Calici epici. Dieci grandi “Super Italians”

Calici epici. Dieci grandi “Super Italians”

AnnIverSary60
di Stefano Vanzù
17 settembre 2025

Tre stimatissimi campioni e relatori AIS, dieci prestigiose cantine che, con i loro vini, danno lustro all’Italia enologica. Il tutto, in una serata memorabile che ci fatto apprezzare ancor di più il nostro Paese.

Se è vero che per ogni appassionato del mondo del vino tutte le occasioni sono valide per stappare e gustare, magari in compagnia di altri “eno-amici”, quella bottiglia che da un po’ occhieggia in cantina, un anniversario importante come quello dei sessant’anni della più grande associazione di professionisti del vino nel mondo merita senza dubbio di essere celebrata “sacrificando” sull’altare di Bacco non una ma tante bottiglie, ovviamente di quelle buone! Ma un risultato ancora migliore si ottiene unendo al piacere della degustazione la curiosità di scoprire non solamente come è stato prodotto quel vino ma anche chi l’ha prima sognato, poi pensato e infine realizzato per offrirlo finalmente al nostro palato e al nostro intelletto, perché dietro ogni grande vino c’era, e c’è ancora, il lavoro di uomini e donne, profondi conoscitori e valorizzatori dei loro terroir, come hanno sottolineato il Presidente di AIS Lombardia Hosam Eldin Abou Eleyoun e il Delegato di Milano Fabio Scaglione, aprendo questa bellissima masterclass inserita all'interno del calendario dei festeggiamenti per il sessantesimo anniversario dell'Associazione Italiana Sommelier. 

Per raccontare dei vini che hanno fatto, e continuano a fare, un bel pezzo di storia dell’enologia italiana e di coloro che li hanno creati, dobbiamo affidarci a chi conosce in profondità le aziende e gli uomini che hanno reso possibile tutto questo. Ecco allora “i tre tenori del vino lombardo”, tre relatori la cui preparazione è pari quasi solo alla passione che mettono nella “missione” di far comprendere pienamente a ogni uditore perché quel vino è così speciale e quale è la sua storia: parliamo di Nicola Bonera (Miglior Sommelier d'Italia nel 2010), Luisito Perazzo (Miglior Sommelier d’Italia nel 2005) e Artur Vaso (Miglior Sommelier della Lombardia nel 2017), cui si è unito, nella degustazione dell’ultimo vino della serata, Cristian Russomanno, fresco vincitore del titotlo di Miglior Sommelier della Lombardia 2025.

Prima di introdurre i vini e le dieci iconiche cantine protagoniste dell’evento, i relatori hanno ricordato colui che è considerato il padre della moderna cultura gastronomica, inventore del giornalismo enogastronomico e da sempre ispiratore di chi si considera, o ambisca a diventare, un comunicatore del vino. Ci riferiamo naturalmente a Luigi Veronelli che, da profondo conoscitore del mondo del vino, scriveva già nel 1965 di come “…mai associazione fu più auspicabile di quella dei Sommelier…” e, a proposito della figura del Sommelier, sosteneva che “Sommelier è colui che si occupa con sapienza ed intelligenza sia dell’assaggio dei vini che gli sono proposti sia del loro utilizzo… dovrebbe esserti ben chiara la complessità del sapere e dei gesti per chi fa al meglio la professione.

