Il nuovo corso di Marco Valeriani

Il nuovo corso di Marco Valeriani

Non solo vino
di Maurizio Maestrelli
13 maggio 2020

Viniplus di Lombardia - N°18 Marzo 2020. Mettere nome e cognome nel titolo è sintomatico della stima per questo birraio annoverato praticamente all’unanimità tra i migliori d’Italia. Dagli esordi al Birrificio Menaresta all’exploit con Hammer, il quasi quarantenne Valeriani non sembra sbagliare un colpo. Anche ora che è al timone, da armatore e comandante, di Alder Beer Co.

Tratto da Viniplus di Lombardia N°18 - Marzo 2020

Clicca sull'immagine per scaricare l'articolo in formato PDFE pensare che la prima birra a renderlo celebre si chiamava, e si chiama tutt’ora, “22 La Verguenza”, ovvero “la vergogna” in spagnolo con quel numero a ricordare la posizione ottenuta in un concorso per homebrewer parecchi anni fa. Riprodotta «paro paro» al Birrificio Menaresta di Carate Brianza dove lavorava, La Verguenza s’impose invece all’attenzione degli appassionati come una delle birre battistrada dell’allora nascente passione per le birre luppolate. Marco Valeriani da allora non ha più sbagliato un colpo e non ha mai deluso le attese. Che non erano poche, quando ad esempio fece decollare l’avventura del Birrificio Hammer di Villa d’Adda nella bergamasca. Due volte vincitore del titolo di Birraio dell’Anno, concorso con giuria di esperti di vario genere, dai degustatori seriali ai publican italiani più noti. Prima di lui non c’era riuscito nessuno. Poi, dopo il secondo alloro, l’annuncio di voler intraprendere un altro percorso. Mollando una nave per salire su una barca. Con la differenza fondamentale che, la barca in questione, è tutta sua.

«Diciamo innanzitutto che ho compreso che avevo maturato l’esperienza necessaria per mettermi in proprio», ci spiega mentre spilla le sue nuove “creature” al bancone della taproom del suo Alder Beer Co. in quel di Seregno, «il che vuol dire essere responsabile non solo dell’intero processo produttivo ma pure della salute finanziaria dell’azienda. Che sarà pur piccola ma deve stare in piedi. Una preoccupazione che, in Hammer, ovviamente non avevo. Poi ha contribuito anche il fatto che desideravo concentrami ancora di più sulla qualità della birra, senza concessioni di alcun tipo all’aspetto commerciale e distributivo perché è inutile prendersi in giro: quando arrivi a produrre cinque, seimila ettolitri devi accettare certi meccanismi distributivi che ti fanno perdere il controllo totale della filiera. Devi pensare a fare filtrazioni e a usare la centrifuga. Cose che io non voglio fare». Ecco, questo è Marco Valeriani che, pur non frequentandolo assiduamente e non potendo affermare di conoscerlo come le mie tasche, mi ha sempre colpito. Nelle sue affermazioni è concreto e diritto come una lama, non usa gettare quei “fumogeni” che molti produttori, non solo brassicoli, hanno imparato a lanciare davanti al giornalista di turno il quale, se non ha nel suo dna una sana dose di cinismo, li inala a pieni polmoni. La sua opinione sui festival birrari che sono diventati ormai numerosi come le zanzare in estate? «Non li faccio tranne quelli dove gli organizzatori acquistano la mia birra prima», taglia corto. «Non credo ai festival come volano di diffusione per la cultura birraria artigianale, preferisco il passaparola tra gli appassionati che non vanno confusi con i nerd. Più lento ma più efficace. Chi vuole sa dove trovarmi. Io voglio vendere la maggior parte della mia birra sul posto, quella che gira è venduta direttamente ai locali che conosco e che se la vengono a prendere».

Non c’è alcuna arroganza nelle sue parole, piuttosto il ricordo dello slogan primigenio, a volte quasi dimenticato, dell’americana Brewers Association. Quel “Support your local brewery” che rappresentava la punta di lancia dei piccoli produttori verso le multinazionali del malto e del luppolo. Un modo per differenziarsi certamente, ma anche il paradigma di uno stile diverso nel fare e parlare di birra. Chissà se le cose cambieranno per Alder nel prossimo futuro, qualora il successo abbastanza prevedibile della sua nuova avventura dovesse tentarlo. Al momento, «se quest’anno arriviamo a 1500 ettolitri è un miracolo», la tentazione è lontana. Invece la tentazione di fare un salto a Seregno la si deve accettare come avrebbe fatto Oscar Wilde che, per l’appunto, resisteva a tutto tranne che alle tentazioni. Alder Beer, il nome Alder è la traduzione inglese del nostro ontano, un albero particolarmente presente in zona, è praticamente “casa e bottega” nel senso che solo una porta divide l’impianto dalla taproom per un percorso che definire “due passi” non è una metafora e dove le birre alla spina hanno quei profumi e quella fragranza che si ritrovava nel pane dei fornai di una volta. Se poi non ci si accontenta di bere sul posto, per il mangiare basta organizzarsi e portarselo magari dopo averlo acquistato da esercenti della zona, sono disponibili i growler sotto forma di bottiglie in vetro riutilizzabili e le lattine, oggi da 33 cl ma presto portate a 40 cl, di tutte le birre prodotte o quasi. Come si fa a non uscire con almeno una piccola scorta? Noi non ci siamo riusciti.

Le birre da non perdere 

Per essere uno dei principali interpreti delle birre luppolate così tanto amate dal pubblico degli appassionati, Valeriani ci prende in contropiede spiegandoci che la birra preferita tra quelle che produce è la Deltacolt, una milk stout da 5,9% vol morbida e caffettosa, con un finale lungo che lascia cogliere una nota di cioccolato. Il sorso è confortevole come può esserlo una coperta che ti tiri addosso di notte quando ti svegli per il freddo. Da bere senza nemmeno chiedersi il perché, e soprattutto senza perdere tempo in riflessioni da “patologo birrario”, la Lewis una birra chiara ispirata ai modelli rurali della Franconia. Rustica, pulita, goduriosa nella sua presunta semplicità si lascia scorrere in gola con il suo 4,8% vol come una cascatella d’acqua fresca di alta montagna. Poi, essendo a casa Valeriani, ci sono i suoi “giochi di prestigio” più classici: la Yamada, un bouquet di profumi da 7% vol composto da Mosaic, Citra e Nelson Sauvin con la quale ti faresti la doccia. A bocca spalancata ovviamente. Incantevole davvero. E ancora la Gretna, 5,3 % vol, una spina dorsale di malti inglesi e tedeschi e una luppolatura a base di Citra, con solo un leggero tocco di Simcoe, solida e affidabile e la neonata Rockfield, una American Ipa da 6,8% vol dalle suggestive atmosfere tropicali e dall’entusiasmante finale.