Vita da winemaker. Leonardo Valenti

Vita da winemaker. Leonardo Valenti

Vita da Winemaker
di Giordana Talamona
11 novembre 2014

Agronomo, enologo, consulente per importanti aziende vinicole e docente presso l’Università degli Studi di Milano, Leonardo Valenti ama interpretare più di un ruolo professionale, perché – come lui stesso dice – «c’è sempre una nuova sfida da affrontare». E non si può certo dire che, in oltre trent’anni di carriera, le sfide gli siano mancate, tutt’altro.

Leonardo ValentiResponsabile di innumerevoli progetti di ricerca sui vitigni, ha collaborato recentemente a quello sul rotundone,  la molecola responsabile del tipico aroma di pepe, elaborando una metodica che apre nuovi scenari per la viticoltura del futuro. 

Potremmo definirla un agronomo prestato all'enologia. Com'è arrivato a intraprendere questa carriera?

Non avevo intenzione di fare l'enologo, questa professionalità è venuta successivamente, in conseguenza al lavoro di agronomo. Vede, negli anni Ottanta-Novanta si era creata una sorta di contrapposizione tra la figura dell'enologo e quella dell'agronomo. L'enologo riceveva in cantina le uva senza sapere granché di ciò che era accaduto in vigna.

Come mai?

Mancava una sorta di dialogo condiviso tra questi due professionisti, nonostante entrambi partecipassero al processo di produzione. Personalmente, al contrario, ho sempre pensato che il "vero" enologo dovesse conoscere sia i processi in campagna che quelli in cantina, per questo amo interpretare entrambi i ruoli. Non a caso nel mio gruppo di lavoro, oggi, la componente enologica dialoga molto con quella agronomica, perché andiamo assieme in vigna.

Questo dialogo come incide nella produzione del vino?

L'agronomia in funzione dell'enologia prevede l'interpretazione della materia prima in base all'obiettivo enologico. Per una base spumante, per esempio, devo avere delle uve che abbiano "un'immaturità matura", quindi al contempo giustamente immature per la parte acida, e mature per quella fenolica, senza che abbiano delle problematiche legate all'ossidazione.  Se da agronomo il mio unico obiettivo è la sanità delle uve, senza tener conto di ciò che verrà prodotto in cantina, è chiaro che effettuerò delle pratiche agronomiche, come ad esempio la defogliazione della fascia dei grappoli, che non necessariamente mi daranno l'uva più adatta per una base spumante. La corretta gestione agronomica per una base spumante prevede, al contrario, che le uve bianche siano coperte dalla vegetazione, senza "abbrustolirsi" al sole. È quella che io chiamo la "bellezza femminile bianca" delle uve da base spumante, la cui buccia rimane chiara come la pelle candida di una donna.

C'è un maestro che l'ha ispirata?

Come enologo no, semmai ho conosciuto molte persone che mi hanno permesso di formare parte delle mie conoscenze. Mi definisco, infatti, un autodidatta studioso, che continua ad approfondire la materia durante i viaggi studio che faccio col mio gruppo di agronomi e le aziende che seguiamo. 

Primo ricordo in vigna?

San Colombano al Lambro, primo anno d'Agraria. Ricordo che fui l'unico a propormi di lavorare in campagna, mentre i miei compagni erano concentrati su altre materie, come la matematica e la chimica. Una richiesta insolita per uno studente del primo anno, tanto che il docente ne rimase sorpreso. D'altra parte in campagna c'ero cresciuto. Rammento quando il nonno, durante le ferie estive, mi faceva lavorare con lui la terra o quando, tornato da scuola, sentivo parlare di vino nella trattoria gestita dai miei genitori. Un'estrazione agricola, la mia, che è stata determinante per il mio futuro.

Cosa le ha insegnato il mondo del vino?

L'umiltà nell'approccio al lavoro. Ovunque si vada, con qualunque persona si parli, è sempre possibile un confronto alla pari. Mai pensare di essere arrivati o di saperla lunga, perché chiunque può insegnarti qualcosa.

C'è qualcosa che, al contrario, questo settore deve ancora imparare?