Le Cantine, le persone, i vini

Guido Berlucchi e la Franciacorta raccontati da Artur Vaso

La nascita di una delle zone spumantistiche che oggi è fra le più conosciute e apprezzate non solo in Italia ma nel mondo si deve all’intesa fra due uomini che oggi definiremmo “d’altri tempi”, sebbene non siamo nel Medioevo ma nel 1954: Guido Berlucchi, classe 1922, erede della nobile famiglia Lana de’ Terzi, che punta a riscattare i vigneti di famiglia - in quella terra dove la coltivazione della vite è stata una costante fin dall’epoca romana ma che negli anni ’50 produce solo vini semplici per il consumo quotidiano - e un giovane fresco di studi di enologia, Franco Ziliani. È lo stesso Franco Ziliani a raccontare come si svolse l’incontro che rivoluzionerà un intero territorio: «Il maggiordomo mi scortò nel salotto di Palazzo Lana Berlucchi. Le note di “Georgia on my mind” vibravano nell’aria: Guido Berlucchi era al pianoforte. Il conte richiuse il piano, mi salutò con calore e iniziò a interrogare me, giovane enologo, sugli accorgimenti per migliorare quel suo vino bianco poco stabile. Risposi senza esitazione alle sue domande, e nel salutarlo osai: “e se facessimo anche uno spumante alla maniera dei francesi?”».

La proposta di Ziliani non mancò certo di coraggio, visto che si trattava di sfidare “Sua Maestà” lo champagne, ma il coraggio - in questo caso imprenditoriale - non difettava neppure a Guido Berlucchi. E fu così che dopo sette lunghi anni di esperimenti, prove, tentativi, reperimento di macchinari e materiali vari, nel 1961 venne lanciato il Pinot di Franciacorta a firma Berlucchi, seguito nel 1962 dalla versione rosé, il primo spumante di questo tipo in Italia. La filosofia di lavoro di Franco Ziliani emerge anche dalla grande considerazione che l’enologo riservava al vino base di Berlucchi, come appare evidente dalle sue parole riferite proprio al Franciacorta Brut: «Se va bene questo, chissà gli altri!».

Uno degli spumanti più rappresentativi di Berlucchi è sicuramente il Franciacorta DOCG ’61 Nature, di cui abbiamo degustato il millesimo 2017 (sboccatura aprile 2024), un’annata difficile a causa di una gelata primaverile. 70% chardonnay e 30% pinot nero (che sostiene il blend), nasce nei 115 ettari di proprietà vicino a Palazzo Lana ed è caratterizzato da un bel colore dorato, un naso di agrume maturo con note di nocciola e scorza di pompelmo. In bocca è ampio, dotato di un’acidità vibrante con un’ottima corrispondenza naso-bocca per un vino ancora giovane destinato a migliorare nei prossimi anni.

Ambra e Franco Tiraboschi e i Lugana di Cà Lojera raccontati da Nicola Bonera

L’anno è il 1992, il territorio è quello al confine fra Lombardia e Veneto, nelle province di Brescia e Verona, affacciato sul Lago di Garda e contraddistinto da fertili suoli di matrice argillosa che nella fascia più collinare della denominazione si fanno via via più sabbiose. Sebbene la DOC risalga al 1967, i bianchi da uva turbiana non hanno molti estimatori, nemmeno il grande Luigi Veronelli che inizierà ad apprezzare il Lugana solo nel 1998 (per contro, oggi la DOC produce quasi 26 milioni di bottiglie all’anno).

Ambra e il marito Franco Tiraboschi si trovano di fronte a una di quelle scelte che cambiano la vita: sanno benissimo che l’uva destinata a produrre Lugana non è richiesta o comunque è scarsamente pagata, e devono decidere se arrendersi o mettersi in cammino. Scelgono di iniziare un viaggio che donerà loro «una sorta di eterna giovinezza», forse ispirati da un aforisma del filosofo francese Jean-Paul Sartre: «ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere».

Oggi dire Lugana di Cà Lojera significa unire tradizione, paesaggio e attualità per ottenere vini dotati di eterna giovinezza ed elegante capacità di invecchiamento, come dimostra il Lugana Superiore DOC 2002 che abbiamo degustato, un bianco nato in un’annata problematica a causa di una forte grandinata che colpì la zona decimando i vigneti. Brillante, colore dorato. All’olfatto è salato con note leggere di uva sultanina e idrocarburi mentre al gusto emergono una parte piccante e un’altra speziata di zafferano. Un vino che è il prototipo dei Lugana evoluti nel 21° secolo.  

