Il ritorno del completer: un’epica valdostana

Degustando
di Monica Berno
09 ottobre 2025
Ci sono vini che raccontano un’annata. Altri che raccontano una terra. E poi ci sono vini che raccontano un ritorno. Non quello dell’ennesimo vitigno da riscoprire, ma il ritorno di una voce che sembrava spenta e che invece sussurra ancora tra i venti e i graniti della montagna.
«Mio padre ha guardato il bicchiere, ha fatto un sorso, e ha detto: “svizzero.” Non il vino, il vitigno».
Così Henri Anselmet, figlio di Giorgio e oggi voce e volto della nuova generazione della Maison Anselmet e titolare de La Plantze, racconta l’inizio di una storia che ha il passo e l’aura delle leggende alpine.
È il 2007 quando Giorgio Anselmet, tra i più noti e rispettati viticoltori della Valle d’Aosta, viene invitato nel Vallese a una degustazione alla cieca. A organizzare l’incontro è José Vouillamoz, celebre genetista svizzero che ha dedicato la vita allo studio dell’origine e della parentela dei vitigni alpini, un uomo che parla il linguaggio segreto delle vigne, un rabdomante del DNA.
Fra i calici allineati, uno in particolare colpisce Giorgio. È un bianco austero ma luminoso, dotato di una freschezza che inganna il tempo. Gli viene chiesto di indovinare zona d’origine e annata. «Sicuramente svizzero», risponde Giorgio senza esitazione. Ma il vitigno? Silenzio. Ne elenca molti, quasi tutti i varietali conosciuti nei Grigioni e nel Vallese, senza successo. Finché José non svela il mistero: «completer». E l’età? Dodici anni! Una rivelazione: un bianco alpino che, pur vinificato in legno, dopo oltre un decennio conserva ancora una vivida acidità, una vitalità cristallina, quasi minerale. Per Giorgio Anselmet, che da sempre crede nella forza espressiva del territorio valdostano, è un colpo di fulmine. Da quel momento, il seme – metaforico e non – è piantato.
Ci vorranno però tredici anni perché quel vitigno sconosciuto alla maggior parte dei vignaioli italiani metta fisicamente radici in Valle d’Aosta. Barbatelle rare, concesse direttamente da Vouillamoz come gesto di fiducia e di amicizia, vengono impiantate nel 2020. Non si tratta di un vigneto esteso, ma di un piccolo filare sperimentale: appena 500 piante. Un laboratorio naturale che però racchiude tutta la forza di un gesto simbolico. Il ritorno di un vitigno che, seppur non autoctono valdostano, probabilmente aveva attraversato l’arco alpino nel medioevo grazie ai monaci benedettini, migrando dal Trentino ai Grigioni, e ora tornava – forse per la prima volta – a confrontarsi con un suolo italiano.
Il suo nome deriva dal termine latino completōrium (o completa), che indicava l’ultima preghiera della giornata nel rito monastico, la compieta. Nella zona di Coira, i monaci benedettini del capitolo della cattedrale di Chur avevano l’usanza di consumare un bicchiere di vino in silenzio proprio dopo questa preghiera serale, come ristoro e chiusura simbolica del giorno. Il vino prodotto da questo vitigno, grazie alla sua struttura e alla sua acidità, si prestava perfettamente a questo rituale. La prima menzione documentata del completer risale al 1321 a Malans, ma si ritiene che fosse coltivato fin dal X secolo, probabilmente già attorno al 926. Il suo nome non è dunque solo una designazione varietale: è un’eredità spirituale e culturale, un gesto rituale che affonda le radici nei climi alpini e nelle stanze silenziose dei monasteri medievali.
