Ruben Larentis, l’enologo delle bollicine

Ruben Larentis, l’enologo delle bollicine

Interviste e protagonisti
di Paolo Valente
09 luglio 2023

Tra poco andrà in pensione colui che ha plasmato le bollicine di una delle aziende più rappresentative di tutta la produzione italiana

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 24 Maggio 2023

Una grande sala di degustazione a fare da sfondo che ha preso il posto, dopo la ristrutturazione, del laboratorio di analisi dove iniziò la sua attività nel lontano 1986 con un camice bianco dove spiccava il marchio Ferrari . «È stato il momento in cui poter dire: sì, sono proprio qui». È il luogo nel quale ci accoglie Ruben Larentis, deus ex machina di alcune delle bollicine più iconiche della produzione spumantistica italiana e che ha legato la sua carriera ad un’azienda di riferimento del panorama vitivinicolo italiano. Ruben ricorda ancora il giorno in cui è entrato per la prima volta a lavorare nel laboratorio della Ferrari di Trento, per un giovane voleva dire molto. Furono Mauro Lunelli, che lo assunse, e l’enologo Giancarlo Ciurletti, a fargli da guida nel suo percorso in azienda. La passione per il vino arrivò e crebbe sui banchi di scuola, quelli di San Michele all’Adige, dove Ruben approdò quasi per caso. Suo padre, infatti, faceva il trasportatore e consegnava anche il vino di una cantina locale. Da qui l’idea di iscrivere il figlio in quella scuola che, punto a favore, aveva anche il collegio e quindi gli consentiva di evitare impossibili viaggi quotidiani dal paesino dove la famiglia risiedeva. Terminata l’esperienza scolastica, arrivarono anche un po’ di vendemmie in giro per cantine, a partire da quella del 1983 a Ca’ del Bosco in Franciacorta, dove rimase per 6 mesi. «Mi ricordo l’uva, bellissima!». Fu la prima esperienza fuori dal Trentino. Fu il professor Gianni Brugnara, coetaneo di Mauro Lunelli, figlio di Bruno, a fargli il nome di Ruben Larentis: l’imprenditore trentino si rivolgeva a lui quando aveva necessità di assumere qualche ragazzo. «Mi sono sempre speso con passione. Sono stato anche fortunato perché ho trovato un ambiente in cui ho potuto dire la mia. Mi sono arricchito scambiando le opinioni con altri colleghi; non bisogna essere gelosi del proprio lavoro pensando di avere la ricetta giusta». Il resto è storia. Classe 1960, Ruben Larentis nel 1997 diventa “chef de cave” di Ferrari. Nel 2010 è stato insignito del titolo di Enologo dell’Anno dal Gambero Rosso e nel 2019, nell’ambito di The Champagne & Sparkling Wine World Championships ha ricevuto il Premio alla carriera “Lifetime Achievement Award”.

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Com’è cambiata l’enologia dagli anni ’80 a oggi?
«Quando ero a scuola, c’era l’idea che la soluzione a ogni problema fosse quella di aggiungere qualcosa. La chimica iniziava a essere diffusa; anche in campagna c’era la convinzione che per risolvere ogni questione bastasse un composto con cui trattare la vigna. Poi si è incominciato a dare più valore all’agricoltura; questo è merito di tanti vignaioli che hanno fatto grandi vini e hanno fatto intuire l’importanza del vigneto. Si è così capito che l’approccio non poteva essere quello di aggiungere qualcosa ma era necessario iniziare a gestire un processo. Oggi appena uno studio viene pubblicato raggiunge tutto il mondo; arrivavano nuovi input, nuove esperienze. Tutto questo ha portato ad analizzare nel dettaglio il mondo del vino e ad affrontare i problemi in modo diverso. Anche le cantine sono cambiate: c’è più pulizia, ci sono più attrezzature a disposizione, c’è la gestione del freddo e del caldo».

Quindi negli anni ’60 o ’70 non venivano fatti grandi vini?
«Non dico questo, anzi! Ancora oggi alcune di quelle bottiglie sono eccellenti. Però adesso tutto il vino è qualitativamente migliorato. Non si trova più vino scadente a meno che non sia frutto di un errore. Oggi non è normale fare un vino cattivo, è normale farlo buono perché abbiamo tutti i mezzi necessari».

