Trebbiano d'Abruzzo Valentini 2020-1977. Artigianato e regalità
La Verticale
di Armando Castagno
11 dicembre 2025
Gentilezza e semplicità, Francesco Paolo Valentini rappresenta una famiglia che ha fatto la storia dell'Abruzzo vinicolo, eppure la sua grandezza sta anche in questo: nella straordinaria sensibilità per il mondo agricolo. È qui che si concepisce il vino
Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 29 Novembre 2025
LORETO APRUTINO, 28 giugno 2025. Con Francesco Paolo Valentini, nel suo studio, verso mezzogiorno. Fa caldissimo, fuori. Dentro, invece, la penombra della stanza, piena di quadri e fotografie, di armadi e libri, accoglie la voce misurata del mio interlocutore, il quale risponde alle domande con una pazienza che non conoscevo. Francesco scandisce alcune parole come per dar loro più peso, altre le soffia quasi; accelera e rallenta, muove poco le mani. Per leggere l’intervista ci vogliono dieci minuti; la registrazione reale ne durava centocinque.
Che radici ha la tua famiglia, Francesco?
«Siamo a Loreto Aprutino da secoli, ma andando più indietro si scopre che non siamo nemmeno di origine italiana. Siamo venuti dalla Spagna alla corte dei Borgia, perché un mio avo, Giovanni Battista Valentini – e qui siamo alla fine del quindicesimo secolo – era uno dei precettori di Cesare e Lucrezia Borgia, i figli di Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI. Il mio antenato aveva seguito la potente famiglia anni prima nel trasferimento a Roma da Valencia, di cui Cesare fu poi fatto arcivescovo. Tutto sommato, anche l’azienda nel suo nascere è, per così dire, un lascito fondiario dei Borgia alla mia famiglia, anche se poi nel Settecento è stata ampliata fino a costituire un latifondo da cinquemila ettari. Sin da metà Seicento abbiamo documentazione scritta dell’attività agricola; qualche anno fa Unioncamere mi ha concesso un riconoscimento per rappresentare una delle aziende italiane in attività ininterrotta da più tempo, e ha preteso, giustamente, che il fatto venisse provato: siamo arrivati senza problemi al 1650».
Quindi puoi ricostruire anche l’indirizzo agricolo dell’azienda nei secoli passati.
«Sì. Per tutto il Settecento e quasi tutto l’Ottocento questo indirizzo era essenzialmente cerealicolo, olivicolo e zootecnico. Per la verità, veniva prodotto anche vino, ma in quantità minime; non è stata un’attività in cui investire qui le migliori energie fino circa alla metà del Novecento».
Però si produceva uva.
«Certo. E si vendeva anche all’estero, per esempio ai primi del Novecento il trebbiano finiva per una parte significativa in Germania. Veniva incassettato e caricato qui vicino, nella stazioncina di Montesilvano, e partiva in treno. Nei registri dell’epoca figura come “uva d’oro”: veniva consumata a mensa nonostante fosse uva da vitis vinifera, perché gradevole al sapore, molto più dolce della normale uva da vino. E poi c’era l’olio».
L’olivicoltura ha una tradizione molto forte a Loreto?
«Primaria, direi, e assai antica. In quei primi anni del Novecento di cui dicevo c’erano ventiquattro frantoi nel solo comune dove siamo, uno ad Amorotti che vendeva l’olio fino in America. Loreto Aprutino è il comune italiano con la più alta densità di olivi in assoluto, e non è un comune piccolo: ha settemila abitanti, ma è più esteso sia di Chieti, sia di Pescara, qui è stata varata la prima DOP per l’olio a livello europeo. La mia famiglia possedeva a fine Ottocento il più grande di questi frantoi, che poi per vicissitudini varie è stato venduto. Alcuni anni fa sono riuscito a costruirne uno nuovo, in altro luogo, che è oggi uno dei più moderni dell’Abruzzo. È una cosa della quale sono abbastanza fiero, perché mi riporta alle radici familiari, a ciò che abbiamo sempre fatto».
Parliamo del vino della famiglia, ora. La prima traccia che hai, che sia riconducibile a un tuo avo, a quando data?
