in cantina, sia per quanto riguarda l’epoca di raccolta delle uve, che il contatto delle bucce con il proprio mosto in fase prefermentativa ». È appunto il processo di vinificazione la vera e propria sfida enologica in questi territori arsi dal sole. Preservare l’acidità del vino ed evitare l’ossidazione sono sempre stati i due punti focali con cui rapportarsi per chi si accinge a produrre vini di qualità, le pressature lievi e brevi periodi di macerazione dei vini rosati hanno sempre aiutato in tal senso. Il grande e compianto enologo pugliese Severino Garofano una volta definì il rosa salentino come “il vino di una sola notte”, poiché in questo territorio il tradizionale metodo di produzione del vino è storicamente eseguito con una macerazione tra le dodici e le ventiquattro ore, che consente di estrarre non solo i sentori fruttati, ma anche tannini e polifenoli che danno al vino un colore più intenso e maggior longevità e struttura. «Per quanto riguarda il metodo di vinificazione, la nostra azienda ha un’impostazione molto tradizionalista e rispettosa del territorio» ci spiega questa volta Giovanni Calò, che condivide assieme al fratello Fernando la proprietà dell’Azienda Michele Calò e Figli, fondata dal padre a Tuglie a metà degli anni Cinquanta. «I nostri due rosati Mjère e Cerasa sono ottenuti con il metodo di vinificazione “a lacrima”, il mosto è ottenuto non attraverso la pressatura delle uve ma utilizzando lo sgrondo delle stesse». Le uve, una volta diraspate, vengono messe nei classici fermentini in cemento e dopo un contatto di 20-24 ore, si procede alla svinatura solo del mosto fiore che rappresenta circa il 30% del pigiato. «La restante parte della resa che deriva dalla pressatura è, per noi, uno scarto di lavorazione. Questa tecnica viene utilizzata solo e unicamente per valorizzare il rosato, al contrario della pratica del “salasso” che viene impiegata principalmente per concentrare il mosto favorendo quindi la produzione di un vino rosso».
LE ESIGENZE DEL MERCATO
Il mercato dei rosati salentini negli ultimi decenni non ha subito grandi mutazioni o sconvolgimenti. «Le aziende storiche hanno sempre creduto nelle potenzialità dei rosati e, in particolar modo, di quelli ottenuti da uva negroamaro – ci racconta ancora Piernicola Leone de Castris –. Nel tempo, assieme a noi, alcune realtà locali si sono impegnate nel valorizzare questa tipologia che ha una sua peculiare attitudine nel territorio salentino». «Purtroppo – aggiunge Giovanni Calò – anche il mondo del rosato salentino si è fatto ammaliare dalla possibilità di conquistare nuovi mercati esteri e ha perso, in alcuni casi, la propria identità. Molti lo hanno snaturato scimmiottando pessime imitazioni provenzali. Aziende come le nostre sono saldamente ancorate a un modo di fare rosato fortemente tradizionale. La Puglia è una piccola regione e il Salento è ancor più piccolo per poter competere nei mercati mondiali, a maggior ragione se si vogliono imitare altre denominazioni perdendo la propria identità».
IL NODO DELLE DENOMINAZIONI
A proposito di denominazioni, sebbene in Salento esistano storiche e molteplici Denominazioni di Origine come Nardò, Alezio, Leverano, Galatina, Copertino e via discorrendo, la maggior parte dei produttori preferisce ricorrere alla generica Indicazione di Origine Salento IGT. Perché? «A mio avviso, le DOC del nostro territorio sono troppo frazionate, piccole e poco strutturate, a eccezione della denominazione Salice Salentino che ha una storia a sé – sostiene Giovanni Calò –. Aggiungo che il nome e il marchio “Salento” a livello commerciale sono decisamente più riconoscibili ». «Credo che molti produttori si siano indirizzati verso l’IGT Salento anche per ricordare il percorso del nostro vino – continua Piernicola de Castris –. Per quanto ci riguarda, abbiamo una variegata produzione di rosati IGT e Doc Salice Salentino Negroamaro. Abbiamo iniziato a produrre il vino a Salice dalla vendemmia 1954 e in gran parte grazie al nostro lavoro, negli anni Settanta del XX secolo è nata la DOC Salice Salentino ». I rosati del Salento sono vini che affascinano per il colore intenso, profondo e la brillantezza nel calice: si sposano in maniera eccellente con i piatti della cucina tradizionale pugliese a base di pesce, verdure e formaggi freschi. Durante i pasti, in Salento, si è sempre bevuto rosato tutto l’anno, tuttavia oggi la moda lo relega spesso a un consumo prettamente estivo e solo “di annata”, come avviene in Provenza. Moda che non appartiene all’essenza del rosato salentino, in grado di esprimere meravigliosi sentori e perfetto equilibrio anche dopo due, tre, cinque anni dalla vendemmia e lo rendono, senza ombra di dubbio, un’eccellenza del nostro patrimonio enologico. ◆
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