Purtroppo temo che il mondo del vino non abbia ancora digerito il passaggio dal viticoltore-agricoltore al viticoltore-imprenditore. Siamo in difficoltà sui mercati internazionali perché abbiamo moltissimi bravi viticoltori che conoscono la terra e le piante una per una, ma che non sanno le lingue. Per andare a vendere all'estero, infatti, facendo capire con sentimento ai buyer i propri prodotti, non è sufficiente affidarsi a un interprete, ma occorre comunicare personalmente la propria azienda. Purtroppo le vecchie generazione si arrabattano come possono con un po' di francese e qualche parola di inglese, ma non è sufficiente per essere credibili. Speriamo nelle nuove generazioni. 

Qual è la bugia più ricorrente su questo mondo?

Che tutto vada bene, che sia tutto a posto. Manca un certo spirito critico, sia tra gli addetti ai lavori che tra i comunicatori del vino, che permetta di denunciare, chiaramente, le carenze strutturali che ci penalizzano. È mancato, per troppi anni, l'impegno dello Stato a promuovere sufficientemente questo settore, dando alle aziende italiane pari opportunità per competere con queste straniere. 

L'annosa questione di un "sistema Italia" che non esiste?

Sì, purtroppo basta guardare come sta andando in Cina, per rendersene conto. Quando la Cina ha aumentato l'importazione di vino, Australia e Francia hanno fiutato l'affare con rapidità, colonizzando in breve quei territori coi loro prodotti vinicoli. Avendo perso il primo treno cinese, non sarà facile per il nostro Paese colmare il gap, perché in breve tempo la concorrenza in Cina è diventata spietata.

Tutta colpa dello Stato o atavica incapacità di fare gruppo tra le aziende?

Entrambe le questioni, non posso negarlo. C'è una responsabilità tutta nostra nel non saper fare marketing in maniera integrata tra le aziende e i territori. L'italiano ha il difetto di essere al contempo socializzato e individualista. Si ha la sensazione che nell'aggregazione ci sia sempre qualcosa di negativo, tanto che difficilmente ci si presenta all'estero come territorio o denominazione. Lei non sentirà mai un produttore francese parlare male di un collega. Anzi, più facilmente le consiglierà di acquistare del vino dal suo vicino, se lui l'ha finito, nonostante lo detesti profondamente. Provi a chiedere a un viticoltore italiano un'opinione su un collega, poi mi dirà cosa le ha risposto...

Tra i temi più dibattuti degli ultimi anni c'è quello del contenimento responsabile delle emissioni di gas serra nella viticoltura. Qual è la sua posizione a riguardo?

È una necessità imprescindibile, tanto che col mio gruppo (SATA, ndr) abbiamo messo a punto il protocollo ITACA che permette alle aziende di valutare l'impronta carbonica vinicola. Tra le aziende che seguo, per citare un caso, Arnaldo Caprai ha ottenuto un premio per l'impegno nella riduzione dei gas serra. È bene ricordare, tuttavia, che non può esserci sostenibilità ambientale, senza sostenibilità economica. È giusta questa attenzione per l'ambiente, ed io ne sono un fermo sostenitore, ma tutti i discorsi etici riguardanti l'ecosostenibilità crollano se l'azienda non sta in piedi economicamente.

Le piace il termine "vini naturali"?

Mah, vuol dire tutto e niente. Non mi scompongo sulla terminologia, perché ho una visione che va oltre i vini biologici e biodinamici. Tuttavia ci vuole buonsenso e, dal momento che ho un'estrazione scientifica, vorrei che ci fossero regole più certe per i vini biodinamici. I biologici hanno dei disciplinari previsti per legge, quindi ci sono dei limiti definiti per quanto riguarda la solforosa e altro. Nei biodinamici è ancora tutto in divenire. L'altra settimana ero in Champagne da un produttore biodinamico che, alla domanda se utilizzasse lieviti indigeni per la rifermentazione, mi ha risposto: "E no, io sono un biodinamico pragmatico, mica un biodinamico teorico!". Il concetto è sempre quello della sostenibilità economica di un'azienda e del rischio monetario che si corre utilizzando certe pratiche, seppur rispettabilissime. Occorre essere pragmatici, se si vuole andare avanti.

Come ne parla ai suoi studenti della facoltà di Viticoltura ed Enologia?

Cerco di dar loro gli strumenti per capire meglio le differenze tra i vari modelli. Quest'anno, a fine corso, ho organizzato la "Giornata della Sostenibilità" dove ho messo a confronto il modello convenzionale, quello biologico e biodinamico. È infatti importante caratterizzare ogni modello per capirne i tratti salienti, senza faziosità.