«Ai primi dell’Ottocento, su quei registri di contabilità in cui si accenna anche alla data di inizio delle vendemmie. In famiglia abbiamo sempre scritto tutto, ho armadi pieni di libri e quaderni colmi di appunti e annotazioni; tanto che il dipartimento di fisica meteorologica dell’Università di Pescara ha potuto svolgere una ricerca sugli anticipi vendemmiali negli ultimi due secoli basata quasi esclusivamente sui registri di questa azienda. Lo studio è stato poi pubblicato su una rivista americana importante».
E che dati sono venuti fuori?
«Che dai primi dell’Ottocento e per quasi due secoli le nostre due varietà principali, Trebbiano e Montepulciano, sono state raccolte, rispettivamente, nella prima settimana di ottobre e intorno alla metà dello stesso mese. A partire circa dal 1985 e fino ai giorni nostri, si è constatato un anticipo vendemmiale marcato e continuo, coincidente con l’aumento delle temperature medie. Oggi siamo spesso alle prese con la vendemmia a inizio settembre, e mi è persino capitato di raccogliere a fine agosto. Con il cambiamento del clima, è cambiato anche il vino, perché è cambiata l’uva da cui si ottiene. Oltre al fatto che le bucce sono più spesse, stratagemma che la pianta stessa adotta per ridurre l’evaporazione, è aumentata la concentrazione degli zuccheri, perché gli acini tendono a disidratarsi, e la maturazione zuccherina arriva in anticipo, sovente quando non è ancora completata quella fenolica, per esempio quella dei tannini del montepulciano».
È per questo che hai diradato l’uscita dei tuoi Montepulciano d’Abruzzo? Hai saltato diverse annate, ultimamente.
«Sì, esattamente per questo. Non erano vini per me equilibrati».
Io conosco te da molti anni, ho conosciuto tuo padre Edo- ardo e ho sentito parlare, da voi due, di tuo nonno Camillo. Ma degli antenati precedenti non so nulla. Chi c’è stato, di importante per l’azienda?
«Quel signore lì con i baffi a manubrio che vedi nella foto incorniciata. Si chiamava Gaetano Valentini ed era il nonno di mio nonno Camillo, un uomo nato negli anni Trenta dell’Ottocento. Il padre di Camillo, invece, un Edoardo Valentini da cui mio padre ha preso il nome, non si interessava di agricoltura: era musicista, compositore e direttore d’orchestra, intimo amico di Puccini e di Mascagni. Era nato nel 1868, aveva studiato a Bologna ed è stato il primo a dirigere un’opera di Wagner in Italia, il Tannhäuser. Un personaggio; ma nella nostra storia c’entra poco. Chi ha realmente insegnato tutto a mio padre Edoardo non si chiamava Valentini, perché era il mio nonno materno Leonardo Palladini, ingegnere e architetto, il braccio destro di Gino Coppedè a Roma. Ne sapeva parecchio di agricoltura, per cui aveva una passione speciale; aveva un’azienda qui a Loreto, con viti di Trebbiano, che era bravissimo a vinificare. Aveva due figlie femmine, e mio padre, che aveva sposato una delle due, gli era molto legato. Le tecniche di vinificazione che ha adottato gliele ha suggerite questo Leonardo».
Si interessava di altro, tuo padre, prima di “darsi al vino”?
«Di tutto, ovviamente: di frutticoltura, di selezione dei grani, di olivicoltura; ma essenzialmente di zootecnia, ossia di allevamento. La passione per l’enologia l’aveva già, solo che in azienda poteva coltivarla poco. Alla fine degli anni Sessanta, con il crollo dell’economia zootecnica in Italia, fu quasi logico farla diventare prioritaria. Questo era, se vuoi, il vantaggio di avere alle spalle un’azienda agricola complessa: il fatto di poter riconvertire l’attività indirizzandola sui segmenti produttivi più al passo con i tempi e con la richiesta del mercato senza dover stravolgere nulla. L’agricoltura non è un concetto ristretto, specialistico; presuppone un sapere, e un saper fare, ad ampio spettro».
In un certo senso, il saper fare di necessità virtù.
«È chiaro. Quello aziendale verso il vino fu un transito avvenuto intorno al 1966-1967, poco prima che in Italia si assistesse anche all’aumento dell’interesse a livello di letteratura, con gli scritti di Soldati, Veronelli e altri, e uno spazio nuovo riservato alla materia sui grandi settimanali. Questo aiutò tutto il comparto a crescere, e quindi anche noi».
E quella conoscenza agricola ad ampio spettro si è persa, secondo te?