San Leonardo 1724 e il taglio bordolese in Trentino, raccontati da Luisito Perazzo

Una storia plurisecolare, quella di Tenuta San Leonardo, legata a doppio filo alla famiglia Guerrieri Gonzaga, insediatasi dal XVIII secolo in quest’area incastonata nella Valle dell’Adige fra le pendici del Monte Baldo e i Monti Lessini, nel territorio che oggi fa parte del comune di Avio.

Sui terreni appartenuti al monastero dedicato a San Leonardo di Noblac (un abate ed eremita francese vissuto a metà del VI secolo d.C. nonché uno dei santi più venerati nel Medioevo in Europa) si coltivava la vite per produrre vino destinato al consumo interno, ma già nel 1741 il trisnonno dell’attuale marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga, il marchese Oddone, avvia un’attività di vendita del vino prodotto. Bisogna però arrivare sino al 1957 quando il marchese Carlo Guerrieri Gonzaga, padre di Anselmo, dopo gli studi di enologia presso la Station Federal di Losanna, si appassiona al taglio bordolese, tecnica che approfondirà nei suoi soggiorni in Toscana presso la tenuta di San Guido, ospite dell’amico marchese Mario Incisa della Rocchetta. Ritornato in Trentino, il marchese Carlo prende le redini dell’azienda e decide, sono proprio le sue parole, «… di creare vini ben caratterizzati, che siano diretta espressione del territorio e comunichino il nostro spirito e personalità attraverso l’estrema attenzione per ogni particolare, la ricerca tenace della qualità, la meticolosa cura dei vigneti e le pazienti pratiche in cantina».

Oggi, la visione di San Leonardo 1724 è sublimata nel motto «la terra è l’anima del nostro mestiere» e l’azienda, fedele a questo concetto, realizza alcuni fra i più apprezzati taglio bordolese italiani.

Abbiamo degustato il Vigneti delle Dolomiti Rosso IGT Villa Gresti 2010, un raffinato assemblaggio di merlot, cabernet sauvignon e carménère, fermentato naturalmente e dotato di buona vivacità di colore. Naso di sottobosco, bacche e foglie secche, fresco e verticale in bocca. Un rosso che vive una fase di maturità evoluta, ma in grado di offrirsi al meglio ancora per vari anni. 

Lavinio Franceschi e il sangiovese a Montalcino, raccontati da Artur Vaso

Se si pensa alla Toscana enologica, è quasi immediata l’associazione con uno dei rossi toscani più famosi al mondo, il Brunello di Montalcino, e uno dei Brunelli più iconici di questa terra è quello della Tenuta Il Poggione di Sant’Angelo in Colle, località situata circa 10 km a sud-ovest di Montalcino. La Tenuta Il Poggione nasce alla fine del 1800 quando Lavinio Franceschi, imprenditore fiorentino, incuriosito dai racconti di un pastore che portava il bestiame in transumanza nei dintorni di Montalcino, decide di visitare la zona e, innamoratosi dei paesaggi e delle persone che la abitano, acquista dei terreni e fonda la sua azienda agricola, intuendo sin dall’inizio la grande potenzialità e la forza dell’uva sangiovese, che potremmo definire senza dubbio autoctona poiché presente da secoli in quest’area (pur essendo il sangiovese un clone fra il ciliegiolo toscano e il negrodolce, un’antica varietà pugliese). L’azienda, tra le prime a commercializzare il Brunello di Montalcino già dai primi del ‘900, è stata anche uno dei membri fondatori del Consorzio del Brunello di Montalcino.

Il Brunello di Montalcino Riserva DOCG Vigna Paganelli 2015 è figlio delle uve di Vigna Paganelli impiantata nel 1964 in uno dei cru più antichi di Montalcino dove la vite affonda le sue radici in terreni vecchi di 200 milioni di anni. All’olfatto emana sensazioni dolci, balsamiche e terrose con una parte fruttata molto garbata che migliora ancora al palato dimostrandosi un vino pronto e di grande bevibilità, con note di scorza di arancia rossa e un tannino nobile e morbido. Chiude su sentori di arancia sanguinella.

