Daniele Cernilli: «Usate un linguaggio semplice e non iniziatico»

Daniele Cernilli: «Usate un linguaggio semplice e non iniziatico»

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
14 gennaio 2023

È il padre dei Tre Bicchieri, oggi conosciuto da tutti come Doctor Wine. «Dobbiamo raccontare il vino in modo comprensibile»

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 23 Novembre 2022

In una grande sala che trabocca di libri, dischi, quadri, e naturalmente di bottiglie di vino, da qualche mese è presente in bella mostra anche la scultura di Sandro Granucci che identifica, dalla sua prima edizione, il premio “Enozioni a Milano” assegnato da AIS Lombardia. Incontrare Daniele Cernilli nella sua casa studio nel centro di Roma significa avere l’opportunità di poter parlare con chi ha visto nascere, diventandone uno dei più influenti protagonisti, la critica del vino italiano. Classe 1954, romano, laureatosi in Filosofia con uno dei più importanti intellettuali del ‘900, Guido Calogero «appena prima che andasse in pensione», Daniele Cernilli è tra coloro che hanno respirato a pieni polmoni quell’atmosfera pionieristica della fine degli anni ’70 del secolo scorso quando l’Associazione Italiana Sommelier non aveva ancora aperto le sue porte al mondo degli appassionati, le guide del vino, come le conosciamo oggi, non esistevano e anche l’editoria di settore aveva appena cominciato a muovere i suoi primi passi. «Fin da ragazzino ero appassionato di geografia e mio padre, che faceva il commerciante di mobili, aveva un sacco di fornitori in zone vitivinicole: anzi alcuni erano produttori di vino. A Natale gli regalavano molte cassette di vino. Mi resi così conto che il vino era una geografia di colori e sapori».

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Quando il vino diventa qualcosa di più di una passione?
Nel 1979 ero abbonato alla rivista “Vini e Liquori”, diretta da Gino Veronelli. Un giorno presi coraggio e gli scrissi per chiedergli come migliorare la mia conoscenza. Lui mi rispose parlandomi dell’Associazione Italiana Sommelier. Il responsabile del Lazio era Severino Severini, che aveva un ristorante a 300 metri da casa mia. Lo conoscevo perfettamente perché con la mia famiglia ci andavamo per festeggiare qualcosa o qualche volta anche la domenica.

Inizia così il tuo ingresso in AIS.
Ho fatto il primo corso nel marzo/aprile di quell’anno, tessera 531. Non mi ero ancora laureato. Veronelli aveva un collaboratore su Roma, Stefano Milioni, che andai a trovare: aveva una piccola agenzia di marketing del vino e io cominciai ad aiutarlo. In più Veronelli mi propose di cominciare a scrivere anche per la rivista che dirigeva. Non c’erano ancora i relatori AIS come oggi, tanto che l’anno dopo mi misero subito in cattedra perché fresco di studi.

L’insegnamento, d’altronde, ha fatto parte della tua vita.
Sì, sono stato insegnante di ruolo alle scuole medie per 7 anni, ma subito dopo la laurea, nel 1982, ho fatto una trasmissione per Radio Rai che si chiamava “Viva il Vino” e iniziai a collaborare con molte testate. Cominciai a frequentare il Vinitaly ed essendo un collaboratore di Veronelli, divenni subito amico di molti produttori importanti.

L’atmosfera che si respirava nel mondo del vino nella prima metà degli anni ’80 era…
Pionieristica. Ci fu un congresso dell’AIS a Roma e io presi addirittura la licenza ministeriale perché stavo facendo il militare per collaborare con la sezione del Lazio per l’organizzazione. C’erano ristoratori come Alberto Ciarla, poi diventato presidente di AIS, Ezio e Mimmo Bastianelli di Fiumicino, Elio Mariani di Checchino dal 1887. La prima parte del vino per me è targata AIS.