«Totalmente. Ora abbiamo dei tecnici, come in altri settori: pensa alla medicina. I medici di un tempo avevano, diciamo così, una cultura dell’essere umano nella sua interezza. Il mio vecchio medico di famiglia, il professor Sciarra, non sbagliava una diagnosi; toccava, ti faceva camminare, ti osservava, poi vaticinava, ti curava e ti guariva. Adesso abbiamo quelli che sanno curare l’indice della mano destra ma hanno dei problemi a curare l’indice della sinistra, per il quale ti indirizzano ad altro specialista».
Usi questo paragone perché avvicini l’essere umano nella sua interezza all’azienda agricola nella sua interezza?
«Assolutamente, io lì volevo arrivare. Un tempo c’erano gli agricoltori (scandisce la parola, ndr). Ora c’è una serie infinita di figure professionali specializzate; talché si è persa di vista l’immagine generale dell’azienda agricola, per mettere a fuoco il particolare, sempre più piccolo, sempre più limitato; e si perdono di vista i legami tra questo particolare e il tutto. È l’errore più grande che, come sistema agricolo, abbiamo commesso. Perché in agricoltura tutto è legato a tutto, e il particolare non è che la conseguenza del generale. Se non hai una conoscenza dell’insieme, non puoi arrivare mai alla comprensione del particolare».
Sto per fare una domanda che forse troverai strana. Hai mai pensato che l’esperienza zootecnica di tuo padre Edoardo possa avere avuto un riflesso nelle sue convinzioni in tema di vino?
«È tutt’altro che una domanda strana, e la risposta è sì, l’ho pensato e lo penso. Il discorso è questo: se hai una forma mentis, un’impostazione e un’educazione di un certo tipo, la applichi a tutto, sia che tu sia un allevatore di bestiame sia che tu produca vino, olio o altro. Mio padre Edoardo ha sempre fatto le cose con estrema, maniacale cognizione di causa; ha elaborato regimi alimentari sostenibili per gli animali come poi avrebbe fatto, se mi passi l’espressione, con il nutrimento per la terra dei vigneti. E ha visto moltissime nascite nella sua attività allevatoria. Quando poi scriveva o dichiarava – lo riportasti anche tu, me lo ricordo – che il mestiere di produttore di vino somigliava non a quello di un creatore ma a quello di una levatrice, aiutando il prodotto a nascere senza interferire nel suo concepimento, si riferiva al suo stesso approccio, basato sul rispetto della natura, della sua forza, dei suoi cicli e dei suoi riti».
Tu quando entri in azienda?
«La mia prima vendemmia è stata quella del 1981, avevo vent’anni, essendo io del 1961: quindi sto per effettuare la mia quarantacinquesima vendemmia. Avevo iniziato a seguire mio padre dopo il liceo classico, frequentato a Pescara; mi ero da poco iscritto ad Agraria a Firenze, un percorso accademico che non avrei poi completato, sostenendo una dozzina di esami».
Ti sono serviti, quegli esami?
«No. Ma mi è servito uscire da Loreto, almeno per quei tre anni. E parlo di mentalità. Avevo la fortuna di avere dei parenti a Firenze, mio zio Italo Mereu era professore universitario nella facoltà di Giurisprudenza, era un uomo coltissimo come del resto mia zia: li appassionavano la letteratura, l’arte, la musica classica, il teatro. Mi appoggiavo a loro, mi hanno portato ovunque. In questo senso i miei anni universitari mi sono stati utili. Poi sono tornato qui, non solo più nel periodo della vendemmia, ma stabilmente».
Quando è mancato tuo padre, nel 2006, avevi quindi già venticinque vendemmie di esperienza.
«Sì. Oltre a lui avevo avuto tanti maestri e grandi esempi di professionalità, ma è a mio padre che devo il metodo di lavoro che alla fine ho adottato. Compresa l’abitudine, che aveva anche lui, di scrivere tutto, di appuntare tutto. Ogni tanto mi dava i compiti».
In che senso?
«Mi diceva, magari era febbraio, o dicembre, comunque in periodi di relativa stasi: “studiati la vendemmia del 1973”. Oppure: “riprendi i quaderni del 1976”. E io aprivo gli armadi, consultavo i quaderni e i libroni scritti a mano da lui o da nonno Camillo, e me li studiavo. Secondo lui era un modo intelligente per evitare di ripetere degli errori commessi in passato, o per capire cosa fosse meglio fare in presenza di determinati problemi o caratteristiche dell’annata che arrivava».