Giorgio Lungarotti e l’affermazione del vino umbro, raccontati da Nicola Bonera   

Nella Media Valle del Tevere l’uva e il vino fanno parte da sempre del paesaggio, delle tradizioni e della cultura delle popolazioni che hanno abitato queste terre, ma in Umbria, come del resto in tutta l’Italia, il passaggio del vino da semplice alimento a “oggetto” di piacere enogastronomico, di studio e di ricerca è storia recente con il 1986 (l’annus horribilis dello scandalo del vino al metanolo) a fare da spartiacque fra il “prima” e il “dopo”.

Come in tante vicende umane, però, ci sono sempre degli uomini che precorrono i loro tempi e hanno la capacità di proiettarsi nel futuro: uno di questi è stato Giorgio Lungarotti che già nel 1949, espositore alla Mostra dell’uva di Perugia, si rende conto della necessità di modernizzare la viticoltura in Umbria. Inizia così, nei primi anni ’50, una fase di sperimentazione che lo spinge a implementare una coltura specializzata e a rimodellare le colline intorno a Torgiano, accorpando vari casali sparsi sul territorio, impiantando nuovi vigneti e operando una scelta oculata dei vitigni autoctoni, fra i quali primeggiano il sangiovese e il canaiolo.

Nel 1962 viene fondata la Cantine Giorgio Lungarotti S.p.A., l’azienda che ha reso noto il nome dell’Umbria e di Torgiano nel mondo e che inizia la sua storia con il vino simbolo, un Torgiano Rosso dal nome avvincente: “Rubesco”, dal latino rubescere, arrossire. Nel 1964 nasce il Rubesco Riserva, il 1968 è l’anno del riconoscimento della DOC (la prima in Umbria) con il Torgiano Rosso e il Torgiano Bianco e nel 1974 compare la prestigiosa dicitura “Vigna Monticchio” sul Torgiano Rosso Riserva Rubesco.

Il Torgiano Rosso Riserva DOCG Rubesco Vigna Monticchio 2009 (100% sangiovese e prima annata prodotta senza l’apporto del canaiolo) è, secondo Nicola Bonera, un vino difficile da spiegare, trattandosi di un rosso che necessita di molto tempo per esprimere al meglio le sue caratteristiche. Nel nostro caso, il millesimo 2009, è un vino complesso ma che non ha ancora raggiunto il suo massimo espressivo (come avrebbe fatto invece un 2005). Offre al naso aromi di mora, liquirizia, radici amare e in generale toni molto scuri anche se si possono avvertire “fra le righe” note di erbe aromatiche. In bocca è un vino “a due velocità”, con un’evidente nota alcolica, un tannino ben presente (tipico del Torgiano) ma leggermente ruvido e che richiederà ancora del tempo per ingentilirsi.

Giacomo Bologna e la rivoluzione della barbera, raccontati da Luisito Perazzo       

Rocchetta Tanaro, un paesino di 1347 anime in provincia di Asti, aggrappato all’orlo delle colline monferrine che scivolano nel Tanaro e oltre diventano pianura di grano e nebbia. Potrebbe essere solamente uno delle migliaia di piccoli comuni sparsi nelle italiche contrade se non fosse che proprio lì, proprio in quel luogo circondato di vigne e boschi, nel 1939, nasce (ed è purtroppo mancato nel 1990) Giacomo Bologna fu Giuseppe (per dirla alla Gianni Brera) detto “Braida”, lo stranòm del padre di Giacomo, appunto Giuseppe, a sua volta mutuato dal nonno, commerciante di cavalli e campione del balòn, il pallone elastico, sport molto in voga in quest’angolo di Piemonte.

