Il vino argentino: figlio dell’Italia e delle montagne

Il vino argentino: figlio dell’Italia e delle montagne

Mondo Vino
di Ilaria Ranucci
29 aprile 2020

Viniplus di Lombardia - N°18 Marzo 2020. A fine Ottocento l’immigrazione italiana svolse un ruolo determinante per la crescita della viticoltura in Argentina. Oggi aumentano gli investimenti, le strutture e la presenza estera

Tratto da Viniplus di Lombardia N°18 - Marzo 2020

Clicca sull'immagine per scaricare l'articolo in formato PDFCLIMA CONTINENTALE, INFLUENZATO DALLE ANDE

Se il vino della California, del quale abbiamo parlato nell’ultimo numero di questa rivista (Viniplus N 17 - settembre 2019), si può definire figlio dell’Oceano, perché fortemente influenzato dalla vicinanza del Pacifico, quello argentino è più di ogni cosa figlio delle montagne. Le Ande, infatti, giocano un ruolo fondamentale, prima di tutto perché bloccano l’irruente influenza del Pacifico, che invece marca, oltre alla California, il vicino Cile. Non a caso il paesaggio di Mendoza, di gran lunga la principale area vitivinicola dell’Argentina, è caratterizzato dai meravigliosi profili del monte Aconcagua e delle vette vicine, di altitudine superiore a 6.000 metri. Il primo effetto delle montagne è fermare i venti freddi oceanici, che non riescono a influenzare le vigne con il loro impatto moderatore sulla temperatura. Soprattutto anche l’umidità si ferma sul versante occidentale delle Ande e l’irrigazione è indispensabile per la coltivazione della vite. Per fortuna di chi produce vino, la catena andina blocca le piogge ma fornisce acqua sia dai fiumi che ne hanno origine che dallo scioglimento delle nevi. I primi canali per convogliare l’acqua ad uso agricolo sono stati costruiti dagli indigeni Hualpa tra il 1536 e il 1560. Per lungo tempo l’irrigazione è avvenuta per allagamento mentre oggi, soprattutto da quando l’acqua è diventata ancora più preziosa, si utilizza quella a goccia. Senza di essa, considerata la bassa piovosità sul versante orientale delle montagne (in media appena 220 mm. per anno a Mendoza, per fortuna concentrati durante il ciclo vegetativo della vite), persino una pianta parsimoniosa come la vite non riuscirebbe a sopravvivere.

La scarsità di acqua ha comunque almeno un beneficio: riduce il rischio di malattie fungine e quindi crea condizioni propizie per la viticoltura organica. Il vero rischio meteorologico per la viticoltura argentina, sempre determinato dall’influenza delle montagne, è la grandine, al punto che capita frequentemente di vedere reti anti-grandine nelle vigne. L’effetto delle montagne arriva anche alla terra stessa, perché molti dei suoli vitati sono nati dall’erosione di rocce del Quaternario, ad opera di fiumi e ghiacciai. Infatti, i suoli dei vigneti più vicini alle catene montuose sono tipicamente a grana più grossa, mentre quelli più lontani sono a grana più fine. Sono suoli spesso leggeri e profondi, poveri di materia organica e quindi adatti a contenere l’esuberanza delle viti. L’ultimo debito della viticoltura argentina con le montagne è il più evidente: per contrastare il clima caldo la maggior parte delle vigne, ad eccezione di quelle nelle zone più a sud, sono in altura. Anche sopra 3.000 metri. Ad esempio la parte prevalente delle vigne di Mendoza si trova tra 450 metri e 800 metri sul livello del mare, con punte di 1600 metri nella Valle de Uco. Per fortuna di chi deve lavorarci, la maggior parte dei vigneti non supera il 2% di pendenza, il che è fondamentale per la competitività del vino argentino sui mercati internazionali per contenere i costi di produzione con la meccanizzazione.
Se si considera che ogni 100 metri di altitudine equivalgono a circa 0,7° di temperatura media in meno, si comprende come l’effetto dell’altitudine sia estremamente rilevante nel determinare le caratteristiche di un vino e sia un fattore fondamentale nel determinare la scelta dei vitigni da impiantare o il loro successo. Consideriamo che Mendoza, che rappresentava nel 2018 circa il 75% del vigneto argentino, è tra 32° 43’ e 34° 58’ latitudine sud, e non beneficia dell’effetto rinfrescante dell’Oceano. In pratica solo l’altitudine ha consentito all’Argentina di essere il quinto produttore mondiale di vino con, secondo il “2019 Statistical Report on World Viticulture” dell’OIV, 14,5 milioni di ettolitri prodotti nel 2018.