E poi?
«Poi mi chiedeva se avessi studiato. E io: “sì”. E lui a quel punto mi faceva domande per verificare che fosse vero. Oppure mi poneva questioni su potature, gestione della chioma, eccetera, chiedendomi cosa avrei fatto io nei casi che elaborava in via teorica. Ovviamente c’erano risposte giuste e risposte sbagliate. Praticamente, io vendemmiavo tutto l’anno. Questa è stata la mia scuola».
Avete sempre e solo prodotto i vini classici che conosciamo, cioè Trebbiano, Cerasuolo e Montepulciano? O avete fatto esperimenti su altre varietà o tipologie? Tuo padre era il tipo.
«Qualche esperimento mio padre lo ha anche fatto, poi ne parliamo, ma non è mai andato oltre la curiosità personale; andare in bottiglia con gli “esperimenti” non è mai passato per l’anticamera del cervello né a lui, né a me. Del resto, se parliamo di trebbiano e montepulciano, parliamo dei più grandi vitigni del mondo» (Ride. Non capisco se sia serio o no. Probabilmente sì).
C’è un motivo specifico per questa scelta?
«Due motivi. Uno: i tempi in cui sono state fatte queste scelte. Oggi conosciamo le potenzialità interessanti di altri vitigni autoctoni del luogo, come il Pecorino; ma negli anni Settanta non se ne parlava neanche. Due, l’acclimatamento. Non abbiamo mai pensato di introdurre nei vigneti uve di altri luoghi: trebbiano d’Abruzzo e montepulciano sono qui da tempo immemorabile, e hanno sviluppato una sinergia vera con tutti gli elementi dell’ambiente, dal suolo al clima, dal sottosuolo al vento. Il trebbiano locale è, appunto, una variante locale; è diverso dal trebbiano toscano, che a un certo punto nel Centro Italia tutti hanno cercato di piantare; noi abbiamo difeso il nostro con la massima energia possibile».
Cosa ha di particolare il trebbiano d’Abruzzo?
«In linea di massima, il trebbiano non ha una buona fama; ma questo che matura qui è diverso dagli altri anche morfologicamente. È una varietà antichissima, il trebulanum degli antichi romani. Ha un grappolo piramidale, piuttosto spargolo, alato nella parte superiore; dà un vino con caratteristiche di profumo e sapore totalmente a sé stanti. In azienda lo abbiamo da sempre, è il meglio che questa terra possa dare. Lo lavoro in modo artigianale, assecondandolo, come faceva mio padre, che sulla vinificazione del trebbiano si è formato professionalmente».
Parliamo di ambientamento: rispetto al montepulciano, il trebbiano ha altre “pretese”, altre necessità?
«No. Ci sono delle regole di base, che si sono un po’ trasformate perché il clima è cambiato, ma che sono comuni alle due varietà. Prima regola, inderogabile: devono essere piantate in collina, in declivio, le zone basse e quelle di fondovalle non vanno bene, e non per questioni filosofiche o filologiche ma semplicemente per scongiurare le fitopatologie dovute ai ristagni di umidità, prima fra tutte la peronospora. Seconda regola: terreni non troppo argillosi, quindi ben drenanti, e se possibile calcarei, alcalini, antichi fondali marini (prende una scatola, la apre e me la passa: è piena di fossili e conchiglie, di dieci, anche quindici centimetri di diametro). La terza: un’esposizione oggi non troppo calda, qui va benissimo anche il nord».
Ci sono disciplinari in Italia che vietano le esposizioni a nord.
«Penso che in vari territori occorrerebbe aprire quantomeno un dibattito sul tema».
E quanto alla forma di allevamento?
«Qui entrano in gioco anche fattori economici. La spalliera consente la possibilità di lavorazioni meccaniche e finanche della vendemmia meccanica, cosa per me impensabile se si punta a un vino di qualità. Ma al di là di questo aspetto, la forma ideale di allevamento varia da zona a zona; qui io ho sempre trovato ideale la pergola abruzzese – mi raccomando di non scrivere “tendone” – che presenta diversi vantaggi. Crea un manto di vegetazione e protegge dall’irraggiamento diretto; nelle esposizioni a nord, lascia entrare aria fresca costante nel vigneto, e io penso che il primo trattamento per una vigna sia proprio l’aerazione; e infine, distanzia le uve dal terreno, e di conseguenza dal calore della sua superficie, specie qui dove abbiamo matrici calcaree, che si scaldano molto. Quando mi siedo all’interno di una delle nostre pergole, io sento fresco, a qualunque ora del giorno; e se sto bene io, penso, sta bene pure l’uva. Prova ad andarti a sedere sotto un filare alle tre di pomeriggio di agosto in questa zona».