Definito come «l’uomo che inventò la barbera», Giacomo Bologna Braida ebbe tante intuizioni e amicizie illustri, da Gianni Rivera a Luigi Veronelli che lo invitò addirittura in una sua trasmissione, «Colazione alle 7», in onda sul primo canale della RAI dal 1973 al 1976. Si deve in gran parte al “Braida” la rivalutazione della Barbera, da vino del popolo a vino di successo internazionale, rivalutazione iniziata nel 1961 in seguito a un litigio con il commerciante che gli ritirava il vino sfuso. Questi offriva al massimo 80 lire al litro e Giacomo Bologna, conoscendo la qualità del suo vino (fra l’altro il 1961 fu una grande annata), ne chiedeva 150. Per tutta risposta, Giacomo Bologna decide così di non vendere più all’ingrosso il suo vino ma di imbottigliare con la propria etichetta tutta la produzione. Nasce così la sua Barbera di Rocchetta Tanaro, “La Monella”, il suo primo successo.

La Barbera d'Asti DOCG Bricco dell'Uccellone 2015, proposto in degustazione, è il “nipote” di quel vino nato nel 1982 quando, in quell’annata eccezionale, Giacomo Bologna inizia a sperimentare la sua idea innovativa di accoppiamento Barbera-barrique: sono i tempi in cui vanno di moda i vini barricati e infatti il nuovo Bricco dell’Uccellone viene approvato dal famoso enologo californiano André Tchelistcheff che ne decreta la fortuna anche a livello internazionale. Il nostro 2015, affinato per 12 mesi in barrique di legno di rovere e altri 12 mesi in bottiglia, è di un rosso rubino intenso, denso e compatto, e regala note dirette di amarena, frutta matura, spezie, bacche e sentori balsamici. Al palato è evidente l’importante acidità tipica della Barbera, accompagnata da un tannino gentile, il tutto per un vino in grado di invecchiare senza problemi.

Nino Negri e il “nebbiolo delle Alpi”, raccontati da Artur Vaso   

Quando vivi in Lombardia (ma non solo) e qualcuno ti parla di “viticoltura eroica”, nella tua mente appare subito l’immagine della Valtellina, con i suoi attuali 995 ettari di vigneti (di cui ben 915 con difficoltà strutturali come altitudine, forte pendenza, terrazzamenti) abbarbicati alla montagna in quote comprese fra i 300 e gli 800 m s.l.m., sorretti da ben 2500 km di muretti a secco ma dove ha trovato un ambiente ideale un vitigno difficile, quel nebbiolo che qui chiamano chiavennasca.

Nel cuore della Vallis Tellina, sulla sponda destra del fiume Adda, scoviamo il piccolo paese di Chiuro, che oggi conta 2440 abitanti, sicuramente molti di più di quanti ne aveva nel 1897 quando Nino Negri, originario di Aprica, in seguito al matrimonio con Amelia Galli decide di spostarsi a Chiuro e di avviare l’attività vitivinicola. La sede della neonata impresa è comunque già prestigiosa, visto che è collocata in un palazzo del ‘400 che il Duca di Milano aveva donato a Stefano Quadrio, valente soldato e capitano delle sue milizie, attribuendogli contestualmente il titolo di Governatore della Valtellina.

Nel 1925 la ditta viene registrata ufficialmente alla Camera di Commercio di Sondrio e fra gli anni ’50 e ’60 passa dai 5-6 dipendenti del periodo anteguerra a oltre trenta, ai quali si aggiungono i lavoratori stagionali nella fase di vendemmia. Negli anni ’60 l’azienda, dapprima ceduta al gruppo svizzero Winefood, che non fu in grado valorizzarla in modo adeguato, passa successivamente, nel 1985, al Gruppo Italiano Vini. A partire dai primi anni 2000 la cantina fondata da Nino Negri diventa il fiore all'occhiello del GIV, anche grazie al lavoro dell’enologo Casimiro Maule (Enologo dell’Anno nel 2007), in carica fino al 2017, e poi di Danilo Drocco, manager ed enologo di grande esperienza dell’universo nebbiolo.

