La Champagne dei vitigni rari. Riscoperta di un patrimonio dimenticato

La Champagne dei vitigni rari. Riscoperta di un patrimonio dimenticato

Approfondimento Francia
di Samuel Cogliati Gorlier
03 gennaio 2025

Pinot bianco, fromenteau, petit meslier e arbane oggi rappresentano una quota infinitesimale nel vigneto della Champagne, ma non sempre è stato così. Chi sono, quanto e perché stanno aumentando

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 27 Novembre 2024

In Francia li chiamano “cépages rares” o “cépages oubliés”. Entrambe le definizioni calzano a pennello, perché questi vitigni sono statisticamente assai poco diffusi e di certo sono stati relegati nell’oblio per lungo tempo. Non inganniamoci, però: le cultivar rare della Champagne non sono una trovata di marketing del XXI secolo, né un’eccezione insignificante. Al contrario, hanno radici ben piantate nella storia della regione più spumeggiante del mondo, e una concreta rilevanza qualitativa. Vediamo come e perché.

UNA RISERVA INDIANA AMPELOGRAFICA
Sappiamo tutti che lo Champagne si ottiene da un “trittico delle meraviglie”: pinot noir, chardonnay e meunier. Pochi sanno però che altre varietà di vite sono esplicitamente ammesse dalla normativa. L’unica di queste uve che ha una minima rilevanza statistica è il pinot blanc. Le altre tre sono invece ridotte a superfici a due o una sola cifra. Definirle rare è dunque appropriato, anche se non sono sempre state così infrequenti in passato. Il pinot bianco, in particolare, un tempo era assai diffuso (e volentieri confuso con lo chardonnay). Sommati, questi quattro moschettieri dell’originalità rappresentano oggi appena 158 ettari complessivi, ossia circa lo 0,4% di tutta la superficie vitata della Champagne.

UN PASSATO LONTANO
La legge del 22 luglio 1927 fissò i paletti di ciò che nove anni più tardi divenne ufficialmente l’appellation d’origine contrôlée Champagne. L’articolo 5 della legge recita: «Le uniche uve idonee alla champagnisation sono quelle ottenute dai vitigni seguenti: le diverse varietà di pinot, l’arbanne, il petit meslier». Colpisce l’assenza dello chardonnay, ma non è un lapsus: a quel tempo questa cultivar era considerata a tutti gli effetti appartenente alla famiglia dei pinot, tanto che nei decenni successivi si riscontrerà ancora frequentemente l’espressione pinot-chardonnay anche nei testi ufficiali1. È invece interessante notare che l’arbane (scritta arbanne) e il petit meslier siano citati in modo esplicito. Nella locuzione «diverse varietà di pinot» va poi sottesa la presenza, oltre che del pinot noir (“pinot” per antonomasia) e del pinot meunier, anche del pinot bianco e del pinot grigio, tutte mutazioni genetiche del capostipite. Il testo di quasi un secolo fa, nel suo intento normativo, non faceva altro che constatare una situazione di fatto, registrando la presenza di una eterogeneità ampelografica di altra portata rispetto a quella attuale. Attenzione però: arbane, pinot gris, pinot blanc e petit meslier non erano ritenuti una bizzarria da tollerare, bensì parte della nobiltà viticola della Champagne. Nessun complesso d’inferiorità al cospetto del pinot nero o dello chardonnay! Viceversa, quella stessa legge metteva all’indice il gamay, nonché «altri vitigni francesi» (ossia non ibridi2), intimando ai viticoltori di espiantarli entro diciotto anni. Allora perché queste uve “rare” si sono eclissate al punto da finire nell’oblio? Ognuna di esse ha una propria vicenda e le proprie motivazioni.