E tu hai solo pergole?
«Solo pergole, sia per il trebbiano sia per il montepulciano. Mio padre provò a sperimentare qualche filare, come ti dicevo prima, ma io non ne sono mai stato contento, da nessun punto di vista. C’erano anche varietà diverse su quei filari, c’era il trebbiano toscano, lo chardonnay, altre cultivar».
Lo Chardonnay di Valentini. Questa, poi...!
«Calma, calma, mica lo abbiamo mai imbottigliato! Usavamo sempre la stessa botticella, la numero 15, per lo chardonnay, ma veniva questo sciroppetto per la gola, un bianco senza nerbo, profumato, molto aromatico, pure troppo. Non era proprio cosa».
Montepulciano e trebbiano sono in quote uguali nei tuoi vigneti?
«Il montepulciano attualmente ha un po’ di superficie in più, ma io in futuro vorrei aumentare la quota di trebbiano».
C’è un motivo?
«Sì. Perché mi piace di più. Io sono il primo cliente di me stesso. E poi di rossi buoni in Italia ce ne sono tanti, di bianchi meno».
Tu sarai anche il primo cliente di Valentini, ma dietro di te c’è una fila sterminata di clienti veri e aspiranti tali. Quali sfide pone il mercato odierno a una cantina come la tua?
«Quella di saper interpretare i cambiamenti climatici per mantenere alta la qualità del vino, e la vocazione percepita del luogo dove sei. Si tratta spesso di dover fare delle scelte nuove, per cui non aiutano i quintali di appunti presi da me o dai miei antenati, perché si presentano problemi che non si erano mai verificati in passato. Si tratta di scegliere luoghi diversi da quelli di un tempo per gli impianti di nuovi vigneti, sono cambiati i parametri e bisogna essere flessibili, disposti a rimettere tutto in discussione. Prima avevamo 180 ettari di cui circa 75 a vigneto, oggi la terra è di più e il vigneto di meno, abbiamo 250 ettari, ma il vigneto ammonta a circa 60, però secondo me occupiamo zone più vocate per i tempi che corrono».
Non hai una distribuzione nazionale.
«No; mi appoggio a qualche distribuzione per l’estero, ma per l’Italia ci sono Elena e Alice. Elena, come sai, è mia moglie: Alice collabora con noi. Fine. Il vino si chiede qui direttamente. È davvero tutto artigianale, te lo dicevo: io sono l’agronomo e l’enologo, e mio figlio Gabriele mi segue. Ha 32 anni, si è laureato in economia aziendale, e lavora in cantina da quando ne aveva diciotto: ha iniziato anche prima di me».
Parliamo del Trebbiano d’Abruzzo, il vino che approfondiremo nella verticale; come viene prodotto?
«Non è un argomento interessante, credimi: qui tutto è estremamente semplice. Lavoro da artigiano figlio di artigiani, con la mia famiglia; la partita si gioca tutta in vigna. Le scelte che mi tolgono il sonno sono quelle da fare in vigna, non in cantina, perché la mia idea è poter fare il vino con l’uva che voglio io, della qualità che sogno io e con determinate caratteristiche. In particolare, è fondamentale la scelta del momento giusto per raccogliere: se il vino è molto buono, non è perché mi sono inventato chissà cosa in cantina, ma perché ho indovinato quella data, quella in cui i vinaccioli sono maturi, la buccia sana, la polpa staccata, i tannini dolci, l’acidità ancora incisiva, eccetera. In cantina non aggiusto niente; quindi, la prima cosa è l’uva sana, con la giusta maturazione zuccherina e fenolica. Una volta che hai quest’uva, fare un vino buono non è difficile, diciamoci la verità».
Ma “quest’uva” la devi pur avere.