Attualmente la Nino Negri-Gruppo Italiano Vini lavora 33 ettari di vigneti, gestisce 200 conferitori e produce circa 850.000 bottiglie l’anno, fra le quali lo Sforzato di Valtellina DOCG 5 Stelle Sfursat 2017 che abbiamo degustato: lo Sfursat è un chiavennasca in purezza che mostra subito la sua origine montanara e valtellinese, una struttura e un corpo importanti, profumi complessi e ampi di rabarbaro, ciliegia, marasca, corteccia. In bocca è pieno, vivo e vigoroso, con note di sottobosco, un fondo di cenere e un ritorno leggermente dolce in chiusura.

Giacomo Oddero e il Barolo, raccontati da Nicola Bonera

“Vino dei re e re dei vini” è probabilmente la definizione più conosciuta di uno dei vini italiani famoso nei quattro angoli del pianeta (perlomeno fra chi ama il vino o di chi vuole semplicemente fare colpo su qualcuno con una bottiglia prestigiosa). E uno degli artefici dell’ascesa del Barolo nell’olimpo dei grandi rossi è stato senza dubbio Giacomo Oddero, nato nel 1926 e nipote del primo Giacomo di famiglia, da cui ereditò il nome. Rinnovatore dell’azienda già negli anni ’50, uomo eclettico e di vasti interessi, ricoprì anche molti incarichi pubblici e amministrativi: come assessore provinciale all’Agricoltura firmò gli storici disciplinari che concessero ai vini di Langhe e Roero la DOC e poi la DOCG, nonché moltissime regolamentazioni di quasi tutti i prodotti agricoli, dai formaggi alla nocciola di Langa, fino agli ortaggi di pianura. Nel 1997 diede vita al Centro Nazionale Studi sul Tartufo d’Alba, oggi il principale centro italiano per lo studio e la promozione del «Re dei funghi», il celebre Tuber Magnatum Pico. Di sé stesso diceva: «ho passato la vita a coltivare la vite e a difendere la qualità del vino italiano e delle colline dove viene prodotto. La qualità è stata vincente. Abbiamo vinto tutti insieme e in tanti».

Oggi la Poderi e Cantine Oddero coltiva 35 ettari dei migliori cru delle Langhe e dell’Astigiano; nei 16,5 ettari coltivati a nebbiolo insistono alcune fra le più importanti MGA (“Menzioni Geografiche Aggiuntive” ovvero aree geografiche di particolare pregio per la coltivazione, in questo caso, del nebbiolo) delle Langhe, fra le quali spicca l’MGA Bussia, 1,1 ettari nel comune di Monforte d’Alba e terreno della vigna Mondoca. Nato sul suolo Miocenico-Elveziano di questa MGA, il Barolo Bussia DOCG Vigna Mondoca Riserva del 2009 che abbiamo degustato è stato vendemmiato in un’annata critica. Questo Barolo si rivela un vino “cioccolatoso”, balsamico al naso, con un gusto che richiama l’amaretto mentre il tannino è delicato e “massaggia” il palato.

La nobiltà, famigliare ed enologica, di Duca di Salaparuta, raccontata da Luisito Perazzo

Una storia lunga 200 anni che inizia nel 1824 quando Don Giuseppe Alliata, Principe di Villafranca e Duca di Salaparuta, appassionato cultore del buon vino, decide di vinificare in proprio le uve provenienti dai suoi possedimenti a Casteldaccia, in provincia di Palermo. Fra il 1898 ed il 1930 il Duca Enrico promuove i vini dell’azienda anche all’estero, ottenendo numerosi riconoscimenti che concorrono ad aumentare la notorietà di Duca di Salaparuta. Nel 1946 la guida dell’azienda è in mano a Donna Topazia Alliata di Villafranca, figlia di Enrico e madre della famosa scrittrice Dacia Maraini: Donna Topazia è una pittrice e gallerista, ma quando prende le redini dell’impresa di famiglia affronta la sfida con piglio e capacità imprenditoriali. Un anno importante nella storia dell’azienda è il 1984: con il contributo fondamentale dell’enologo Franco Giacosa, viene vinificato per la prima volta il nero d’Avola in purezza inaugurando una nuova era dell’enologia siciliana. Oggi il gruppo Duca di Salaparuta riunisce tre brand storici, che rappresentano la Sicilia e l'Italia nel mondo: Corvo, Duca di Salaparuta e Florio. Nel 2003, dalla collaborazione con l’enologo Giacomo Tachis, inizia una nuova sfida enoica sull’Etna che vede come protagonista il pinot nero.

