Angela Velenosi. Orgogliosamente market-oriented

Angela Velenosi. Orgogliosamente market-oriented

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
02 luglio 2023

Una cantina diventata un punto di riferimento per la viticoltura marchigiana e una donna al timone, ostinatamente determinata a portare avanti un progetto che ha acceso i riflettori su un territorio di frontiera come il Piceno

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 24 Maggio 2023

Le interviste ai vincitori del Premio Enozioni a Milano 2023 

«La nostra è una storia molto bella perché veniamo da un territorio dove, 40 anni fa, si partiva praticamente da zero». Siamo nel 1984 e una giovane liceale e un ragioniere, senza essere figli d’arte nel mondo del vino, decidono di affittare 5 ettari di solo sangiovese e trebbiano, sulle colline che guardano Ascoli Piceno. «Io ed Ercole eravamo neofiti, ma ci siamo posti con umiltà e ci siamo detti: vogliamo fare bene». L’orgoglio di Angiolina Piotti Velenosi, per chiunque semplicemente Angela Velenosi, mentre ci racconta la sua storia nella storica sede di via dei Biancospini al civico11, traspare immediatamente, appena ci sediamo con un calice di bollicine in mano e delle olive ascolane fatte in casa che rimarranno per poco tempo davanti a noi durante il lungo incontro che ha voluto condividere con noi. Una chiacchierata senza troppi giri di parole o cortesie di facciata. Schietta e sincera. Come è d’altronde il carattere di questa produttrice che ha il merito di aver portato il Piceno in giro per il mondo. Determinata, battagliera, dotata di una buona dose di naturale "tigna” che non la fa arretrare di un millimetro quando ha un obiettivo da raggiungere, conduce insieme ad Ercole e i figli Marianna e Matteo un’azienda famigliare da 2,4 milioni di bottiglie che vengono esportate in 53 paesi nel mondo, con 35 collaboratori e quasi 150 agenti. «Sono la mia famiglia, alcuni di loro hanno creduto in me quando non ero nessuno».

Come vi hanno accolto quando avete iniziato?
Sicuramente con il sorriso.

In che senso?
Ci chiamiamo Velenosi! [ride]. Immagina alle prime fiere quando i visitatori vedevano uno stand di produttori di vino che si chiamava “Velenosi”.

Un inizio in salita mi sa
Sì. Io per anni mi sono sentita come Forrest Gump, che non sa il perché, ma corre, corre e corre ancora.

Quando avete iniziato avevate solo sangiovese e trebbiano
La viticoltura era vista come quantità, bisognava remunerare il contadino e basta. C’erano 9 cantine sociali che facevano soprattutto vini da taglio e stoccaggio. C’erano timidi tentativi da parte di altri produttori di fare qualcosa di diverso, come ad esempio Villa Pigna di Costantino Rozzi.

Quindi non avevate in quegli anni il culto del territorio?
No. C’è stata una fase, direi dall’85 al ’92, nella quale abbiamo rinnegato il territorio e abbiamo cominciato a piantare sauvignon blanc, merlot, cabernet, ma anche molto montepulciano. Cercavamo di dimostrare che questo territorio, troppo legato a trebbiano e sangiovese, avrebbe potuto fare qualcosa di più perché c’erano le caratteristiche per poter fare meglio. Perché noi non potevano fare lo chardonnay? Con il trebbiano non andavi da nessuna parte a quel tempo. C’era solo Valentini in Abruzzo, che però era ed è un mondo a parte.

Il primo successo arriva con il …?
Brecciarolo, il nostro Rosso Piceno Superiore. Il nostro cavallo di battaglia. Certo anche sauvignon blanc e müller thurgau, nonché lo chardonnay, ci hanno dato grandi soddisfazioni. Ma poi abbiamo perso l’interesse perché abbiamo scoperto la bellezza del pecorino e la duttilità della passerina e ci siamo indirizzati verso quella strada. Non abbiamo mai abbandonato, invece, merlot, cabernet e montepulciano, mentre abbiamo poco sangiovese, solo perché ne abbiamo necessità per il disciplinare.

Come mai?
Noi abbiamo un vitigno preziosissimo: il montepulciano. È un vitigno straordinario che qui trova la sua ragion d’essere. L’ultima modifica del disciplinare ha avvantaggiato la sua presenza e quindi noi nel Rosso Piceno facciamo un taglio utilizzandolo fino al 70%. E poi il montepulciano va incontro a un’esigenza di mercato.

Quale?
Ha una personalità netta ed è quindi nelle corde del mercato, delle nuove generazioni e anche di nuovi mercati che stiamo esplorando.

Quali?
I mercati asiatici, ad esempio, che non vogliono leggerezza, ma profondità, lo “strong”, o vini “full bodied”. Noi dobbiamo andare verso questo, perché ricordati che noi siamo un’azienda market-oriented.

