Carlo Alberto Panont. Terza parte

Carlo Alberto Panont. Terza parte

Interviste e protagonisti
di Gabriella Grassullo e Ezio Gallesi
12 settembre 2013

Concludiamo il nostro lungo dialogo con Carlo Alberto Panont. Dalla Valtellina all'Oltrepò Pavese, il lavoro svolto sul Pinot Nero, il Bonarda, il Cruasé e poi il passaggio a Riccagioia.

Arriviamo dunque all’Oltrepò Pavese

Mi presentai in Oltrepò con le idee chiare, con un programma e un progetto sul Pinot nero. Ai viticoltori ho detto: “sono qua per fare questo, pensateci, se partiamo, faremo le cose con chiarezza”. La Valtellina ce la siamo un po’ costruita con il tempo, mentre qui avevo un programma chiaro, maturato già nel 2008. La Valtellina a un certo punto forse stufa d’attendere disse: ”tu stai di là e noi stiamo di qua”. Fu una separazione lavorativa, ma non d’affetto perché ancora oggi la frequento.

Consorzio Oltrepò Pavese

Da quale fondamento partiva la tua idea di valorizzare il Pinot nero in Oltrepò Pavese?

La mia idea era quella spumantistica. L’Oltrepò Pavese è una fantastica zona spumantistica, dal punto di vista vocazionale ha pochi uguali nel Mondo, dal punto di vista tecnologico è migliorabile, dal punto di vista delle risorse umane anche, nel senso che c’è ancora moltissimo da fare. Partimmo con il piede giusto e ambizione: richiesta della Docg per uno spumante classico, salvaguardia del Pinot nero dal punto di vista dei grandi vini rossi.

In che senso salvaguardia?

Se vi ricordate in quel momento il Pinot nero era attaccato perché si voleva inserirlo nei cinque/sei vitigni liberi italiani insieme a Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Sauvignon blanc, Chardonnay e Merlot. Quindi c’erano due attacchi: uno al Pinot Grigio e uno al Pinot Nero. Per fortuna in Italia siamo riusciti a non farli rientrare in quel discorso e li abbiamo resi bandiere Italiane. Mentre per il Pinot Grigio era più semplice perché comunque è un simbolo Italiano nel mondo, scritto in Italiano Pinot Grigio, che è diverso dal Pinot Gris anche se la genesi è identica come varietà a quello Alsaziano, per il Pinot Nero era più difficile. Ma non siamo gli unici, ci sono tanti ettari in giro per il mondo, in Italia ce ne sono circa 4.000, 3.500 nella nostra zona, 400 Trentino e Alto Adige, 60/80 in giro per l’Italia. Per cui ce l’abbiamo fatta, l’abbiamo salvaguardato per merito proprio del Consorzio Oltrepò Pavese che impedì al Pinot Nero di entrare tra quelle varietà a Bruxelles. È stato un regalo a livello nazionale.

Bonarda StyleCi fu poi la tua battaglia per valorizzare il Bonarda.

Non solo valorizzazione, ma protezione. Perché è uno dei vini più imitati e sfruttati nel mondo. Oltre a essere bevuto in milioni di bottiglie, circa venti in Italia, è sfruttato anche nel nome a livello mondiale, quindi c’è tutta una protezione intellettuale da salvaguardare. È un nome che viene usato anche in Argentina, a Mendoza usano il Corbeau (Douce noir), non usano il Bonarda, non usano la Croatina però viene storpiato, come anche un po’ in Cile: si elaborano dei mosti vini che poi transitano in terra americana. È un nome bello, perché facilissimo, la “B” è pronunciata anche nel mondo anglosassone in maniera facile, non è la “S” di Sforzato che è difficile. Sicché il Bonarda è inflazionato, va in mano a tantissimi imbottigliatori, però c’è che chi lo conosce e chi no. Io sapevo cosa volesse dire proteggere un marchio a livello intellettuale, lo avevo già fatto in Franciacorta e Valtellina: mi ero arricchito con una serie di normative. 