Hai mai pensato di aver intrapreso una strada minore, considerando i tuoi studi?
No, sono passato dallo spirito all’alcol (ride). Ci sono tanti laureati in filosofia che si sono occupati di vino, a partire dallo stesso Veronelli naturalmente. Ma se tu ci pensi, la degustazione è un metodo e quindi alla fine non è una cosa strana che chi ha imparato a studiare in modo metodologico poi si trovi a suo agio nella degustazione. Gli studi filosofici si possono applicare in tanti modi: pensa alla logica o alla matematica. Pensa al calcolo infinitesimale di Leibniz, a Ludwig Wittgenstein o a Bertrand Russell. Edoardo Valentini, quando gli chiedevano perché il vino lo facesse così, diceva che si rifaceva ai Presocratici, che non scrivevano di vino, ma di Natura. Ecco, forse più che a Steiner bisognerebbe rifarsi a loro: acqua, aria, terra e fuoco.

Come nasce la tua collaborazione al Gambero Rosso?
Nel 1982 Andrea Gabbrielli, che ai tempi non era un giornalista ma un enotecario alla Cavour 313, mi disse che stava venendo a Roma un signore che avrei potuto intervistare alla radio, tale Carlo Petrini, ai tempi segretario della Nobile Associazione Amici del Barolo, che aveva come presidente Bartolo Mascarello. Veniva da un’esperienza di politica nel Manifesto e aveva fondato una cooperativa che si chiamava “I Tarocchi”: distribuivano vini e, infatti, dovevano consegnare a Roma una partita di vino. Lo intervistai in studio: in collegamento telefonico c’era Giacomo Bologna. Non si conoscevano ancora e polemizzarono perché Bologna parlò del tartufo di Asti che secondo Petrini, invece, non si poteva sentire. Poi diventarono grandi amici. Quando Stefano Bonilli pensò di fare il Gambero Rosso, che doveva essere un inserto del Manifesto, conosceva bene sia Petrini che Edoardo Raspelli: chiese loro un possibile esperto di vini e entrambi gli fecero il mio nome. Nacque una simpatia immediata. Collaborai sin dal primo numero nel dicembre del 1986. Dopo 10 numeri mi nominò vice direttore e dopo un paio di anni condirettore.

Poi arriva anche la guida.
Nel 1987 Veronelli non faceva più i catalogo Bolaffi e non c’era più una guida. Io proposi a Petrini, che collaborava con il Gambero Rosso (la parte cibo era a cura di Arcigola) e Bonilli di fare una guida dei vini. Strutturai il progetto e mi inventai una cosa che poi ebbe un successo travolgente: i Tre Bicchieri. Erano un sistema che si ispirava alle Tre Stelle Michelin, mentre le schede dei vini alla guida Gault Millau, quindi giornalistiche e raccontate.

Ma perché il nome “Tre Bicchieri”?
Perché da frequentatore di wine bar, io sapevo che con una bottiglia si riempivano 6 bicchieri. Se tu finivi una bottiglia in due – bere da soli è triste –, significava che avevi bevuto 3 bicchieri, quindi significava che il vino era buono. Due bicchieri significava che dopo un po’ ti eri stufato e volevi cambiare vino, un bicchiere, invece, che dopo l’assaggio non ti piaceva più. Zero bicchieri significava che lo accostavi solo al naso, ma neanche appoggiavi le labbra al bicchiere. Era una cosa pratica, empirica.

Il Gambero Rosso nasce di fatto a ridosso dello scandalo del metanolo
Sì e peraltro Stefano Bonilli era ai tempi uno dei redattori della trasmissione “Di Tasca Nostra”, l’equivalente di “Mi Manda Rai Tre”, ed ebbe l’incarico di occuparsi proprio dello scandalo del metanolo andando in Piemonte per fare l’inchiesta. Però nello scandalo del metanolo i vini di qualità non c’entravano nulla. Fu probabilmente un tentativo di truffa ai danni dell’AIMA (Azienda per gli interventi sul mercato agricolo, poi soppressa in favore dell’AGEA, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, ndr.), un ente di stato che dava aiuti per la distillazione per eliminare il surplus di vino. Per rafforzare la gradazione alcolica misero alcol metilico perché costava poco, l’avevano detassato e non era più colorato di blu (tutte le sostanze alcoliche sono colorate) ma bianco. Qualche idiota criminale quel vino lo mise in commercio invece che distillarlo. All’epoca c’erano pochissimi controlli ed è successo quello che è successo.