Trova che ci siano molti pregiudizi tra chi è a favore di un modello piuttosto che un altro?

Non pochi. Penso che servirebbe più buonsenso, cercando di capire qual è la mossa migliore a livello agronomico. Chi fa convenzionale non è un avvelenatore della terra, ma un produttore che interviene con dei trattamenti di sintesi laddove è necessario. Anch'io, se posso, non prendo gli antibiotici e preferisco le cure omeopatiche, ma se ho un'influenza e il dottore me li prescrive, li prendo per guarire più velocemente. Quindi il concetto di base che ho cercato di trasmettere ai miei studenti è quello che si può operare in maniera corretta e sostenibile, utilizzando sia il modello convenzionale, quello biologico che biodinamico".

Lei ha collaborato a un progetto coordinato da Fulvio Mattivi dell'Istituto Agrario di San Michele all'Adige, in collaborazione con Daniele Nanni dell'Università di Bologna, col quale avete messo a punto un metodo per il dosaggio del rotundone nei vini.  Com'è nato questo progetto?

Tutto è partito da una ricerca australiana di un paio d'anni fa che ha permesso di individuare il rotundone, la molecola responsabile del tipico sentore di pepe presente nel Syrah. Da quella scoperta abbiamo fatto un lavoro di comparazione tra le varietà, rintracciando la stessa molecola in altri vitigni autoctoni italiani, tra cui ad esempio la Vespolina (antico vitigno dell'Oltrepò Pavese) dove il rotundone è presente in concentrazioni da 3 a 5 volte superiori a quelle del Syrah. 

Quali opportunità si aprono?

Dal momento che il grande pubblico apprezza sempre di più i vini speziati, sarà possibile agire sulle varietà che hanno una presenza minima di rotundone,  sia un fase di gestione della pianta che di vinificazione, per farli diventare commercialmente più interessanti.

Ma, quindi, le chiedo provocatoriamente, in cantina oggi si può fare di tutto per spingere commercialmente un vino?

Tutto no, ma molto. Le faccio un esempio. I vini che sanno di pompelmo rosa, o passion fruit oggi, vanno commercialmente per la maggiore, quindi posso lavorare in campagna per aumentare i precursori di questi composti, ossia dei tioli volatili odorosi che intervengono nell'aroma varietale dei vini, che vengono successivamente trasformati dalla fermentazione e affinamento (lieviti) in molecole odorose. In cantina attraverso le corrette tecniche, come le fermentazioni in assenza di ossigeno, posso aumentare quell'elemento aromatico ritenuto commercialmente interessante. Va da sé che se parto da una materia prima che non ha quelle molecole, dovrei aggiungerle in cantina, come probabilmente qualcuno ha fatto in passato... Torniamo nuovamente al dialogo tra agronomo ed enologo di cui si parlava, per creare in vigna i presupposti necessari per la cantina.   

Prossimi progetti?

Stiamo abbozzando un lavoro sulla biodiversità, legato alla sostenibilità ambientale. La mia visione per il futuro, infatti, è quella di una viticoltura sempre più sana e pulita. Il consumatore deve poter bere un bicchiere di vino senza più porsi il problema dei solfiti, perché saranno presenti in una dose talmente bassa da non creare più alcun problema alla salute. Sono convinto, d'altra parte, che ci si debba mettere sempre in gioco, perché domani c'è un'altra sfida da affrontare.  

Biografia

Leonardo Valenti nasce a Corniglio, in provincia di Parma, nel 1956. Si laurea a Milano in Scienze Agrarie negli anni Ottanta. Oggi è docente presso l'Università degli Studi di Milano Corso di Laurea in Viticoltura ed Enologia.
È consulente presso SATA, studio agronomico della provincia di Brescia che si occupa, tra le altre cose, di selezione clonale ed altre attività sperimentali. È, o è stato, responsabile di progetti di ricerca sui vitigni: Montepulciano, Verdicchio, Sagrantino, Nero d'Avola, Primitivo, Aglianico, Sangiovese, Nebbiolo, ecc.
Collabora con le seguenti aziende: Arnaldo Caprai, Barone Pizzini, Bisi, Bosco del Merlo, Castello Bonomi, Castelvecchi,  Colle del Giglio, Cortebianca, Le Querce, Olcru, Paladin, Pratum Coller, Ronco Calino, Torrevilla, ecc. Vanta circa 150 lavori sperimentali pubblicati su riviste nazionali o internazionali.

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