UNA STORIA DI IMMIGRAZIONE, PREVALENTEMENTE ITALIANA

argentino ha un fattore determinante: l’immigrazione, soprattutto dall’Italia. Come in molti paesi del nuovo mondo, i primi tentativi di produzione di vino sono avvenuti subito dopo la prima colonizzazione, nel 1551, con fortune alterne e lunghi periodi di decadenza, sino alla seconda metà dell’Ottocento, quando l’arrivo della ferrovia, nel 1885, ha facilitato il trasporto e quindi la vendita del vino. Ma nello stesso periodo il vero drammatico cambiamento è stata l’immigrazione, soprattutto dall’Italia: secondo stime del Word Population Review, ancora oggi (dati 2019) il 55% degli argentini vanta origini italiane. Si tratta di un’immigrazione italiana con effetti molto diversi rispetto a quella verso gli Stati Uniti, poiché in questo caso il Paese era meno evoluto dal punto di vista dell’industrializzazione, meno popolato e gli italiani sono arrivati con la prima ondata di immigrazione. In Argentina gli immigrati dall’Italia hanno da subito trovato un ruolo importante nella società, influenzandone i consumi e raggiungendo posizioni prestigiose. Portavano con sé competenze di viticoltura che tuttora sono riflesse nel tessuto produttivo del settore vino. Per gli italiani di Argentina il vino era componente indispensabile dei pasti. Ancora nel 1970 il consumo pro capite annuo di vino era di 92 litri e quindi la maggior parte della produzione era destinata al consumo domestico, senza pretesa di raggiungere la qualità necessaria a competere sulla scena internazionale. Raccontano questa storia i dati diffusi da “Wines of Argentina”: nel 1993 veniva esportato solo il 2% della produzione; nel 1998 le esportazioni hanno raggiunto il 25%, dopo un percorso molto sofferto di ripresa del settore. Tra crisi economiche e mutamenti di abitudine, il consumo pro capite è precipitato a 19 litri nel 2018, e questa trasformazione è stato uno dei “carburanti” del miglioramento della viticoltura argentina, costretta a cambiare palcoscenico. Arrivandoci in pieno, di fatto, solo nel XXI secolo. Tra gli altri fenomeni che hanno contribuito al rilancio tardivo del vino argentino, certamente il quadro politico, con la fine dei governi militari e l’apertura del Paese alle relazioni internazionali solo dagli anni ’80 del Novecento. In questo periodo diversi produttori argentini hanno iniziato a viaggiare e imparare, iniziando a porre le basi per una maggiore qualità in vigna e in cantina. Uno su tutti, il più famoso, l’economista Nicolás Catena. Non è stato un rilancio facile. Il cambio forzato peso-dollaro, rendeva l’export molto difficoltoso, per la scarsa competitività della valuta. Nel 2001 il dramma: il collasso economico del Paese e la svalutazione del peso. L’investimento straniero in Argentina diventa improvvisamente molto conveniente e il gotha del vino internazionale investe nel Paese, con aziende interamente controllate o in joint venture con gli argentini. Anche Mendoza ha il suo Mondavi: la famiglia Catena Zapata crea una partnership con i Rothschild, CA-RO. Ma anche Antinori, Michel Rolland, Donald Hess, Château Cheval Blanc, Pierre Lurton e molti altri tra cui diversi italiani. E i giganti che dominano molti mercati: Pernod Ricard, Constellation Brands, Diageo, Allied Domecq. Il quadro attuale, a seguito della rivoluzione dell’ultimo ventennio, è di un Paese all’avanguardia in termini di investimenti e capacità produttive, fortemente aperto alle novità e con pesante presenza estera. La storia dei vitigni prevalenti riflette quella del Paese, con molte varietà portate dagli emigranti, prevalentemente usate per il vino da tavola degli argentini. Tuttora ci sono oltre 100 varietà ammesse, di più degli altri Paesi del cosiddetto Nuovo Mondo. Del totale di 218,233 ettari vitati nel 2018, il 73,2% era dedicato alle 10 principali varietà. Quando negli anni ’80 è iniziato il rinnovamento, molti, sull’esempio statunitense, guardavano soprattutto al cabernet sauvignon e alle principali varietà internazionali. Molte vecchie vigne piantate a malbec sono state purtroppo espiantate. Un peccato, considerando come poi, complice anche la ricerca di qualcosa di distintivo da proporre sui mercati internazionali, il malebec sia diventato il vitigno bandiera del paese.
Basta guardare le statistiche tra il 2000 e il 2018. Il malbec è più che raddoppiato, dal 8% al 20% della superficie vitata. Le varietà tradizionalmente usate per il consumo locale – cereza, pedro ximenez e criolla grande – hanno registrato una marcata contrazione. Tra i vitigni internazionali c’è stata una selezione “naturale” guidata dai mercati e dalla crescente conoscenza dei vigneti: in crescita cabernet sauvignon, syrah e chardonnay. In flessione il merlot, meno di moda, mentre è ancora minoritario, per quanto se ne parli, il pinot nero, presente in appena 2.000 ettari, di cui meno di 500 nelle zone più fredde del sud.