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IL PINOT BLANC
Localmente detto anche blanc vrai, il pinot bianco era un tempo molto diffuso tra i colli della Champagne. Nello specifico, era legato soprattutto a tre areali: la zona di Barsur- Seine (dov’è tuttora abbastanza reperibile, specie nel comune di Celles-sur-Ource), il Vitryat (enclave marginale, vicina a Châlons-en-Champagne) e, pensate un po’... la Côte des Blancs, dove a fine Ottocento c’era probabilmente tanto pinot blanc quanto chardonnay (o quanto meno una certa confusione tra i due)! Come mai è dunque oggi ridotto a soli 119 ettari? Molto prolifico, se non viene imbrigliato rischia di dare rese sovrabbondanti e dunque non necessariamente di qualità. È uno dei motivi per cui ad esempio in Alsazia è rimasto al centro di una logica produttivistica, quanto meno per i vini di consumo corrente e per la spumantistica di basso rango. Inoltre, la sua curva di maturazione è in genere imprevedibile e improvvisa, come subitanea può rivelarsi la sua marcescenza. Infine, si dimostra non sempre adatto ad alcuni terroir, nonché inaffidabile quanto ai livelli di acidità fissa (considerata cruciale dalla spumantistica), che può crollare senza preavviso. Si tratta di un handicap evidente, in tempi di surriscaldamento globale. Il pinot blanc è però dotato di una certa originalità gusto- olfattiva: dà vita a vini teneri, sfumati, delicati, pieni di garbo. Si presta quindi piuttosto bene ai pas dosé, ad esempio. Senza contare che ha una certa capacità di resilienza alle gelate primaverili, poiché le gemme di controcchio sono fruttifere, diversamente da altre varietà. Con lo stravolgimento climatico odierno, è un vantaggio tutt’altro che irrilevante.

IL FROMENTEAU
Fromenteau è il nome dato al pinot grigio in Champagne, talvolta chiamato anche enfumé. Tra le varietà rare è considerata dagli champenois quella meno adatta ai nostri tempi. Tende infatti a produrre pH elevati e ad accumulare ingenti quantità di zuccheri. Il rischio è di ritrovarsi con spumanti da 13 o addirittura 14 gradi alcolici, il che non è esattamente la priorità di maison e vigneron. Chi lo utilizza ne fa perlopiù un impiego ragionato, in assemblaggio con altre varietà (come nel caso dei fratelli Aubry, di Érick Schreiber, Laherte Frères o Olivier Horiot). Eppure il fromenteau sa regalare sensazioni di grande pienezza, maturità e generosità sia aromatiche sia gustative. Quando trova un terroir adatto alle sue caratteristiche (calcareo, ben drenato e asciutto) e un vignaiolo appassionato e molto attento, anche usato come monovitigno riesce a consegnare bottiglie dotate di eleganza e carattere. Peraltro, grazie alla sua naturale capacità di concentrazione degli zuccheri, è più idoneo di altre uve a sopportare la diluizione delle rese elevate. Infine, come il pinot blanc, si riprende abbastanza bene dopo le gelate. C’è dunque motivo di sperare che gli attuali 11 ettari vitati possano crescere, se non forse ritrovare i fasti di secoli addietro, quando rivaleggiava per diffusione e quotazioni con il pinot nero.

PETIT MESLIER E ARBANE
Affrontiamo assieme questi due vitigni perché hanno vari punti in comune. Innanzi tutto sono tipicamente champenois. Diversamente dai due precedenti, si trovano infatti solo in Champagne. L’arbane è probabilmente originaria dell’Aube, il petit meslier è legato alla Valle della Marna. In secondo luogo, denunciano entrambi una netta propensione per le basse o bassissime rese. Difficile ottenere da queste due cultivar più di 40 o 50 ettolitri/ettaro. La ragione? La sensibilità all’acinellatura, una naturale scarsa produttività e le dimensioni degli acini, davvero contenute. Questo stesso limite ha tuttavia il vantaggio di sbilanciare il rapporto polpa/buccia a favore della buccia, consegnando mosti concentrati e profumati. Petit meslier e arbane sono tuttavia di maturazione più tardiva delle altre uve locali, e dunque più rischiosi da attendere a fine estate: assieme alla modesta redditività è probabilmente questo il motivo della loro sfortuna novecentesca. Il ciclo vegetativo più lungo di altre uve li espone a maggiori e più frequenti rischi meteorologici. Inoltre, nonostante diano poco mosto, non si accontentano di giaciture mediocri ma esigono buoni terroir ed esposizioni favorevoli. Occorre essere davvero motivati per puntare su di loro. Oggi però che il clima è cambiato e gli autunni sono assai più miti, la tendenza potrebbe in parte invertirsi. Anche perché entrambe queste cultivar sono dotate di spiccata acidità, una risorsa sempre più rara (e apprezzata) nella Champagne del XXI secolo. Le loro qualità basteranno a farli espandere? I dati lasciano filtrare un timido ottimismo, ma il petit meslier conta ancora solo 17 ettari e l’arbane appena 7, il che ne fa il vitigno più raro della regione! Tenaci, taglienti, intensi, originali e aromaticamente talora un poco fumé, questi due vitigni hanno le armi giuste per posizionarsi nella fascia di vini di alta qualità.

