Fratelli Agnes, Bonarda Heritage

Fratelli Agnes, Bonarda Heritage

Interviste e protagonisti
di Anita Croci
11 giugno 2022

Non solo le tante Rose Oro ricevute dal Loghetto, sono molti i vini aziendali premiati a più riprese. Comune denominatore: la croatina e la forte identità territoriale, perché Cristiano e Sergio Agnes nel vino vogliono sentire l’anima

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 22 Maggio 2022

“Benvenuti a Rovescala, città del vino e del Bonarda” recita così il cartello di benvenuto all’ingresso del comune, poco prima di raggiungere la cantina dei Fratelli Agnes. E se Rovescala è sinonimo di Bonarda, Bonarda è sinonimo di Agnes e viceversa. E tutti quanti – ambiente, vitigno, elemento umano – sono intimamente collegati. Non è forse questo il terroir? Bonarda e bonarda. «Tante volte qui diciamo ancora bonarda intendendo croatina, perché l’uva si è sempre chiamata così, ma bisogna distinguere: Bonarda è il vino, riconosciuto con la Doc del 1970, che deve contenere croatina almeno per l’85%». I cloni di croatina in commercio sono diversi, ma fino all’avvento dei grandi vivaisti erano gli agricoltori stessi che prelevavano dalle proprie piante migliori le marze da innestare. Selezione, non clonazione: uno dei fattori determinanti nei vini dei Fratelli Agnes è un parco viti della media di 65/70 anni composto da materiale di propagazione originario, che ha preservato qualità e varietà della croatina locale.

Clicca sull'immagine per scaricare l'articolo completo in PDFMerito prima dei bisnonni e poi del padre e dello zio, i fratelli Luigi e Alberto Agnes da cui l’azienda prende il nome. Infatti, per quanto la produzione di vino abbia radici antiche in famiglia, la svolta commerciale arriva con loro nel Dopoguerra, quando dalla vendita di botti agli osti si passa alle damigiane e poi alle bottiglie. «Allora non c’erano gli strumenti e le conoscenze attuali. Si facevano solo due vini: uno mosso e uno fermo. Il primo era la consuetudine e si imbottigliava con la Luna di Pasqua, quando i lieviti indigeni non avevano completato la fermentazione, che proseguiva in bottiglia creando un’effervescenza naturale; nelle migliori annate invece si teneva da parte del vino per farlo maturare in legno».
Sono Cristiano e Sergio a portare in azienda il concetto di cru, selezionando e vinificando separatamente i diversi appezzamenti. Subentrano allo zio nella seconda metà degli anni Ottanta, a fianco del padre. Della vigna hanno vissuto ogni giorno le bellezze e il lavoro, e all’entusiasmo dei giovani uniscono la passione e gli studi, perseguiti anche oggi in campo e sui libri con la stessa curiosità di allora. Cristiano è laureato in agraria, Sergio in giurisprudenza, ma che i suoi studi vadano ben oltre è evidente. Si definisce un autodidatta conservatore e tradizionalista, mentre nell’approccio scientifico del fratello vede uno spirito innovatore. Differenze che generano dialogo, scambi, crescita, equilibrio. Non c’è contrasto, ma confronto, perché questa diversità poggia su solide e profonde comunità di base – il valore della tradizione – e di intenti: realizzare vini puri e identitari.

«Abbiamo un legame sentimentale con i nostri vigneti. Quando sono lì in mezzo e penso che prima c’è stato il mio bisnonno, mio nonno, mio padre e tutte le persone che hanno trascorso lì la propria vita – perché questo si faceva allora, in campagna ci si passava la vita – e con fatica hanno trasmesso tutto questo a noi, con una cura impeccabile, è impossibile non sentire un legame interiore». Oggi in campo vitivinicolo siamo abituati a ragionare per protocolli, ma nulla può sostituire l’intimità con il proprio vigneto. «Noi siamo esecutori materiali di operazioni minimali. Dobbiamo preservare la materia prima. Il nostro obiettivo è far parlare al vigneto la lingua del territorio facendo vini “madrelingua” che esprimano tutte le condizioni ambientali, varietali e umane dei quali sono figli».
Non sorprende quindi che l’approccio degli Agnes, in campo e in cantina, sia il più possibile rispettoso e non interventista. Olio di arancio, estratto di erba medica, carapace di crostacei, composti a base di alghe, sono i prodotti alla base della gestione agronomica, supportata da due fattori: il cambiamento climatico, con le estati più calde e più asciutte degli ultimi anni,
che hanno contribuito a limitare moltissimo oidio e peronospora e a contenere le infestanti; l’età elevata delle piante, che le rende naturalmente più resistenti alle malattie, oltre a farle vegetare meno. In cantina, lieviti indigeni, nessuna chiarifica né altre operazioni che possano compromettere le peculiarità delle uve. Per le vinificazioni, preferenza ai vasi in cemento vetrificato rispetto all’acciaio, per le proprietà traspiranti e il migliore volano termico naturale. Macerazioni lunghe, per estrarre l’enorme patrimonio delle bucce e diversi mesi di sosta sulle fecce fini, per beneficiare di tutta la complessità aromatica dei lieviti. Non li spaventa il patrimonio tannico della croatina, che tendono anzi a valorizzare grazie all’enorme qualità che vigne così vecchie conferiscono ai tannini.

La vigna del Loghetto.
La sua storia parte dal nome, piccolo luogo. L’atto notarile con il quale il nonno lo ebbe in eredità specifica un’estensione di sei pertiche milanesi: nemmeno mezzo ettaro. Impiantato a vigna nel 1906, segna l’inizio della storia vitivinicola della famiglia Agnes.
Come da tradizione antecedente l’avvento delle denominazioni, è una vigna in complantazione che ospita una trentina di specie diverse, tra cui moradella, vespolina, uva rara, uva della cascina; la varietà dominante, per circa tre quarti, è però la croatina, un antico clone detto pignola per la forma serrata, con acini piccoli e ovoidali. Uva, ma anche alberi da frutto e non solo: l’altra grande ricchezza del Loghetto è il prato polifita, una vera enciclopedia di erbe officinali in campo, che arricchiscono il terreno e l’aromaticità del vino. Non si può parlare di un vero e proprio sistema di allevamento, in quanto all’epoca la vigna era piantata en foule e ogni pianta veniva gestita in modo che si sviluppasse su tre lati per lavorarla dall’interno come un anfiteatro. Oggi è un doppio guyot, che si sviluppa tra possenti pali di castagno, senza il supporto di un filo guida.
Una vigna straordinaria, che merita un pellegrinaggio per i suoi centosedici anni e per il grande patrimonio ambientale e culturale che rappresenta. Le rese diminuiscono un po’ ogni anno, ma non disperiamo: grazie al certosino lavoro di innesto iniziato dai padri, alcune vigne della proprietà sono figlie del Loghetto e una in particolare potrebbe rappresentarne il futuro tra qualche decina di anni. Di quale si tratta? Vale davvero la pena di assaggiare tutte le loro Bonarda per scoprirlo.