IL VINO ARGENTINO OGGI: NON SOLO MENDOZA E UNA IDENTITÀ IN CERCA DI AFFERMAZIONE

Molte delle zone vitivinicole argentine più interessanti sono “millennials”, o quasi, e solo nel 1999 è stato introdotto il sistema delle denominazioni. Prevede per il vino di qualità due livelli di denominazione: IG, che definisce solo l’areale e DO che definisce anche lo stile del vino e conta ad oggi appena un centinaio di aree a denominazione. Ancora nel 2018 il 95% degli ettari vitati si trovava nella regione di Cuyo che è, oltre a Mendoza, il famoso regno del malbec, diviso in cinque sottozone, comprende La Rioja, il cui primo vitigno è il bianco torrontés riojano, e San Juan, in cui la syrah strappa al malbec il titolo di primo vitigno rosso. Le altre regioni, seppur in crescita, hanno un peso decisamente minore, anche se tanto potenziale. Con i suoi circa 6.000 ettari il Nord rappresenta appena il 3% della superficie vitata. È la regione con le vigne a maggiore altitudine, a partire da 750 metri sino al vigneto più alto del Paese, nella regione di Jujuy a 3.329 metri. I nomi cominciano ad essere ben conosciuti: Salta, Jujuy, Catamarca, Tucumán. Tra i vitigni prevalenti, oltre al malbec, cabernet sauvignon e syrah tra i rossi e, tra i bianchi, il torrontés riojano. L’aspetto più affascinante della regione è senz’altro la forte irradiazione solare per effetto dell’altitudine, di cui si indaga l’effetto sulla concentrazione dei polifenoli delle bucce. Conta, invece, meno del 2% della superficie vitata, neanche 4.000 ettari divisi tra 5 province, l’immensa regione Patagonia e Atlantico. Le zone più a Sud – Chubut è oltre 45° latitudine sud – sono fresche e dal clima oceanico, raro nel paese in cui domina il clima continentale. Come raro è il fatto che molte vigne siano poco sopra il livello del mare. Un quadro in costante mutamento e molto più variegato di quanto non sembri, anche perché in Argentina, come in molti altri paesi produttori del Nuovo Mondo, è in corso una riflessione sul terroir e il suo ruolo chiave. Ne è la prova l’attenzione crescente ai cru, vini con il nome di un singolo vigneto, come anche alle vigne più vecchie. E, come in altri Paesi, è in corso anche una riflessione sui vitigni e parzialmente la riscoperta di quelli minori o di quelli, tipo il torrontéz riojano, in grado di donare espressioni interessanti se ben prodotti. Riflessioni non dissimili da quelle in atto in altri Paesi e che dimostrano come l’Argentina sia ormai a tutti gli effetti presente sui mercati internazionali. La sfida in atto è il collocamento su una fascia di prezzo premium e il rischio, per la verità maggiore per il vicino Cile, è di essere percepiti come produttore di vini buoni ma non di particolare interesse. Al momento l’Argentina è posizionata meglio del vicino per farcela, anche grazie al fascino turistico del Paese: il mercato interno in Argentina è molto più grande e, sullo scenario internazionale, il prezzo medio dei vini argentini esportati è significativamente maggiore di quelli cileni. Segnali forti, anche se la strada da percorrere è ancora lunga.