C’era poi il nodo dei controlli

Sì. Decisi di valorizzare anche il piano di controllo, perché in Oltrepò non si conosceva il numero di bottiglie prodotte di Bonarda. Quindi introdussi la fascetta, che prima era solo consortile, poi diventò una fascetta di Stato. Questo ha portato a contare e numerare le bottiglie e si scoprì che in Italia e Lombardia di Bonarda Oltrepò Pavese se ne producono ogni anno 19 milioni di bottiglie. Queste nuove regole imposte condizionarono un po’ tutti mettendoli sullo stesso piano. Comunque siamo in presenza di un mercato nel quale il Bonarda, al pari del Lambrusco, non potrà mai avere un grande valore aggiunto a causa dell’enorme diffusione nella distribuzione organizzata, che è anche quella più importante. Ma questo sistema ha messo un po’ in crisi le aziende: sia chi lo faceva furbescamente dichiarandone solo una parte, sia quelli che lo facevano e lo fanno valorizzando il prodotto, ma che purtroppo hanno subito un abbassamento del valore. Questo creò caos, non si sapeva chi contestava e chi imbrogliava, quali le aziende di qualità. 

Si arriva, infatti, all’avviso di garanzia per te.

Grosso e pesante per giunta. Si aprì per me un periodo tormentato perché fui indagato. L’operatività dei viticoltori dura da 90 anni, e per la prima volta misi nero su bianco l’iscrizione degli stessi al Consorzio attraverso le Cantine Sociali, con una pratica che fece ancora il Sig. Denari nel 1977. Questo portò ad una rappresentatività del Consorzio attuale, non solo con le aziende che imbottigliano e vinificano, ma anche di tutti i viticoltori che conferiscono le uve. Il Consorzio Oltrepò acquisì una dimensione nazionale enorme, anche perché era il momento dei controlli in tutto il Paese, erano gli anni 2005/2006, ma anche perché c’era una contestazione nazionale. Ci fu un attacco sia nei miei confronti che del Consorzio. Durante la mia difesa a Roma la mia carriera e le mie aspirazioni si bloccarono un attimo, ma per fortuna alla fine il Consorzio ne uscì bene. Creammo poi un forte piano dei controlli, ma quando tutto ci sembrava in ordine e pronto per il lancio, successe che il tutto fu trasferito dentro un sistema, diciamo “italiano”, i Consorzi furono spostati agli Enti Terzi, per cui tutto quello che avevamo costruito per quasi un milione e mezzo di euro di bilancio, in un momento svanì, e anche lì fu un tormento enorme. Però, per fortuna, non perdemmo lucidità, perché il momento era difficilissimo. 

CruaséCome nacque l’idea del Cruasé?

Me lo inventai durante un viaggio romano. Era da tempo che stavo lavorando su questa parola storica: “Crua”. È del 1600 e con l’aiuto di un professore di Lettere dell’Università di Pavia, Giuseppe Polimeni, che è figlio di un agricoltore, riuscii a trovare le origini storiche di questo termine. Aggiunsi la parola “rosé” e nacque Cruasé. La mia esperienza sui marchi e sulle opere intellettuali mi portò subito alla ricerca di tutto quello che serviva, ma soprattutto a capire se era registrabile a livello nazionale e mondiale. Non volevo, infatti, comunicare cose strane: pertanto incaricammo un avvocato per fare uno studio. Il marchio fu così accettato e registrato dal Consorzio in nome e per conto di tutti i produttori, pronto per essere inserito poi nella Denominazione. Dal progetto del Metodo Classico si creò tutta quell’esclusività dell’Oltrepò di utilizzare il Pinot nero, l’unico ad entrare in cantina. 

Arriviamo così a Riccagioia

Nel 2007 fui nominato dal Ministro dell’Agricoltura Zaia esperto vinicolo Nazionale e per 5 anni fui in Commissione a Roma, poi come vice Presidente della stessa Commissione, pur mantenendo la Direzione dell’Oltrepò. A quel punto l’Oltrepò era un po’ stufo di me: al Consorzio cercavano qualcuno con il quale portare avanti meglio le loro scelte. Uno sviluppatore come me forse non poteva continuare; per cui le strade si sono divise. Dal 2007 cominciai a lavorare per il futuro polo universitario di Riccagioia: ero un po’ stufo, sia del mio impegno a Roma che di Consorzi, e quindi pensai che dopo vent’anni bisognava ritornare un po’ da dove ero partito. Il mio sogno adesso è ritornare a riparlare di vigna e viticoltura con la sapienza di uno che sa come si usa una barrique, come si usa una vite. Allora era tutto scombinato, per cui ritornare all’origine vuol dire anziché avere vigneti monovarietali, tornare alla complessità fatta in vigna e non più in cantina, quindi avere vigneti polivarietali per fare vini con complessità già in vigna, e mantenerla, fortificandola in cantina. Senza distruggerla, non separandola per poi chiamare l’enologo che come un santone assembla. 