CHE COSA DOBBIAMO ASPETTARCI?
I dati parlano chiaro. Nella Champagne del nuovo millennio i vitigni rari stanno registrando una lentissima ma costante rinascita. Al ritmo di solo una manciata di ettari ogni anno – complice anche la difficoltà dei vivai a rispondere a una domanda eccedente –, le nostre quattro uve si stanno gradualmente espandendo. Se raffrontiamo i dati del 2021 con quelli del 2023, il totale fa segnare un +21% in due anni, anche se ovviamente ancora su numeri esigui: da 130 a 158 ettari. Come si spiega questa riscoperta, se per decenni sono stati relegati ai margini della produzione? I buoni motivi non mancano. Innanzitutto apportano una quota di originalità espressiva nella stilistica dei vini che ben risponde alla richiesta di vitigni autoctoni, anche in Francia. La soave tenerezza del pinot blanc, la mordace tensione e l’esuberanza aromatica del petit meslier, il piglio tagliente dell’arbane, l’opulenza del fromenteau sono dati gustativi innovativi, che ampliano la gamma delle sensazioni organolettiche a disposizione degli appassionati di Champagne. In secondo luogo, come abbiamo visto, alcuni di loro sono funzionali ai mutamenti climatici. Ultimo ma non ultimo, accrescono la biodiversità locale, che in Champagne era stata pesantemente appiattita dopo la fillossera. Si può quindi essere tiepidamente ottimisti (oltre che sostenitori) sullo sviluppo di queste varietà tra Reims, Épernay e Bar-sur-Seine, nei prossimi anni. ◆

Il voltis

Per dovere di cronaca va precisato che i vitigni autorizzati dalla normativa dell’Aop Champagne non sono sette bensì otto. A partire dal 2023, infatti, è stata ufficialmente introdotta una nuova varietà bianca: il Voltis. Nuovo il Voltis lo è a tutti gli effetti: non solo perché prima non era previsto dal disciplinare, ma anche perché si tratta di una cultivar creata appositamente. Il Voltis è un ibrido interspecifico, frutto dell’incrocio tra il Villaris e un discendente della Muscadinia rotundifolia. A metterlo a punto già nel 2018, l’Inrae (Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement), un organismo pubblico francese. L’obiettivo dichiarato è far fronte al mutamento climatico e disporre di un vitigno resistente alle principali malattie della vite. In effetti il Voltis è stato pensato innanzitutto per quelle aree “periurbane”, ossia le vigne a ridosso delle abitazioni, che si intende preservare dai fenomeni di deriva dei trattamenti fitosanitari: rame, zolfo e soprattutto pesticidi di sintesi. Questo nuovo vitigno è stato autorizzato per un periodo di prova di dieci anni, ma è plausibile che sia confermato e che anzi sia solo il primo di un elenco di altri vitigni resistenti in lizza. Al momento la sua diffusione è limitata per legge al 5% massimo della superficie di ogni azienda e al 10% massimo dell’assemblaggio di ogni vino. Nel corso del 2023 ne sono stati piantati in tutto 4 ettari, quasi tutti nella Marne. A partire dal 2025 dovrebbero uscire i primi Champagne che ne contengono una quota.