Qual è la ricetta per fare un grande vino?
«È più complicato perché entra in gioco anche il vigneto, chi lo gestisce e tutto il processo produttivo in cantina. Il vino è un prodotto che assorbe qualsiasi cosa che fai, dalla campagna fino alla messa in bottiglia e al calice. Occorre conoscere le conseguenze di ogni azione. Oggi c’è molta attenzione anche alla salubrità e quindi qualsiasi preparato aggiunto va ben ponderato, deve portare a risultati duraturi senza stravolgere l’impronta organolettica della tipologia. Se hai una grande uva e gestisci un buon processo fai veramente un grande vino applicando un’enologia delicata e interferendo pochissimo sul processo».

Su quanto l’enologo sia una figura determinante nel mondo del vino Ruben ha le idee molto chiare e ne rivendica il ruolo centrale nella produzione del vino. È l’enologo che decide e dà indicazioni all’agronomo su come devono essere le uve e poi è lui che in cantina si adopera per la buona riuscita della vinificazione in tutte le sue fasi. «Ci sono tanti esempi che lo dimostrano: un vigneto fa un vino pazzesco e magari quello confinante non dà risultati così grandi; il terreno è uguale così come l’ambiente. Ma non il processo: c’è qualcuno che lo gestisce in modo da ottenere quel grande risultato». Con una leggera vena polemica, contesta chi dice che il vino si faccia da solo. «Non capisco il motivo per cui alcuni enologi dicano: “io non ho fatto niente, ha fatto tutto l’uva!”. Mi domando: perché devi dire così? Sei tu che hai creato il vino, perché devi essere sempre in difesa? Forse si vuole enfatizzare il vigneto o magari l’azienda, però chi ha fatto quello che è nel bicchiere, chi ha scelto ogni cosa è l’enologo. In Francia si dà più importanza all’enologo, è visto come lo stilista del vino, in Italia non è ancora così, spesso è considerato come chi adultera il vino o come chi aggiunge qualcosina di miracoloso».

Raccontaci un aneddoto tra le centinaia che ti saranno capitati durante la tua carriera.
«Qualche mese fa ero in Champagne in un viaggio organizzato; eravamo in 25 e siamo andati a visitare un piccolo produttore. Lo stavamo aspettando nel piazzale e quando lui è arrivato, senza dire niente, mi viene incontro e mi dice: “Lei è l’enologo di Ferrari? Volevo salutarla!”. Questo mi ha fatto pensare: beh, però qualcosa di buono l’ho fatto, sono riuscito a lasciare il segno».

Come tutti i grandi uomini, anche Ruben è una persona modesta, che tende a parlare poco di sé e a non vantarsi dei risultati ottenuti. Quando gli domandiamo quale sia stata la sua più grande intuizione si schernisce: «Non è che ci sia stata un’intuizione. Sono stato sempre molto, molto curioso. Quando sono arrivato in Ferrari, onestamente, conoscevo il Metodo Classico solo dai libri; avevo fatto qualche bottiglia a casa con mio papà, avevo letto dei libri. Insomma, quasi niente. Quello che mi ha caratterizzato è stata la curiosità e il sapermi mettere in gioco. Curiosità che ho sempre avuto; ancora adesso leggo, mi documento e soprattutto mi confronto in modo aperto con chiunque, perché credo che si possa imparare da qualsiasi persona che si ha di fronte. Poi, sicuramente, la fortuna di lavorare in un’azienda come Ferrari mi ha aiutato. È giusto condividere questi risultati con tutti i ragazzi che in questi 37 anni mi hanno affiancato, seguito, sostenuto con tanta determinazione e passione».

