Chicco Cerea: «Quello che fai ti permette di comunicare agli altri»

Chicco Cerea: «Quello che fai ti permette di comunicare agli altri»

Interviste e protagonisti
di Sofia Landoni
14 gennaio 2023

Curioso, dinamico, perennemente alla ricerca di nuove e concrete avventure. «Ai giovani dico di fare ciò che sentono nel loro cuore e non trascorrere ore in un mondo virtuale»

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 23 Novembre 2022

“Io non lavoro, io vivo”. Una frase che fende l’aria come una freccia scagliata di getto. Le parole di Chicco Cerea lasciano lo strascico di qualche minuto meditabondo, in cui realizzare che la passione di quest’uomo è tanta, esattamente come la sua fame e la sua grinta. Per la famiglia Cerea, proprietaria del celebre ristorante Da Vittorio – tre stelle Michelin in quel di Brusaporto nella Bergamasca – esiste solo una direzione, quella che porta a esplorare ancora, ancora più in là, affacciandosi a una serie di finestre sul mondo con la tensione a volerlo scoprire per intero. La molteplice attività della famiglia Cerea non ha solo reso grande Da Vittorio, ma ha anche saputo estendere fuori dai confini nazionali la cultura italiana, applicata alla cucina e alla capacità artigiana che ci contraddistingue come segno di eccellenza e di imprenditoria. Per questo, per questa determinazione a vivere e comunicare il vero “saper fare” italiano, a Chicco Cerea è stato consegnato il premio Enozioni a Milano 2022 per la Comunicazione. Quella dei Cerea è una famiglia di viaggiatori, che percorrono le coordinate del mappamondo attraverso le aperture dei loro ristoranti o mediante le consulenze. Sanno fare tutto, i Cerea, tranne una cosa: rimanere immobili.

La storia del vostro ristorante coincide con la storia della vostra famiglia. Come siete arrivati fin qui?
Tutto nasce nel 1966. All’epoca io avevo già due anni. Papà Vittorio e mamma Bruna portarono il pesce di mare a Bergamo negli anni ’60. Fu una scelta che comportò parecchie difficoltà nei primi tempi, ma poi si rivelò essere la chiave del nostro successo. Inizialmente il ristorante era in una via centrale di Bergamo, poi decidemmo di spostarci a Brusaporto, un paesino immerso nel verde delle colline. Qui potemmo sviluppare tutte quelle attività che avevano già cominciato a prendere forma, come il catering, le varie consulenze, l’apertura di altri ristoranti nel mondo. Noi siamo persone molto curiose, molto attive, ci annoiamo a fare sempre le stesse cose e questo ci ha spinto a diversificare il nostro business.

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Ad oggi, quali sono le attività collaterali al ristorante?
Sono molte. Innanzitutto abbiamo aperto diversi ristoranti con il nostro nome in giro per il mondo. Abbiamo due locali a Shangai, un ristorante aperto da pochissimo a Saigon in Vietnam, un Da Vittorio stagionale a St. Moritz – esclusivamente invernale - e il nuovo format DaV, presente sia a Portofino all’interno del Belmond Hotel come trattoria di pesce, sia da quest’anno a Milano nella Torre Allianz di Citylife. Si tratta di un concept molto giovanile, fresco, informale, meno impegnativo rispetto al Da Vittorio “classico”, che sta riscontrando moltissimo successo. Da anni conduciamo un’importante collaborazione con Esselunga, per la quale sviluppiamo tutta la pasticceria fresca per la quasi totalità dei loro punti vendita, e un paio d’anni fa abbiamo realizzato un nuovo laboratorio per tutti i nostri lievitati, a pochi chilometri da Brusaporto. In Città Alta abbiamo da poco rinnovato una bella pasticceria, cogliendo l’occasione per ricavare un b&b di sei camere nei piani superiori della struttura, molto apprezzato dai turisti stranieri in visita a Bergamo Alta. Poi le consulenze, di recente ne abbiamo avviata una molto bella con il ristorante italiano Il Carpaccio, a Parigi. E infine il catering: un’attività che è sempre stata fondamentale per noi e che, mai come adesso che le persone vogliono recuperare il tempo perso in pandemia organizzando feste e cerimonie, ci richiede davvero un grosso lavoro. Anche per ciò che riguarda il servizio di catering non ci limitiamo all’Italia ma andiamo in tutto il mondo ed esportiamo la cucina e la cultura italiana con il nostro nome.

In quali parti del mondo siete arrivati con il vostro servizio di catering?
Siamo stati in Paesi molto particolari, come Armenia o Turkmenistan, ma anche negli Stati Uniti, in Brasile e in Francia.

Da dove proviene tutta questa creatività?
La dobbiamo a papà Vittorio e mamma Bruna, due persone che spingevano ad andare sempre oltre, a rompere la comfort zone. Era richiesto sempre qualcosa in più. Inizialmente anche per necessità, perché c’era bisogno di lavorare e fare impresa; in un secondo momento perché arrivavano i risultati e le persone erano contente. Mi ricordo ancora i miei primi catering: avevo 20 anni e non avevo ancora la patente, dovevo andare per forza accompagnato da un cameriere che l’avesse; ero privo di attrezzatura e mettevo piatti, bicchieri e posate nei cartoncini per portarli nelle case private. Inizialmente si trattava di eventi da 6 – 8 persone, poi sono diventati 20, 30, 100. Ai primi banchetti da 200 persone non ci dormivo la notte perché cercavo di fare gli schemini di uscita dei piatti. Poi sono arrivato a fare banchetti da 6000 persone. È stato un crescendo pieno di sfide.

Come si fa a gestire tutte queste attività mantenendo sempre altissimo il livello di qualità?
Beh, innanzitutto devi sentirtelo, deve piacerti ed essere nelle tue corde. Devi dedicarci la vita. E questa per me è la mia vita, è il mio modo di essere. Per me è sentirmi realizzato.

Sono seguiti altri progetti simili dopo questa esperienza?
Si, di situazioni in cui cerchiamo di dare una mano ce ne sono parecchie, ma solitamente ce le teniamo per noi, non ci piace andare a sbandierarle in giro o ricavarne una pubblicità.

Sei stato il vincitore del Premio Enozioni per la Comunicazione: cosa significa per te fare comunicazione in questo settore e in questo preciso momento storico e sociale?
A dirti la verità, era l’ultimo premio che mi aspettavo, perché non sono social e non mi sento un classico comunicatore. Ma ritengo che sia proprio quello che fai, che ti permette di comunicare agli altri. Tante volte si dice che il miglior modo per insegnare è dare l’esempio. E forse è questo che mi gratifica molto, che mi rende felice.

Quindi anche nella tua idea di formazione questo aspetto è importante?
Assolutamente. Per imparare bisogna essere qua, presenti e reali.

Cosa ti aspetti dal futuro della comunicazione nel settore enogastronomico?
Deve restare solo la sostanza, priva di frivolezze. Solo con le cose vere si può fare qualcosa di utile per sé e per gli altri, realizzando sé stessi e aiutando gli altri a realizzarsi a loro volta.

Cosa consigli alle nuove generazioni per orientarsi in un mondo che presenta sempre più difficoltà, sia dal punto di vista sociale che professionale?
Ai giovani dico di fare ciò che sentono nel loro cuore e non trascorrere ore in un mondo virtuale. Vorrei spronarli a seguire una passione, qualunque sia. L’importante è che dia loro gioia.