«Io faccio così: se mi rendo conto che l’annata è calda e siccitosa, e che le acidità saranno tendenzialmente basse al momento della vendemmia, raccolgo una certa quantità di uva, una percentuale minoritaria e da determinate zone, in epoca precoce: avrò su quella massa delle acidità elevate e bassa gradazione alcolica; vinifico e metto da parte. Poi vendemmio nei tempi ordinari quasi tutto il rimanente, ma non tutto; e lo vinifico. E infine raccolgo e vinifico il residuo tardivamente; sono uve con potenziale alcolico ed estrattivo alto e acidità ormai basse. Mi ritrovo quindi con tre vini totalmente diversi, tenuti separati, vinificati e maturati in legno. Quello che va in bottiglia, se ci va, è un taglio, diverso da annata a annata, delle tre masse, assemblato e lasciato riposare per il tempo giusto, anche qui sempre differente. Faccio alla fine un mestiere simile a quello del cuoco: un assemblatore, uno che non costruisce, ma mette insieme quel che Madre Natura gli dà».
Anche le vinificazioni sono semplici, immagino. (Ridendo)
«Certo. Vedi, io faccio dell’archeo-enologia. Presse verticali. Niente inoculo. Niente aggiunte. Niente, salvo un po’ di solforosa».
E l’oggetto più tecnologico che hai in cantina oggi? (Ci riflette a lungo. Poi alza gli occhi).
«Forse la pompa».
E che ha di speciale?
«Niente».
E le analisi le fai?
«Le faccio, ma mi fido soprattutto di quella organolettica; quella che viene dal laboratorio della mia bocca».
Una volta vinificato e assemblato, il tuo Trebbiano va in botte.
«Sì, e ci resta un anno. Sono botti di varia forma e capacità, dai 10 ai 73 ettolitri, e di età anche molto diverse. Ne ho dismesse alcune negli ultimi anni che risalivano all’epoca napoleonica, erano di castagno: ora tutto il legno è di rovere di Slavonia. Dopo l’anno di maturazione, il vino va a invecchiare in bottiglia e mediamente ci sta tre anni in santa pace. Non cerco e non stimolo la malolattica; capita che la svolga in bottiglia, ma si tratta sempre di quantità di malico abbastanza modeste. Dopo questi quattro anni, viene messo in commercio. Siamo nel 2025, e il Trebbiano che sta per uscire ora è infatti il 2021. L’ideale sarebbe uscire ora con il 2020, ma...».
...ma va bene anche il 2021, dai.
«Non si può avere tutto dalla vita». ◆
LA DEGUSTAZIONE
La degustazione ha avuto luogo in due tempi e luoghi separati. Alcune annate sono state degustate a Loreto Aprutino, in occasione della visita di cui si dà conto nell’intervista che avete letto. Per la massima parte, le bottiglie sono state assaggiate in occasione di un evento organizzato il 16 settembre 2025 dal Treviso Wine Club, al cui presidente Massimo D’Isep e ai cui soci tutti l’autore intende rivolgere qui un sincero, sentito ringraziamento. Stimolati dalle riflessioni di Francesco Paolo Valentini, abbiamo cercato di tracciare un limite temporale tra le annate “figlie” del cambiamento climatico e quelle che lo hanno preceduto. In effetti, la nostra ricognizione ha evidenziato un millesimo da posizionare più o meno in corrispondenza con questo diaframma: il 2006, da una piccola riserva di sfuso imbottigliato. Il Trebbiano successivo, tra quelli provati, ossia il 2010, presenta dei caratteri diversi di ampiezza, dolcezza d’insieme e morbidezza gustativa, difficili da trovare nelle edizioni precedenti, che risultano più chiaroscurate, mediterranee, viscerali. Quando però la stagionatura del vino tocca i 35 anni o li supera (in questo caso i Trebbiano 1988, 1986 e 1977), emergono una finezza di tocco e una complessità aromatica tali da collocare questi bianchi nel novero dei più grandi mai prodotti in Italia.
