Massimo Azzolini: la passione per il Metodo Classico non ha frontiere

Massimo Azzolini: la passione per il Metodo Classico non ha frontiere

Vita da Winemaker
di Paolo Valente
17 luglio 2024

Franciacorta, Trentino e Brasile. Massimo Azzolini, classe 1967, arriva alla consulenza dopo due lunghe esperienze in azienda e unisce la passione per il vino (e per le bollicine) a quella per l’olio

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 26 Maggio 2024

Raccontaci la tua storia professionale.
Nasco ad Ala, nel basso Trentino, studio Enologia a San Michele all’Adige e, nel 1989, divento enologo. Il giorno dopo mi chiama il prof. Attilio Scienza e mi propone di andare a seguire una micro-vinificazione a Casale del Giglio. Quasi non faccio in tempo a finirla che mi telefona Maurizio Zanella e mi dice che “i treni bisogna prenderli quando passano”. L’occasione era quella di collaborare con la nuova realtà franciacortina Guarischi, sui terreni di proprietà della contessa Camilla Maggi Martinoni. Accetto e resto in Franciacorta per nove vendemmie, dal 1990 al 1999. Il lavoro è molto interessante perché alcune vigne avevano piante molto vecchie e si riuscivano a produrre delle bollicine veramente di qualità.

Ma non ti fermi qui.
No. Nello stesso periodo inizio a collaborare, a Gavi, con Morgassi Superiore, La Mesma e Tenuta Santa Seraffa. Faccio la vita del pendolare perché la mia famiglia è rimasta in Trentino. Nel 1997 nasce mia figlia Angelica e il pendolarismo diventa sempre più complicato. Nel 1999 nasce anche mio figlio e la cosa diventa insostenibile. Mi propongono un incarico da direttore a Madonna delle Vittorie in zona Arco e Torbole; accetto e rimango per sedici anni.

Hai quindi abbandonato la consulenza?
No, ho voluto però sempre mantenere un giorno alla settimana dedicato alle consulenze, per il mio divertimento e per avere una visione a tutto tondo; il lavoro da consulente è diverso da quello in cantina. Con il cambio di proprietà di Madonna delle Vittorie lascio il mio incarico e amplio le consulenze. Inizio a collaborare con Valperto degli Azzoni che vuole fare un Metodo Classico di montagna, con i Dolomis, tre giovani imprenditori che hanno sette ettari di vigneto sopra Trento, in collina, con viti di chardonnay di quasi 40 anni. Poi ancora con Maso Salim e altri ancora, tra cui Cantina della Volta: Christian Bellei, bravo enologo, mi ha chiesto di dargli una mano.

Hai anche dei vigneti di proprietà
Nel tempo ho acquistato pezzi di terreni abbandonati nella Valle dei Ronchi, sopra Ala, a 650 m s.l.m. Ho accorpato piccole parcelle, bonificato il terreno e adesso ho tre ettari che coltivo per avere uno chardonnay base spumante. Non ho mai iniziato una produzione indipendente perché è troppo complicato dal punto di vista burocratico. Gestisco, inoltre, con altri soci, l’azienda Delbò sui Colli Piacentini dove coltiviamo otto ettari di vigneto e produciamo alcuni vini sia da vitigni autoctoni che internazionali.

Tu ti occupi anche di olio. Come è nata questa passione?
Quando ero in Franciacorta conobbi Gino Veronelli perché aveva suggerito il nome, Le Solcaie, a un vino della contessa Camilla Maggi. Durante il periodo in Madonna delle Vittorie, Gino Veronelli, che era un genio, decide di spendere le sue conoscenze per fare un olio monocultivar denocciolato. Un progetto semplice ma affascinante: ogni produttore avrebbe dovuto avere un suo piccolo frantoio ed evitare di utilizzare grandi frantoi ottenendo oli simili l’uno all’altro. Veronelli sperava in una carta degli oli per i ristoranti in modo da abbinare l’olio più appropriato ad ogni portata. Così mi sono comprato, con degli amici, un oliveto sul lago di Garda e faccio l’olio per me e per quelli che lo capiscono. Un olio, per esprimersi al meglio, deve essere un equilibrio tra fruttato, piccante e amaro. Alla massa dei consumatori l’amaro non piace e il piccante fa tossire. Bisogna così fare un olio che non sa di nulla. Invece il mio olio è fruttato, piccante e amaro. Gino Veronelli voleva che ognuno si facesse il suo frantoio e così abbiamo fatto.