Il Sicilia IGT Duca Enrico 1987 (in degustazione l’annata 1996) prende vita nei 127 ettari di vigne di nero d’Avola situate nella Tenuta di Suor Marchesa a Riesi, nel centro della Sicilia e precisamente nel cosiddetto “libero consorzio comunale” di Caltanissetta. Vinificazione in acciaio e dieci giorni di macerazione sulle bucce, riduzione malolattica in vasche di cemento, affinamento in barrique di rovere nuove e di secondo passaggio per 14-18 mesi e infine riposo in bottiglia per almeno un anno prima della commercializzazione apportano a questo rosso aromi di mentolo, erbe aromatiche accompagnate da note agrumate di arancia rossa e spezie, frutto dell’affinamento in barrique. In bocca sentiamo una buona freschezza, un tannino ben definito e avvolgente e anche se il finale non evidenzia una particolare lunghezza è comunque un vino che ben si abbina a carni rosse alla griglia, brasati e selvaggina e anche formaggi di media e lunga stagionatura.

Annamaria Clementi e Ca’ del Bosco, degustazione condotta da Cristian Russomanno

Un compleanno, soprattutto se importante come quello dei 60 anni dell’AIS, deve essere festeggiato “come si deve” e, nel nostro caso, non possiamo che brindare con uno spumante italiano! E AIS Lombardia lo fa alla grande offrendo a sorpresa, ai partecipanti della serata, un “Signor” Metodo Classico, il Franciacorta Riserva DOCG Annamaria Clementi 2015 di Ca' del Bosco, il vino dedicato alla madre di Maurizio Zanella (fondatore e presidente dell’azienda), un nettare che nasce dal meglio delle uve selezionate nei vari cru e solo nelle annate migliori.

La storia di Ca’ del Bosco, analogamente a quella dei protagonisti dell’enologia italiana che abbiamo omaggiato questa sera, è fatta di idee, intuizioni, progetti che all’inizio sembrano solo sogni e visioni ma poi, dopo tanto lavoro e tanta fatica, diventano splendide realtà: anche Ca’ del Bosco inizia così, nel 1964, quando Annamaria Clementi Zanella acquista “Ca’ del Bosc”, una piccola casa in collina a Erbusco con due ettari di proprietà immersi in un fitto bosco di querce e castagni. Nel 1968 il fattore di Ca’ del Bosco, Antonio Gandossi, pianta le prime barbatelle e nel 1972 viene prodotto il primo vino dell’azienda, il Pinot di Franciacorta Bianco, seguito nel 1975 dal primo rosso, il Rosso di Franciacorta. Il 1978 è l’anno di nascita dei primi tre Spumanti (la vendemmia è del 1976), il Pinot di Franciacorta Brut, il Pinot di Franciacorta Dosage Zéro e il Pinot di Franciacorta Rosé; l’anno successivo è quello del primo millesimato, denominato Franciacorta Millesimato, che nel 1989 prende il nome di Cuvée Annamaria Clementi Riserva per consolidarsi poi nel 2008 solo come Annamaria Clementi e diventando, nel 2017, anche Dosage Zéro per esaltarne purezza e integrità.

Il nostro Franciacorta Riserva DOCG Annamaria Clementi 2015 è una cuvée creata da Stefano Capelli, enologo di Ca’ del Bosco dal 1990, come assemblaggio di chardonnay (82%), pinot nero (15%) e pinot bianco (3%); è un Pas Dosé che si presenta con un colore vivace, una freschezza graffiante e un naso complesso e articolato di nocciola, aromi di panificazione, agrume candito e caramella al limone. Al palato è sapido e agrumato, elegante e di grande persistenza.