Alcuni esempi virtuosi

Il relativo successo che stanno riscuotendo i vitigni rari fa sì che il panorama dei vini che li impiegano sia in continua evoluzione. Di seguito una piccola miscellanea di bottiglie interessanti

Tra i pionieri assoluti dei vitigni dimenticati vanno annoverati di diritto i fratelli Aubry a Jouy-lès- Reims, nella Petite Montagne de Reims. Già dai primi anni Novanta Pierre e Philippe si riproposero di reintrodurre fromenteau, arbane, pinot blanc, petit meslier. Tra le loro bottiglie emblematiche in questo senso, “Le Nombre d’Or” (7 vitigni) e la sua variante “Sablé blanc de blancs”, Champagne di qualità anche se non sempre del tutto convincenti.

Laherte Frères, a Chavot-Courcourt (Coteau Sud d’Épernay) è stata tra le prime aziende a riscuotere un meritato successo, con la sua etichetta “Les 7”, che come indica il nome contiene tutte le varietà storiche. È una bottiglia di razza e carattere, prodotta con metodo solera. Da qualche anno si è aggiunta la cuvée “Petit Meslier”, che onora l’omonimo vitigno grazie a uno vino freschissimo e tagliente, raffinato ed equilibrato. Da notare anche l’assemblaggio “Meslier et Pinot”.

Molto apprezzabile la cuvée “BAM” del domaine Tarlant di OEuilly, Vallée de la Marne. L’acronimo riflette i tre vitigni utilizzati: (pinot) Blanc, Arbane, (petit) Meslier. Questo Champagne Brut Nature sfodera tensione acida e forza espressiva. Merita di invecchiare qualche tempo dopo la sboccatura.

Altro domaine che ha sempre riconosciuto importanza ai vitigni rari è Olivier Horiot, con base ai Riceys (nel sud dell’Aube). Le sue versioni “5 Sens” e “Soléra” hanno deliberatamente fatto leva sull’assemblaggio e sulla complementarità tra cultivar differenti, piantate nello stesso vigneto. Sono entrambi Champagne non dosati, netti, fini, espressivi, dritti. Appena meno convincente, ma comunque meritevole, l’etichetta “Arbane”, prodotta al 100% con questa varietà. Di recente Horiot ha anche iniziato a proporre altre etichette da monovitigno.

A mettere in luce il petit meslier ci pensa anche, da qualche anno, il domaine Elemart Robion (di Lhéry, nella Vallée de l’Ardre). Questo Champagne monovarietale ha energia da vendere, precisione e densità gustativa. Un’azienda da seguire con attenzione.

Sempre sul petit meslier ha scommesso il giovane Étienne Calsac di Avize (Côte des Blancs), che va però a pescare in un vigneto del Sézannais il meslier e il pinot bianco poi assemblati con poca arbane nella sua cuvée “Les Revenants”. Si tratta di un vino pieno e maturo, cremoso e molto dinamico. Consigliatissimo.

Paladini del pinot bianco sono invece, nella Côte des Bar, Colette Bonnet, il domaine Pierre Gerbais, e Étienne Sandrin (questi ultimi due di Celles-sur-Ource, mentre le uve di Bonnet provengono essenzialmente da Noé-les- Mallets). A tutti e tre riesce di dimostrare che questa cultivar è tutt’altro che priva di interesse. I vini sono originali e precisi; vinosi quelli di Bonnet, morbidi quelli di Gerbais, asciuttissimi quelli di Sandrin. Ottimi anche gli Champagne di Cédric Bouchard (Roses de Jeanne, anch’esso a Celles-sur-Ource), purtroppo ormai divenuti introvabili e molto onerosi.

Tra gli interpreti principali del fromenteau bisogna citare la maison Drappier, a Urville, e l’azienda Fleury di Courteron (ambedue dell’Aube). I rispettivi champagne “Trop m’en faut !” e “Variation”, entrambi millesimati, portano in dote la ricchezza del pinot gris, coniugata con la complessità, una vera definizione di aromi e di gusto, nonché un sorso tonico quanto basta. Peraltro Fleury produce anche una convincente versione 100% pinot blanc, denominata “Notes Blanches”, pura e cristallina.