Ad un certo punto sono arrivate anche le consulenze all’estero.
Sì. Quando lavoravo in Franciacorta ero anche consulente di Majolini che aveva un progetto in Venezuela. Il clima sociale non era dei migliori: troppa disparità. Vedevi una villa cintata con filo spinato e all’interno automobili di lusso mentre il resto della popolazione viveva nelle capanne. Lì, chi aveva i soldi comperava e beveva i grandi vini francesi e quindi non aveva senso fare un progetto di viticoltura di qualità per ottenere un vino di lusso.

Ora sei impegnato in Brasile, com’è nata questa collaborazione?
È nata grazie all’olio e alla segnalazione che una capo-panel ha fatto ad un imprenditore di San Paolo che voleva produrre, oltre all’olio, un Metodo Classico di alta qualità nelle sue terre nella regione di Rio Grande do Sul. Abbiamo fatto le cose per gradi: a gennaio scorso abbiamo fatto la prima vinificazione e a luglio faremo il tiraggio della prima annata di produzione. L’impostazione che voglio dare è quella di fermentare lo chardonnay in legno vecchio; il problema, che tutti sappiamo, è reperire le botti vecchie; già non è facile qui da noi figuriamoci in Brasile. L’obiettivo, ambizioso, è quello di essere i numeri uno sia con l’olio (cosa già riuscita) che con il vino.

Come è considerato il mondo del vino italiano?
L’immagine che hanno dell’enologo e del vino italiano è molto bella, molto positiva: ci ammirano. Nel Rio Grande do Sul intorno al 1880 i tedeschi colonizzarono la parte di pianura; una decina di anni dopo fu la volta degli italiani che si dedicarono alla coltivazione della parte di montagna. Girando per i villaggi, a volte, sembra di essere sulla Strada del Vino di Termeno con tante piccole cantine e vigneti ben tenuti. In Brasile se hai voglia di lavorare c’è davvero tanta possibilità. Numerosi enologi brasiliani hanno studiato in Italia, a San Michele e non solo. L’operaio invece non ha molta formazione ma è attento e ha voglia di imparare.

A livello agronomico quali sono le più grandi differenze rispetto all’Europa?
Per quanto riguarda i parassiti, in Brasile non c’è la presenza della mosca dell’olivo e non esiste la flavescenza dorata sulla vite. Le malattie fungine invece sono presenti, anche se dipende molto dalla zona. 

Cosa ne pensi del regime biologico?
Nella mia professione seguo aziende sia convenzionali che biologiche. Entrambe danno risultati interessanti dal punto di vista qualitativo. Faccio fatica a dire cosa, in assoluto, sia meglio. Se ragiono come semplice consumatore credo che, essendo il vino un bene voluttuario, per produrlo si debba essere rispettosi e non si ha il diritto di inquinare il mondo. Le aziende devono sacrificare una parte della loro redditività per non inquinare. Dal punto di vista professionale devo dire che per fare un vino biologico di qualità uguale a quella di uno convenzionale si spende di più; quindi, il tutto diventa sostenibile se puoi farti pagare di più il vino altrimenti il conto economico non regge.

Quali sono il vitigno e il vino che preferisci?
Il vitigno più grande è il pinot nero ma personalmente bevo champagne e prediligo lo chardonnay in purezza che cresce sul gesso, fermenta nel legno, matura quindici, venti anni. Quando lo assaggi senti quella nota di burro, di pasticceria, di bello che ti emoziona.

Cosa significa per te fare qualità?
Vorrei darti la risposta leggendo il bicchiere. Siamo in due, si stappa una bottiglia e alla fine di un’ora la bottiglia è finita e la mattina dopo, alle sei e mezza, di alzi per andare al lavoro e sei perfetto, bello come il sole. Fare qualità significa fare un vino con un intervento minimale di solfiti, partire da uva sana, da un prodotto genuino già di suo, uva coltivata secondo i migliori metodi. Bere un vino che ti appaga e ti dà soddisfazione.

Più vigna o più cantina?
Più vigna. Nel mio percorso in tanti mi hanno detto che un vino bianco può anche essere fatto in cantina ma il rosso deve arrivare dalla campagna. Non puoi fare un buon vino rosso senza la giusta maturazione dei vinaccioli, con raspo ancora verde, con un’uva matura solo a livello degli zuccheri ma non dei polifenoli. Quindi dico: più campagna e rispetto di quello che si porta dalla campagna in cantina. Poi certamente ci vuole la tecnologia anche in cantina.

L’enologo è un piccolo chimico?
L’enologo vero, oggi, non è un piccolo chimico. Se parti da una materia prima di qualità l’enologo interpreta, con i lieviti e i batteri, la nascita di un grande vino. ◆