Cosa significa fare qualità?
«Innanzitutto occorre avere un progetto: che tipo di vino voglio fare, in quale segmento di mercato voglio posizionarmi, anche in base a chi sono. Il fattore più importante, poi, è la coerenza. Devo essere coerente con quello che racconto. Non si può pensare di fare una cosa e raccontarne un’altra. La cura dei dettagli, di ogni particolare, è importante, senza cercare scorciatoie, senza voler imbrogliare nessuno. Infine, affinché il cerchio della qualità si chiuda, occorre che ogni attore della filiera sia partecipe e sia retribuito per quel che vale. Se pretendiamo dai viticoltori un certo livello di qualità dobbiamo garantire il reddito a chi ci lavora. Il vino deve pagare tutto quello che c’è dietro alla realizzazione di un determinato prodotto. Fare qualità è un percorso costellato di tanti confronti con vini di altre zone di produzione, nel mio caso con la Champagne. Per questo è stato di grande aiuto frequentare il mondo dei Sommelier e le loro attività, fatte di corsi e serate a tema. Il mio grazie va a Mariano Francesconi, di AIS Trentino, per tutte le volte che mi ha coinvolto».

Come vedi il futuro del Trento DOC?
«Il futuro sarà roseo se aumenterà il numero di bottiglie per produttore; attualmente sono troppo pochi i grandi produttori. Questo non sarà facile perché il Trentino è fatto da tante microaziende e l’aumento delle produzioni è difficile e molto lento. Per riuscire ad avere un’espansione, bisognerebbe che le grandi aziende supportassero le più piccole».

E in termini di qualità?
«Nell’ultimo periodo, la qualità media è cresciuta molto. I vini sono molto buoni ma spesso vengono bevuti troppo giovani. Le aziende non hanno la forza economica per tenerli in cantina per più tempo e così non si raggiunge mai il livello qualitativo massimo; il vino viene venduto e bevuto prima di arrivare al suo apice. Lo stile è abbastanza uniforme ma se parliamo di montagna dobbiamo fare i vini di montagna. Questo significa freschezza, profondità, delicatezza; non ci possono essere vini grassi o troppo morbidi. Devo trovarmi la montagna nel calice e non la pianura, come a volte capita. Questo si ottiene con il confronto e con l’autocritica che, secondo me, dovrebbero svolgersi in ambito istituzionale, all’interno del Consorzio, e non confinando il tutto a incontri spontanei e privati tra enologi come avviene oggi».

Che impatto ha il cambiamento climatico sul vigneto trentino?
«Fino ad ora il cambiamento climatico ha solo aiutato; il caldo ci ha consentito di vendemmiare uva più matura e, in particolare per i vini fermi, questo è un grande vantaggio. Quello che crea problemi sono gli eventi estremi; è devastante avere magari tre mesi di siccità e poi due giorni di pioggia torrenziale che provoca disastri o grandinate. La vigna è soggetta a stress e questo porta sicuramente a dei problemi. Spesso si dice che basta spostare i vigneti in quota che si risolve tutto, ma non è sempre vero. Occorre, per esempio, trovare i luoghi giusti dove impiantare le vigne altrimenti l’uva fa fatica a maturare; non è solo con l’elevata acidità che si creano grandi Trento DOC».

Com’è il tuo approccio al biologico?
«È sicuramente un’opportunità e non deve essere una moda. Il biologico, se fatto bene, ha un’attenzione e un maggior rispetto dell’ambiente ma, per farlo bene, serve molta conoscenza tecnica, dobbiamo investire in ricerca e nella sua divulgazione. Ridurre i trattamenti e i principi attivi è determinante. In vigna, il problema è che per la lotta alla peronospora e oidio possiamo usare solo rame e zolfo, entrambi dei contaminanti, e quando arrivano nel mosto con concentrazioni elevate possono modificare il quadro aromatico. Inoltre, il loro utilizzo impone numerosi trattamenti che hanno un impatto in termini di inquinamento. Speriamo che la scienza trovi una soluzione. Lavorare in vigna in biologico è assolutamente possibile e in cantina il disciplinare biologico è piuttosto ampio. L’importante è che il biologico non diventi solo un argomento di vendita o il modo per dire che un vino biologico è buono a prescindere».

Progetti per il futuro?
«Ho raggiunto i fatidici 42 anni e 10 mesi di lavoro e a breve arriverà la pensione. Mi prenderò un periodo di pausa per capire se e come rimanere nel mondo del vino. Può essere che esca da Ferrari tra non molto, le ho dedicato 37 anni e tutti molto intensi. Sono arrivate tante soddisfazioni e a testimoniare il mio passaggio saranno le annate ancora in cantina. Lascio perché ho voglia di fare cose diverse, magari aiutare piccoli produttori a crescere o dedicare più tempo a muovermi e a conoscere.