Siamo partiti dalle annate più recenti, con una bella sorpresa in apertura. Il Trebbiano d’Abruzzo 2020 - da uve vendemmiate a ottobre, come un tempo - non può infatti fungere, come credevamo, da archetipo dell’espressione attualizzata di questo vino. Vive invece di un’eroica freschezza, che segue la percezione di un bouquet di vasto respiro, agrumato, balsamico e con cenni minerali che il finale di bocca, affilato e preciso, rilancia ed enfatizza. È un bianco al laser, che deluderà solo chi, in questo stile affusolato e “verticale”, non ritrova la carnosa gagliardia delle vecchie annate valentiniane, magari rimpiangendola: ma non contate chi scrive tra costoro. La ricerca di archetipi del nuovo corso, e del suo clima impazzito, trova invece un approdo sicuro nel Trebbiano d’Abruzzo 2017, provato subito a seguire. È accaduto di tutto, nei vigneti: inverno stranamente caldo, gennaio artico a -10°C, un terremoto, una nevicata a metà aprile, la dura gelata del 22 dello stesso mese, cinque grandinate entro il 20 maggio, fine mese con peronospora larvata al grappolo e oidio diffuso, quindi una tromba d’aria a metà giugno, tre grandinate a luglio. Eppure, il vino c’è, e non è quel che ci si aspetterebbe, cioè un pugile suonato: sono bastati un agosto e un settembre perfetti per plasmare un profilo dagli aromi avvolgenti, che ricordano gli odori lindi della campagna estiva (sementi, frumento, fieno, fiori di campo, terra smossa). Questo Trebbiano ha un contegno gustativo esile, ma talmente sapido da conferire all’assaggio un tono generale austero e composto; gli manca un po’ di slancio, ed è comprensibile, ma per come è andata la stagione il risultato finale è una prodezza.
Quello tra 2014 e 2015 è stato in Abruzzo l’inverno più caldo dal 1891. Il Trebbiano 2015 è nato poi al termine di un’estate con lunghi periodi di siccità assoluta, intervallati da poche, violente piogge (Francesco Paolo parla di andamento “tropicale”). Le vigne, dal canto loro, devono aver trovato le adeguate contromisure, perché il vino è un esempio di eleganza. Ha profumi soavi, quasi dolci se rapportati ai nervosi classici di un tempo, ma non manca, dopo una mezz’ora di ossigenazione, di svelare lati temperamentali più ombrosi e indocili; e la bocca, intessuta a trama serrata, conserva un’idea di astringenza che, se ci passate l’espressione, “fa” molto Valentini. Il nuovo assetto climatico ha dato origine anche al Trebbiano d’Abruzzo 2012, un vino magari non proprio emozionale, ma interessante. Se n’è parlato poco, tutto sommato, e l’assaggio ha spiegato almeno in parte la ragione di questa sua fama più sfuggente del solito. Il colore è molto chiaro; si coglie nel bouquet qualche suggestione floreale (iris, glicine), assente nel 2015, ma l’assaggio ne rivela una minor compattezza. L’uscita è su note minerali chiarissime, il sapore è morbido e diluito, diremmo “garbato”; ma lo rinfranca un’acidità insperata. La persistenza, nitida nel disegno, è ben calibrata in lunghezza e suggestiva in ampiezza. Può andare ancora avanti nel tempo, ma a nostro avviso difficilmente sarà mai migliore di com’è oggi da bere.
Il contrario pensiamo del Trebbiano d’Abruzzo 2010, bottiglia in stato di grazia nel momento del nostro assaggio. Qui davvero non c’è fretta, e anzi confessiamo curiosità – e un convinto ottimismo – sulla gittata della sua traiettoria futura. Il naso concilia due opposti: una profondità olfattiva vertiginosa, patrimonio comune alle grandi edizioni di questo vino (è un tourbillon: buccia di pesca, pappa reale, frumento, nocciola verde, sali termali, malto) e uno stile universale e aggiornato.
Si accennava in premessa all’estemporaneo assaggio di un campione, imbottigliato ma non commercializzato, del 2006 anno della scomparsa di Edoardo Valentini, il leggendario padre di Francesco Paolo. Dal punto di vista della tenuta, considerando ciò che è (uno sfuso), trattasi di un prodigio: ha riflessi verdolini dopo vent’anni e un profumo intatto, ma decisamente singolare, timbrato, e onestamente limitato, da un curioso lascito fluviale (per la verità, anche pluviale: odora di pioggia). La prima e la più giovane delle quattro annate precedenti il global warming è la 2001: un bianco che ricordavamo carico, ostile, ruvido e polveroso, ritrovato invece a un quarto di secolo di vita in condizioni più che confortanti, come se si fosse liberato da una zavorra. La sua parabola, beninteso, ha già conosciuto il culmine; le note di resina e cuoio, quelle più brumose di fondo di caffè, ginepro e corteccia, la scabra verità del sorso, l’uscita rugginosa ed ematica, ne segnalano la trasformazione terziaria. Non un vino sexy, no davvero; ma di sicuro, se ha perso qualcosa lungo la strada, non è la capacità di accompagnare i piatti della cucina regionale dall’impeto selvatico quanto il suo, che non sono pochi. Abbiamo ritenuto di saltare a piè pari i millesimi degli anni Novanta, diversi dei quali in assetto problematico ai giorni nostri per le varie, e ahinoi imprevedibili, fermentazioni malolattiche svolte in bottiglia (accade sovente con la 1998, la 1997, la 1996 e la 1992; talvolta anche con la 1994). Il consiglio è di aspettarle almeno dieci o dodici anni da ora, senza alcun timore che ossidino, a meno di non voler rischiare di stappare un vino pétillant, o - nel caso di malolattica recente - inficiato da sentori proteici e “cerottosi”, esaltati da piccole contaminazioni da Brett frequenti nella cantina di allora.