Dal vigneto alla barrique
Henri si occupa di piantare il completer e sceglie un terreno che è un’anomalia geologica per la zona di Villeneuve: una parcella sabbiosa con forti componenti granitiche, situata a 780 metri di altitudine. Una fascia ben ventilata, con escursioni termiche importanti e una generale assenza di ristagni d’umidità. Ed è proprio qui, in queste condizioni, che il vitigno ha mostrato il meglio di sé. «In Svizzera soffre di botrite e altre malattie fungine», spiega Henri, «ma da noi non ha avuto problemi nemmeno nell’annata 2023, che per molti è stata disastrosa. Semplicemente, ha trovato il suo equilibrio».
La prima vera produzione risale al 2023, con due barrique e circa 450 litri, dopo l’esperimento microvinificato dell’anno precedente – 80 bottiglie, tutte rigorosamente testate in famiglia. Henri ha scelto di vinificare il completer con lo stesso rispetto che riserva allo chardonnay: vendemmia manuale a piena maturazione, pressatura diretta con grappoli interi, decantazione statica a freddo per due giorni, poi via, subito in barrique nuove.
«Barrique di rovere francese con tostatura leggera, fornite dalla Tonnelerie François Frères, studiate proprio per permettere al frutto di restare in primo piano e dare tensione minerale», racconta. «L’uso dei lieviti selezionati è mirato e rispettoso: scelgo ceppi neutri, che non interferiscano con l’identità del vitigno. Il completer, essendo naturalmente poco aromatico, ha bisogno solo di un accompagnamento discreto, soprattutto perché la fermentazione in barrique non consente un controllo preciso della temperatura. Dopo la fermentazione alcolica e la malolattica, il vino riposa in legno per un anno, quindi viene filtrato in modo sterile (si utilizza un filtro con pori di dimensione inferiore a 0,45 micron, così piccoli da impedire il passaggio anche dei microorganismi più minuti) – ma solo per cautela, dato che si tratta del primo millesimo realmente commercializzato».
Il risultato è un bianco dal profilo nobile, essenziale, verticale. Il colore è un giallo paglierino con riflessi dorati, la bocca vibra di freschezza, ma la struttura è ampia, articolata. Le note olfattive richiamano la frutta gialla disidratata, il fieno, le erbe alpine, con un sottofondo minerale che richiama il suolo da cui proviene. L’equilibrio tra acidità e corpo è sorprendente, soprattutto se si pensa alla sua capacità di invecchiamento: «Abbiamo già messo da parte qualche bottiglia per vedere come evolverà. Il primo esperimento del 2022 è rimasto un anno in bottiglia prima dell’assaggio. È vivo, ma ancora giovane, se si pensa che il potenziale di invecchiamento è di 10-15 anni».
La natura del completer lo rende, nelle parole di Henri «un vino che non deve piacere subito. Non si concede con facilità, non è un bianco fruttato o ammiccante. Ma lascia un segno». La buccia spessa, il grappolo compatto, la polpa tendente al giallo, la maturazione tra lo chardonnay e il sauvignon: tutto contribuisce a creare un’identità unica. E se è vero che non si tratta di un vitigno valdostano in senso stretto, è altrettanto vero che questo vino racconta la montagna con onestà e precisione. Un messaggio in bottiglia, partito secoli fa dal cuore dell’arco alpino, scomparso per generazioni e finalmente tornato a casa.
Al momento, la Maison Anselmet è l’unica realtà valdostana a produrre il completer in questo modo. Forse altri seguiranno, forse resterà un unicum. Ma è difficile immaginare una cornice più adatta, un progetto più coerente, una storia più bella. In un’epoca in cui la riscoperta dei vitigni dimenticati si scontra spesso con mode effimere e derive commerciali, qui siamo di fronte a qualcosa di diverso. A un atto d’amore. A un gesto agricolo e culturale, che unisce memoria, competenza e visione.
Henri sorseggia il vino con attenzione. Lo guarda nel bicchiere, come fece suo padre nel 2007. Forse sta già immaginando il Completer 2035. O forse semplicemente sorride, perché sa di aver rimesso in moto una storia che sembrava perduta