Ma parlare di vino e creare addirittura una guida dopo questo scandalo non era azzardato?
No, c’era bisogno di creare una comunicazione positiva sui vini di qualità. L’immagine del vino era stata ferita mortalmente. Cosa c’entravano Gaja, Jermann, Antinori, Mastroberardino o Tasca d’Almerita con il metanolo? Nulla. Noi parlavamo di questi vini, dei piccoli produttori di vino nascenti, dei Barolo Boys, dei toscani che cominciavano a fare i Supertuscans, del Sassicaia, di Gravner.

Che linguaggio decideste di adottare?
Semplice, nonostante ci siano state delle derive. Noi fummo subito molto comprensibili, utilizzando sempre il metodo dell’AIS, partendo quindi dall’analisi visiva, olfattiva e poi gusto-olfattiva. Arrivammo ad avere più di 70 mila copie della guida vendute, 100 mila con le edizioni inglesi alla fine degli anni ’90. Un successo clamoroso, che ha fatto sì che altri ricominciassero poi a fare guide. Io sono poi uscito nel 2011 dal Gambero Rosso.

Le guide del vino sono state date spesso per defunte, eppure ce ne sono ancora molte. Pur vivendo in un’epoca dove domina la disintermediazione, perché hanno ancora un ruolo?
Il vino è una cosa molto specialistica. Mentre le guide dei ristoranti sono state travolte da Tripadvisor, perché tutti pensano di poter capire di ristoranti, nel vino è più difficile. Io credo che nel vino l’opera delle associazioni sommellieristiche sia stata fondamentale. Tu pensa a quanti milioni di persone hanno fatto almeno un corso e si sono resi conto che il vino è abbastanza difficile da affrontare, perché è una cosa molto tecnica. Quindi le guide del vino hanno un senso.

Quale linguaggio consigli di usare a chi scrive di vino da tempo e a chi inizia a farlo ora?
Non bisogna avere un linguaggio troppo iniziatico. Pensiamo a Piero Angela, da poco scomparso, Mario Tozzi, Morgan Freeman, Folco Quilici all’epoca. E ancora ad Alessandro Barbero, allo stesso Vittorio Sgarbi: hanno sempre fatto divulgazione scientifica comprensibile per tutti. Perché nel vino dobbiamo essere oscuri? Bisogna evitare di usare termini che sono un po’ retorici e buffi. Un vino “generoso”, ad esempio, sa di Cavalleria rusticana. Ricordiamoci che per una persona non del settore “fruttato”, ad esempio, vuol dire dolce. Non bisogna, quindi, fare confusione, ma dire poche cose, ma precise.

Però, in questo modo, non pensi si diventi troppo didattici e poco, diciamo, originali?
Ma se tu fai dei paragoni che si possono capire facilmente, è invece possibile. Quando parli di “stoffa” del vino, perché non fare paragoni proprio con la stoffa? La seta non è il cotone, che non è la lana, che non è il fustagno, che non è la juta. Una sensazione tannica di juta ti fa capire già che ti graffi la lingua. al contrario di un tannino setoso. Oppure: far capire che la freschezza è legata all’acidità non è immediato. Allora proviamo a pensare ai suoni. Nel rock i suoni alti sono “i ghiacci”, più un suono è acuto più è “ghiaccio”. Questa tecnica si chiama sinestesia. Dobbiamo provare ad immaginare una degustazione più sinestetica, raccontata in modo comprensibile.