Cotoletta o costoletta alla milanese: le eccezioni che confermano la regola

Cotoletta o costoletta alla milanese: le eccezioni che confermano la regola

Non solo vino
di Andrea Grignaffini
18 marzo 2020

Viniplus di Lombardia N°7 - Settembre 2014. Con Andrea Grignaffini un excursus nella storia di uno dei piatti simbolo di Milano e della cucina lombarda fino ad arrivare alle interpretazioni più moderne

Tratto da Viniplus di Lombardia N°7 - Settembre 2014

Battuta, sbattuta, stirata, sfibrata, massaggiata, col burro, accarezzata o rispettata nel suo spessore originale, che è anche indice del taglio, il decalogo della costoletta alla milanese perfetta non è ancora stato depositato, e poco importa che la sua versione alla bolognese sia, invero, stata consegnata dall'Accademia Italiana della Cucina presso la Camera di Commercio di Bologna già dieci anni orsono. 

Era il 14 ottobre 2004 e già si stabiliva, per esempio, che la carne, di vitello o, al limite, di pollo, fritta nello strutto venisse fatta riposare in abbondante brodo di carne. Irrorate così le sue fibre, in una teglia veniva ricoperta con prosciutto e una generosa manciata di Parmigiano Reggiano. Ora, emiliane derive a parte, quello della cotoletta resta, nel Nord Italia, un rituale tanto discusso quanto apprezzato, al punto da indurre Ettore Bocchia, lo chef di quell'approccio culinario che alcuni hanno fatto coincidere con la scienza, a dedicargli una trattazione a parte. Dalla sua viva voce apprendiamo, per esempio, che si tratta, di costoletta e non di cotoletta, in un uso improprio che pare essere una filiazione fonetica della parlata settentrionale, principalmente lombarda, ma anche dal francese cotelette. Certo è che, in questo nostro panorama di riferimento, l'ibridazione tra tecniche e materie è la base del repertorio, ragion per cui non possiamo certo tacere la versione viennese, altrimenti conosciuta come Wienerschnitzel o Schitzel, più semplicemente, citata già nel 1798 all'interno del “Piccolo libro di cucina austriaca”, dove è descritta come una sottile fettina di carne passata nella farina, nell’uovo sbattuto e nel pane grattugiato e poi fritta nel grasso di maiale.

La sua versione milanese, più spessa, è documentata nella “Storia di Milano” di Pietro Verri, dove è nella lista delle vivande di un pranzo offerto nel 1134 da un abate per i canonici di S. Ambrogio nel giorno della festa di San Satiro: un pasto a nove portate che, tra le altre cose, parrebbe essere anche la prima attestazione scritta di quel documento che oggi tutti conosciamo come menu. Ma, tornando a Ettore Bocchia, da cui si è istillato il dubbio e scoperto l'arcano, si apprende che è necessario una specie di "sudario" in cui avvolgerla 24 ore prima della preparazione, in modo da estrarre l'acqua che poi, durante la frittura, andrebbe a rompere la crosta della panatura: questa, è realizzata con farina, uova sbattute e sale, quindi pane sbriciolato finissimo, più aderente, che faremo aderire ulteriormente alla superficie della carne battendolo con la parte piatta del coltello. Adesso la parte più importante: il burro chiarificato deve raggiungere una temperatura di 155°C, a partire dai quali si innesca la reazione di Maillard che, da bravo scienziato, aveva appunto intuito i fenomeni sottostanti all'interazione tra zuccheri e proteine. Un termometro resistente alle alte temperature, quindi, sarà l'alleato più prezioso, e l'abbondanza del burro non deve indurre in fraintendimenti circa la salubrità del piatto, giacché friggere con poco determinerebbe una cottura più lunga con un conseguente assorbimento maggiore del grasso.

Ora, appresa la regola è l'ora di concentrarci sulle eccezioni, giacché ce ne sono, e di altrettanto somme: a partire dal sommo per antonomasia, pure milanese, Gualtiero Marchesi che, con la sua Cotoletta 2000 rivisita la norma staccando l'osso dal cuore e utilizzando mollica di pan carré passata al setaccio ed essiccata. Quindi è la volta di Davide Scabin che la fa grossa, alla piemontese, a partire dalla carne, che predilige Fassona, vestita di una doppia panatura di farina, grissino e pane alla camomilla. Come Bocchia, anche in lui la prescrizione sulla frittura è forte: 200 g di burro, salvia e aglio in camicia, quindi 2 minuti in forno a 190° C e una leggera affumicatura con aghi di pino. Paolo Lopriore, invece, declina tutto in forma estremamente autoriale, la vuole nuova a tal punto da volerla cruda, la costoletta di vitello, che guarnisce appena appena di sale in fiocchi, fiori di zafferano fritti, e una salsa camouflage. Bei tempi, questi della carne così buona da esser servita cruda, tanto che la sua eco non è l'unica, ma si istituisce come variante accolta dal firmamento dei grandi, come dimostra la Milano sbagliata firmata da Carlo Cracco, che fa un panatura fritta, da sola, che adagia a lato della fetta di vitello cruda. In limine, la costoletta di Andrea Berton ai tempi del Trussardi: una panatura di solo tuorlo e "le interiora" del pan carrè passate al forno: quindi sei minuti per lato nel burro chiarificato e l'istituzione di una nuova regola, quella del tempo: della cui disciplina, nel piatto, una costoletta aperta diverrà emblema.

Nella foto di copertina: la cotoletta di Davide Scabin