Roberta Ceretto: «Non è il singolo che riesce a raccontare la straordinarietà, ma il territorio»

Roberta Ceretto: «Non è il singolo che riesce a raccontare la straordinarietà, ma il territorio»

Interviste e protagonisti
di Giuseppe Vallone
14 gennaio 2023

Arte contemporanea, alta cucina, architettura, cultura a tutto tondo. Ceretto è sinonimo di grandi vini, ma oggi è molto di più. Una realtà multiforme, capace di svolgere un decisivo ruolo di catalizzatore di interessi, di arricchimento e restituzione al territorio delle Langhe

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 23 Novembre 2022

“In Langa non mangi e non bevi, celebri un rito. Solo qui, in questa terra autunnale cui gli afrori del tino e del tartufo e il colore rosso spogliato della vigna sono ornamento, hai netta la rivelazione sacrale: cibi e vini hanno nelle colline attorno storia e secolari radici”. È quanto si legge sulla vetrofania che adorna le pareti trasparenti di Tenuta Monsordo Bernardina, sulle colline di Alba. È una mattina di fine estate, la temperatura è piacevole e la luce, abbagliante e piuttosto dura, illumina interamente la semisfera dell’Acino, al cui interno ci attardiamo guardando i vigneti che si stagliano di fronte e sotto di noi, verso Barolo, indugiando su quelle parole poetiche e musicali, che paiono sottintendere un messaggio profondo, viscerale. «Il “territorio” è fondamentale e da sempre la mia famiglia ha la ferma volontà di anteporre questo concetto all’ego personale». Roberta Ceretto ci accoglie così, professionale e spigliata, appassionata e diretta, diradando i cirri dei nostri pensieri. Le sue parole, mentre ci accomodiamo in una saletta che affaccia sulle terrazze vitate della Tenuta, sono accorate e convinte. «Tutto ciò che è stato fatto in Ceretto è stato realizzato per la crescita del territorio, perché siamo consapevoli che senza di esso non saremmo diventati ciò che siamo». Durante l’incontro, questa parola, territorio, risuonerà per uno svariato numero di volte. Da subito comprendiamo, però, che la reiterazione non è tesa a veicolare un motto aziendale, quanto dettata dalla genuina volontà di farci comprendere appieno lo spirito che costantemente muove la sua famiglia.

Un’avventura iniziata con suo nonno Riccardo, originario di Valdivilla, una frazione di Santo Stefano Belbo. «Trasferitosi ad Alba, iniziò a lavorare come autista per un’azienda che vinificava e che oggi non esiste più. I proprietari, senza eredi, gli offrirono di proseguire l’attività e così mio nonno, pur non sapendo bene come, fondò la sua cantina in Corso Langhe n. 3, in quello che adesso è il magazzino del Ristorante Piazza Duomo». Erano gli anni ’30 del secolo scorso, la Langa era profondamente diversa da quel che conosciamo oggi: una terra povera e dura, ben raccontata qualche anno dopo nelle indimenticate pagine de La malora di Beppe Fenoglio, abitata da contadini spesso dotati soltanto di un inscalfibile senso di dignità. «Non avevamo un’agricoltura diffusa, come ad esempio nel Saluzzese – continua Roberta –. Da noi il paesaggio collinare non permetteva di fare granché. Certo, si produceva vino, ma all’epoca era considerato alla stregua di un energizzante, si puntava sulla quantità, non certo sulla qualità». Il cambio di paradigma, però, era alle porte, e avvenne con Bruno e Marcello, i figli di Riccardo Ceretto. «La prima cosa che fecero – racconta ancora Roberta, che di Bruno è figlia –, fu andare in Borgogna, da chi il vino lo faceva bene da decenni ». Un’esperienza decisiva per i due giovani fratelli che, tornati in Italia, dapprima iniziarono a imbottigliare abbandonando la mescita in damigiane e, appresso, decisero di acquistare i vigneti più vocati, vincendo le resistenze paterne. «Due uomini caratterialmente agli antipodi come loro, capaci anche di discussioni interminabili, erano però focalizzati su un unico obiettivo: quello di costruire qualcosa, di dar vita all’azienda vinicola e di rendere grandi le Langhe». Fu l’intuizione decisiva, che dotò Ceretto di un patrimonio ineguagliabile di viti e cru eccezionali. Alla domanda se fossero all’epoca pienamente consapevoli, Bruno e Marcello, della straordinaria vocazione del terroir langhetto, Roberta ci risponde con onestà cristallina: «che il tartufo, il nebbiolo, le nocciole vengano bene qui, non è merito nostro, è l’ambiente che è generosissimo». Fuor di retorica, questa frase custodisce la gemma basale da cui si dipanano i tanti rami dell’albero Ceretto. Roberta ci rende evidente, non mancando mai di sottolinearlo a sufficienza, il forte debito di riconoscenza che ogni componente della sua famiglia sente verso l’ambiente che li circonda, che ha dato loro tanto e al quale sentono di voler restituire altrettanto, ciascuno assecondando il proprio talento. Sì, perché da tempo, al timone di Ceretto, sono succeduti a Bruno e Marcello i figli Lisa, Alessandro e Federico, oltre a Roberta. «Siamo una famiglia unita, non per questo esenti da difficoltà e tensioni» ammette, «il segreto della nostra unità è stato probabilmente quello di diversificare gli interessi, mettendo ognuno nella condizione di operare in un settore che gli piacesse». Così a Roberta, l’eclettica della famiglia - «come sono sempre stata considerata» - sono stati affidati la comunicazione e l’indirizzo creativo di Ceretto. Che, poi, è il motivo primo per il quale AIS Lombardia le ha assegnato il premio Enozioni a Milano 2022.