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Lo dici con orgoglio, immagino tu sappia che è un’affermazione negativa per buona parte della critica italiana
Lo so. Ma noi siamo così e lo sottoscrivo. Amo la campagna e gli investimenti li facciamo tutti lì. Ma quando produciamo un vino lo facciamo sapendo che deve raggiungere dei mercati. Non faccio il vino perché deve piacere solo a me. Anche a me. Io gioco in un campionato dove devo guardare molte sfaccettature.

Hai sempre ragionato così?
Sì. Noi non siamo partiti sapendo cosa fare. Avevo voglia di fare bene, ma dove sarei arrivata lo vivevo ogni giorno. Se io nel 1985 piantavo il sauvignon blanc è perché avevo l’idea dell’internazionalizzazione. Io volevo andare in Germania e in Svizzera e ci riuscii con quei vini. Il mio importatore non voleva il Falerio.

La critica di settore ti ha notato subito?
Sì, la incrocio per la prima volta con Slow Food: qui c’era una bella condotta, con giornalisti come Antonio Attorre e Valerio Calini. Loro andavano alla scoperta dei formaggi, dell’anice, delle mele dei monti Sibillini e scoprirono anche Velenosi. Noi siamo nati insieme alla critica enologica italiana e quello per noi è stato certamente ossigeno. Vedere un tuo vino raccontato su una rivista era la certezza che stavi andando bene. Anche se poi il fatto che il cliente compri e ti ricompri il vino è la cosa fondamentale.

Ora che i vitigni autoctoni sono stati sdoganati e vai con loro all’estero, sei più contenta?
Oggi parlare di biodiversità è fondamentale. L’Australia è un competitor agguerrito, il Sudafrica lavora per esserlo. Poi ci sono Cile, Argentina, Nuova Zelanda. Se non si fosse scoperto il valore della territorialità sarebbe stato un grosso problema per il Piceno. Ma ce n’è stato un altro.

Quale?
Il Piceno ad un certo punto scopre il pecorino, ma non lo blinda. La Rauscedo, dovendo lavorare per una selezione clonale, non poteva fermarsi a piccoli quantitativi, quindi spinse anche l’Abruzzo a puntare sul pecorino. Però il pecorino nasce qui, a 700 metri di altezza, dove sono state prese le marze. Poi, è stato reso perfetto anche per altitudini più basse. Noi siamo vocatissimi per questo vitigno, ma non possiamo andare sul ring a giocare con i pesi massimi. All’estero non ti paga aver fatto una Docg con il pecorino, con tutte le regole che ci siamo dati.

Questa tua mentalità “commerciale” ce l’hai dentro o ti è venuta con il tempo?
Fa parte della mia indole, sicuramente. Mio padre mi svegliava alle 3 del mattino per andare a vendere: aveva un ingrosso di scarpe, ma faceva anche l’ambulante. Io, in realtà, non sono innamorata della vendita, ma dello stare insieme alla gente; sono curiosissima.

Voi siete ben presenti sui social. È stata una scelta dettata dai tempi o da…
Tu pensi che in 40 anni io abbia mai ricevuto una telefonata che richiedeva il Rosso Piceno Superiore? Io devo essere presente sui social perché riesco a comunicare a un pubblico molto ampio. È una fatica, perché è diventato un lavoro.

Perché a un certo punto siete andati anche in Abruzzo?
È stato un atto dovuto. Ritorno sul discorso del ring che facevo prima. Le Marche producono 800mila ettolitri nelle annate favorevoli, altrimenti siamo sempre sui 500/600 mila. Le Marche non esistono sulle carte dei vini, a parte il Verdicchio. Con il Montepulciano d’Abruzzo, che già facevamo, avevamo un’opportunità in più. Abbiamo preso 16 ettari e ci siamo innamorati delle Colline Teramane.

Tu guardi molto al presente e agisci sempre tempestivamente. Ma se ti chiedessi che obiettivi ti sei data per il futuro?
Sette anni fa i miei figli non erano in azienda e quindi quando pensavo alla Velenosi del futuro avevo un dolore nel cuore. Loro facevano tutt’altro: mia figlia, dopo la laurea in Bocconi, lavorava in Svizzera, mio figlio, dopo tre lauree, voleva fare il professore. Invece, sono improvvisamente tornati tutti e due e fatico ancora a crederci. Si stanno inserendo: fanno i loro errori, cadono e si rialzano. Stanno crescendo. Oggi Velenosi è un’azienda consolidata e non penso che dobbiamo crescere di più. Abbiamo raggiunto la giusta dimensione, ma abbiamo sempre nuovi obiettivi da raggiungere per quanto riguarda i vini. Vedo i miei ragazzi diventare più adulti e ora comincio a divertirmi.