Hanno perciò chiuso la degustazione tre annate vinificate da Edoardo Valentini, e che a buon diritto possono definirsi storiche: la 1988 (assaggiata a Loreto), la 1986 e la 1977 (a Treviso). Al netto delle iperboli, si tratta di tre capisaldi del vino italiano del Novecento, nonostante marcate differenze reciproche. Il Trebbiano d’Abruzzo 1988, riassaggiato nello stesso ristorante dopo dieci anni dall’ultima volta (2015), è identico a com’era. Procede lentissimo nel suo percorso evolutivo, pressoché arrestatosi su una fisionomia gustativa stretta intorno a un nucleo di frutto pulsante, maturo, quasi esotico, attorno al quale si coglievano e si colgono accenti linfatici (clorofilla, acetosella), più cupi di timo e alloro, l’immancabile rimando al chicco di caffè, commerciacenni di patata cruda, fieno, nespola, asfalto, una netta nuance resinosa. La bocca è salda, materica, energetica, di una particolare bellezza che Edoardo avrebbe definito “rurale”, nella quale la suggestione emotiva supera l’esattezza delle proporzioni. La quale esattezza, impreziosendo una forma estetica di abbagliante luminosità, ha reso memorabile l’esibizione del Trebbiano d’Abruzzo 1986. Descriverne compiutamente il bouquet con le parole è operazione velleitaria: ci proveremo per assonanze. Ne ricordiamo la molteplicità espressiva, aperta a toni agrumati di tè Earl Grey e chinotto, a sfumature di pasticceria e di panificazione – c’è una nitida nota di pane di segale nei nostri appunti – e ancora citazioni erbacee con un che di aspro, rimandi alla frutta secca tostata, alla salsedine, alla terracotta. La bocca, impressionante per coerenza tra sapore e profumi, è intatta, ampia, voluminosa, estesa in lunghezza su toni potentemente minerali di iodio e gesso: l’insieme, tutt’altro che timido, è tuttavia un prodigio di armonia. Infine, il celeberrimo Trebbiano d’Abruzzo 1977, citato da molti critici, italiani e non, come un vanto per l’enologia nazionale e uno dei suoi esiti più brillanti di sempre. È ancora oggi un bianco stupendo, di perfetta simmetria, giocato sul dialogo tra rigore minerale e soavità aromatiche. Inflessibilmente contegnoso persino dopo un’ora e mezza all’aria, rimane nel ricordo come il più elegante, classico e distinto della verticale intera. Un bianco, peraltro, forse irripetibile, così espressivo e insieme così misurato nella persistenza, che sfuma in un perfetto nitore. E dire che le cose erano partite in modo controverso. La commercializzazione del 1977 iniziò cinque anni dopo, nel 1982; valutato in azienda, si presentava però ancora troppo giovane e non ancora pronto. Luigi Veronelli lo assaggiò e lo stroncò, opinando in un articolo come non fosse all’altezza dei migliori Trebbiano degli anni precedenti. Edoardo Valentini ribatté in una lettera, con garbo, che ne avrebbero riparlato, perché era a suo avviso una questione legata alla lentezza evolutiva, una chiusura solo transitoria. Si incontrarono in casa Valentini vent’anni esatti dopo la stroncatura, pochi anni prima che entrambi morissero, alla presenza di Francesco Paolo. «Io mi ricordo la scena come fosse ora», ci ha raccontato. «Il vino era straordinario, e Veronelli dovette ammetterlo; per due ore, non parlarono d’altro. Il grande giornalista decise allora di scrivere un nuovo articolo sul Trebbiano 1977, e gli trovò un bel titolo: “Cenere in capo”». ◆