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Se Ceretto rappresenta un faro sempre acceso sulle Langhe – che se oggi brillano da sé, trent’anni fa di questa luce si sono senza dubbio giovate – è certamente per l’alta qualità dei suoi vini, ma anche per quelle inaspettate letture e per le nuove espressioni culturali che valorizzano e arricchiscono continuamente il panorama langarolo. «Non è il singolo che riesce a raccontare la straordinarietà, ma è il territorio: ci è parso quindi fondamentale legarci ad esso, promuovendone i vini e tutti i prodotti che vi nascono». Ad agevolare l’impresa contribuisce l’innata passione dei Ceretto per l’arte contemporanea, l’architettura, la cucina e la cultura a trecentosessanta gradi. «Il primo progetto di cui mi sono occupata è stata la chiesetta», ricorda Roberta. «Era il 1996, si pensava a un progetto di installazioni artistiche site specific. Ne parlammo a David Tremlett, che all’epoca esponeva al Castello di Barolo, e ne fu attratto: passò con noi tutto il mese di agosto, in una Langa che all’epoca era deserta, e ci propose di “fare qualcosa” con quell’edificio diroccato, nel mezzo del vigneto di Brunate, che nel tempo fu anche ricovero del trattore». Venne coinvolto Sol LeWitt, uno dei massimi esponenti del concettualismo statunitense, che rimase intrigato dal realizzare un’opera così, nel mezzo di «uno sperduto vigneto in un’altrettanta sperduta campagna italiana». Nel 1999 vide dunque la luce la Cappella del Barolo, anche grazie alla capacità dei Ceretto di riconoscere la potenzialità e il talento, siano essi di un terroir o di un artista, e metterli nelle giuste condizioni per potersi esprimere al meglio. «Sinceramente non avevamo compreso la portata di quell’opera – ricorda Roberta –, personalmente, lo capii quando, nel giro di un mese, ci trovammo sul posto i direttori di alcuni dei più importanti musei del mondo». L’effetto fu dirompente, la Cappella del Barolo acquisì ben presto una vita autonoma, slegata - nell’immaginario collettivo - dalla famiglia Ceretto («che ne è proprietaria e ne cura la manutenzione, da sempre», precisa Roberta), per diventare un simbolo riconoscibile e conosciuto di tutta la Langa. «Fu il regalo di un’opera d’arte alla comunità», accessibile, fruibile, «non calata dall’alto ma vissuta nel quotidiano».

A quella prima esperienza, fecero seguito nel 2000 il Cubo, un’iconica installazione presso la cantina di Bricco Rocche, e nove anni più tardi l’Acino alla Tenuta Monsordo Bernardina, che ci ha accolto all’inizio di questa visita. «Chi viene da Ceretto oltre ad assaggiare i vini e a passeggiare in vigneti che sono il nostro salotto, porta con sé un’immagine, che sia l’Acino o il Cubo inseriti nel paesaggio. Così, in qualsiasi altro contesto, quando penserà a Ceretto penserà a queste opere e viceversa». Un richiamo, dunque: la Cappella del Barolo, l’Acino, il Cubo, sono opere d’arte che calamitano l’attenzione del visitatore, sia esso appassionato o semplice turista, portandolo sul posto, così contribuendo a rafforzare e valorizzare tutta la regione. Con lo stesso spirito vanno lette le avventure dei due ristoranti inaugurati nel 2005 ad Alba, La Piola e Piazza Duomo, quest’ultimo guidato da Enrico Crippa e fregiato oggi da tre Stelle Michelin. Se là era l’arte contemporanea a rendersi protagonista, qui è la cucina e la valorizzazione dell’immenso patrimonio gastronomico piemontese a farla da padrone; sempre, però, grazie alla preventiva creazione del contesto ideale per eccellere attorno «a chi ne sa più di noi». Fonti inesauribili di nuove ispirazioni, Roberta Ceretto e la sua famiglia non si sono però fermati all’architettura e alla cucina. I rami dell’albero, abbiamo detto, sono tanti e danno di continuo nuovi frutti. Come le mostre che, tra il 2010 e il 2019, hanno ospitato artisti internazionali come Anselm Kiefer, Kiki Smith, Ellsworth Kelly, Francesco Clemente e Marina Abramović. Oppure come La Via Selvatica, un ciclo di dodici incontri lungo l’arco di un anno, con altrettante persone «originali per esperienze e vissuto, che hanno voluto raccontare e condividere con noi un pezzo di sé». Un’idea, nata durante il lockdown del 2020, che dà l’esatta misura dell’inscalfibile volontà dei Ceretto di circondarsi di persone e di vita, quasi sentano l’esigenza di una costante contaminazione di prospettive e punti di vista. Il tempo a nostra disposizione, però, è quasi finito e non c’è modo migliore di salutarci che con una degustazione dei migliori cru che Ceretto possa offrire «perché – chiosa Roberta –, è importante comprendere che, nonostante la nostra azienda sia percepita di una certa dimensione, complici i successi dell’arneis Blangé e del Moscato d’Asti, quanto a Barolo e Barbaresco siamo a tutti gli effetti viticoltori di piccole dimensioni», con volumi di circa 30.000 bottiglie da 25 ettari di vigneti. L’assaggio dei vini autentica le sue parole, e con l’ininterrotta suggestione di cesello e artistico dettaglio, ci congediamo con il nebbiolo a tingerci le labbra.