Ritieni, quindi, esaurito il ruolo di una certa enologia?

Per me hanno terminato la loro esperienza. Gli enologi ci hanno illuminato con grandi vini, ma adesso loro hanno tra i 65 e 70 anni, ci hanno aperto una strada dandoci tanto, però è una parte di storia finita. Probabilmente oggi loro la penserebbero come me. Io, a 49 anni ,ne ho ancora 15 per poter seminare, quindi tocca a noi. In cantina bisogna sì usare la tecnologia, ma a modo, per salvaguardare la materia prima, la natura, lieviti e batteri. Io sono convinto che il futuro dell’enologia e della viticoltura sta nella microbiologia, non tanto nell’analisi del PH e dell’acidità, della volatile, della solforosa, con la quale ormai arriveremo a zero. Io sto già facendo vini a Riccagioia che ormai hanno capacità d’invecchiamento di 15 anni con valori di solforosa vicino a 10. Il concetto di “sostenibilità” c’è da sempre, tutti siamo sostenibili, prima dicevamo semplicemente qualità, l’abbiamo inflazionato: poi abbiamo usato “tipicità”, e l’abbiamo inflazionato, poi “varietà” e ancora “vini frutto”; ma il vino non deve sapere di frutta, perché se sa di frutta non è vino, è frutta. Il vino deve sapere di vino e quindi ci vogliono i profumi secondari, ma soprattutto terziari. Siamo rimasti abbagliati dai sentori di frutti di bosco che si sentono per esempio nei Pinot nero, tra le varietà più difficili. Ora l’uva deve darci un vino, che diventerà un’espressione alimentare, anche edonistica, che porta benessere, nella tua vita, nel tuo spirito, e poi ti da anche giovialità. È una maturazione che dobbiamo fare tutti. Io penso che ci sia spazio per tutti, qui abbiamo una leva di nuovi enologi che mi auguro possano prima rispettare l’uomo e poi la tecnica e devono cominciare ad assimilare questi concetti. 

Centro Sperimentale Riccagioia Quale linea generale hai in mente nel perseguire il tuo lavoro a Riccagioia?

Una viticoltura di domani con un concetto diverso. Quando mi sono laureato, il Professor Scienza mi propose di fare una vendemmia da Mondavi in California: io però allora ero uno studente lavoratore, avevo già una piccola ditta, quindi stupidamente rinunciai. Quando lo rividi ad un convegno d’apertura dell’anno accademico dell’Università, mi ha detto che l’età passa anche per lui, adesso ha 70 anni, e pur essendo un importante cattedratico, è a fine carriera, perché a 72 anni dovrà andare in pensione. Disse: “Io vi devo formare per stare nel mondo, quindi voi giovani enologi, laureandi, potrete fare esperienze di lavoro sia in Georgia, sia in California e in Cile, dovrete portare il concetto culturale Italiano nel mondo, aprendo le strade”. A prescindere da tutte le crisi di questo mondo, l’alimentare Italiano tiene, il vino Italiano tiene, nel vino siamo primi. È vero che l’Ilva di Taranto è la più grande acciaieria europea, che da lavoro a molte persone, però abbiamo visto che i proprietari vivevano a Londra, insomma non si interessavano. Noi non inquiniamo, manteniamo il territorio, creiamo cultura e tutto quello che c’è attorno al vino. Posso affermare che dai contatti avuti con uomini famosi, anche del mondo dello sport, tutti parlano di vino, perché è una chiave che ti apre tutte le porte.

Il tuo è un ruolo importante, dirigi un centro di ricerca dove il lavoro intellettuale è una professione, allora cos’è la vera ricerca? E come si confronta con la tradizione?

Prendo spunto ancora dal Professore Scienza, perché penso sia chiarissimo. Lui ha usato due termini: uno è compromesso e l’altro è compatibilità. Un compromesso si ha tra il metodo scientifico con la sua rigidità, e ciò che invece è intuizione, pensiamo a Steiner, al biodinamico piuttosto che al biologico. Lì va trovato il compromesso perché non stiamo dicendo cose molto diverse, dobbiamo trovare il metodo di lettura e porlo in una condizione razionale, in modo da poter capire e studiare. L’altro termine è la compatibilità: noi dobbiamo mettere in condizioni i diversi soggetti di essere compatibili tra di loro, dobbiamo cercar di rendere compatibili le diverse esperienze tra loro, per cui bisogna che ci sia sempre qualcuno che ascolti, qualcuno che parli, e che poi che quel qualcuno che ha parlato ascolti a sua volta, in modo che si possa prendere il meglio sia dall’uno che dall’altro. Io penso che sul vino dovremmo arrivare ad una sintesi futura circa le compatibilità tra i diversi ruoli, le diverse produzioni, le diverse esperienze. Abbiamo fatto un’esperienza protettiva negli anni ‘90, che poi ci ha portato ad un’esperienza internazionale degli anni 2000. Oggi abbiamo la capacità di capire, di ricerca del naturale, abbiamo delle idee molto chiare da una parte, ma confuse dall’altra. Ci vuole compatibilità anche tra chi questi mondi li rappresenta, bisogna ascoltarsi, perché non possiamo fare come ha fatto Steiner; chi segue la sua dottrina è assolutamente contro la scienza. Riccagioia vuole arrivare a questa sintesi, abbiamo in corso dei programmi che speriamo ci aiutino a raggiungere l’obiettivo.

Parlando di ricerca cosa ti suggerisce questa frase: “trova il punto estremo, sappilo varcare e vedi di spostare l’orizzonte” di Vladimir Vysotsky 

Per me non è una novità, un amico sincero ancora oggi, all’inizio del mio percorso professionale negli anni 1992/1993, mi insegnava a guardare avanti un pallino rosso, come obbiettivo: tu guarda quel pallino e seguilo, quando lo hai raggiunto fissane un altro, seguilo, e valuta quanto quel pallino può essere migliorato. Ancora oggi cito quella frase, lui è uno dei più grandi enologi Italiani, famoso e uomo di carriera che mi insegnò molto, mi ha praticamente messo sotto la sua ala. Anche se oggi abbiamo percorso sentieri diversi ci sentiamo quasi quotidianamente, per cui mi ritrovo perfettamente in quella filosofia. 

Riccagioia ha sempre avuto un’importanza notevole per l’Oltrepò, ma non è mai stato sfruttato a pieno, come dimostrano i frequenti cambi di gestione e d’impostazione. La Direzione del Centro darà maggiore impulso alla formazione o alla ricerca? In altre parole, ritieni che l’Oltrepò viticolo sconti maggiore carenza di formazione o ricerca e soprattutto i programmi conseguenti.

Riccagioia è una società Scpa (Società Consortile Cooperativa per Azioni) regionale in parte pubblica, ma soprattutto privata, quindi inserita in Oltrepò con un capitale in maggioranza privato: ha il dovere della formazione per dare visibilità al territorio. Io poi ci metto tutta la passione che ho. Con il terzo anno del corso di laurea qui a Riccagioia, daremmo ai ragazzi la possibilità di fare pratica tecnica presso le aziende, e questo sarà uno sviluppo per entrambi, i ragazzi vedranno una grande zona viticola e le aziende saranno più valorizzate, quindi avremmo formazione, attività didattica e ricerca. Chi non ricerca muore, però non possiamo pensare alla ricerca solo per l’Oltrepò Pavese, bisogna partire con ambiti molto più estesi, per cui l’Oltrepò farà da palestra e potrà sfruttarne per primo i risultati, però è evidente che questa ricerca deve avere un ambito nazionale, e l’Oltrepò, facendo da apripista, si trova in una condizione favorevole. 

Cosa manca all’O.P. per il salto di qualità, quindi quale futuro anche in funzione dell’Expo, e sui mercati ormai emersi.

Secondo me non manca molto, ho sempre detto fin dalle mie prime interviste che ogni territorio va letto per quello che ha, che la spina dorsale di questo territorio sono le sue Cantine Sociali, e oggi ce ne sono, magari un po’ “turbate o turbolente”. Ci sono comunque due cantine in particolare che sono sane, hanno risorse economiche, hanno già una caratteristiche internazionali, chi più chi meno. Io ritengo che occorra partire da lì, noi non dobbiamo aver paura di fare qualità e internazionalizzazione attraverso i nostri sistemi cooperativi, sono il 60% della struttura Italiana. Ogni zona deve leggere le proprie risorse, poi intorno gravitano le piccole cantine illuminate che sono un arricchimento di questo grande albero, ma non possiamo prescindere dalla spina dorsale, perché il progetto non può andare avanti. Riparto ancora da dove avevo messo i punti allora.

 

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I commenti dei lettori

Carlo alberto Panont
14 settembre 2013 - 18 18
Carlo alberto Panont

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