La pils nata in Lombardia che ha conquistato il mondo

La pils nata in Lombardia che ha conquistato il mondo

Non solo vino
di Maurizio Maestrelli
22 luglio 2022

La storia della pils, uno degli stili birrari più diffusi al mondo, è abbastanza nota. Meno nota forse è la storia di una delle sue “varianti” di maggior successo, che guarda caso porta il nome di Italian Pilsner e che è nata proprio nella nostra regione…

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 22 Maggio 2022

A chi scrive di birra, incluso il sottoscritto, piace sempre molto parlare delle produzioni più creative e originali messe in campo soprattutto dai birrai artigiani italiani di prima e seconda generazione. Le birre a fermentazione spontanea, le Italian Grape Ale con mosto d’uva, quelle con cereali diversi dall’orzo e quelle che prevedono l’impiego di ingredienti capaci probabilmente di far rivoltare nella tomba un certo Josef Groll il quale a Pilsen, in Boemia, nel lontano 1842 creò una birra il cui successo mondiale dura tutt’ora. Già perché le pils o le pilsner che dir si voglia sono probabilmente quanto di più si avvicina allo stereotipo della definizione di birra che GIORGIO TANZI potrebbe avere in mente la famosa casalinga di Voghera. Un bel cappello di schiuma candida e fine, un profumo che ricorda l’erba appena tagliata, la crosta di pane, un cenno di miele e un corpo bilanciato con un finale corto e asciutto, leggermente amaro. Si tratta con tutta probabilità del tipo di birra più consumato nel mondo che tuttavia, proprio in virtù del suo successo, ha avuto interpretazioni differenti nel corso dei secoli. Oggi infatti si tende a distinguere almeno quelle che sono le pils tradizionali, non a caso dette Bohemian Pilsner, dalle pils ancora più “secche” prodotte nel Nord della Germania e da quelle, più rotonde e maltate, della Baviera.

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Ma, negli ultimi anni, a questo trittico mitteleuropeo di pils si è aggiunta una variante per così dire “latina” che giustamente porta il nome di Italian Pilsner. Italian perché nata dalla mente di un italiano, anzi di un lombardo come Agostino Arioli, fondatore e birraio del Birrificio Italiano sorto a Lurago Marinone e, da qualche anno, spostatosi con l’impianto a Limido Comasco. Nel 1996, quando aprì i battenti il primo birrificio artigianale di Lombardia, Arioli che non era un improvvisato tecnicamente e aveva anche gusti ben precisi in fatto di birra pensò subito di produrre una pils. Il suo tocco personale fu però di caratterizzare la birra ricorrendo alla pratica, allora ancora poco in voga, del dry hopping ovvero l’aggiunta di luppolo fresco al termine della bollitura cioè quando dalla luppolina si estraggono maggiormente gli aromi rispetto all’amaro tipico. Il risultato fu una birra da tutti i giorni, è non c’è assolutamente nulla di banale in questa definizione, ma anche dall’aroma fragrante, difficile da dimenticare e facilissima da riordinare. Nel tempo la Tipopils del Birrificio Italiano è stata considerata una birra iconica dell’intero movimento artigianal-birrario italiano e ha avuto diversi epigoni, da Giovanni Campari, allievo dello stesso Arioli e fondatore del Birrificio del Ducato, a Emanuele Longo del Birrificio Lariano, Lorenzo Guarino del Birrificio Rurale, Paolo Fontana del Birrificio del Carrobio lo, Stefano Simonelli del Birrificio Vetra. Non solo, il suo successo è andato ben oltre i confini dell’italica penisola. Due birrifici californiani considerati da tutti gli esperti come dei riferimenti di eccellenza della rivoluzione craft a stelle e strisce, Russian River di Santa Rosa e Firestone Walker di Paso Robles, hanno confessato di aver tratto ispirazione proprio dalla Tipopils di Arioli per le loro, rispettivamente, STS Pils e Pivo Pils. Oltre a loro alla tecnica del dry hopping per una pils hanno fatto ricorso i canadesi del birrificio Trou du Diable e i danesi di Slow Burn. Solo almeno per fare i nomi più noti anche dalle nostre parti.

Orgoglio patriottico a parte, il valore della Tipopils e delle altre Italian Pilsner non si riassume solo nella tecnica del dry hopping o nell’uso esclusivo di luppoli europei, tratto questo che le distingue da luppolature a freddo con varietà americane o neozelandesi che modificano in maniera radicale lo spettro aromatico della birra stessa rendendola più classificabile India Pale Lager, tanto per dire. Il vero valore della Tipopils e delle sue sorelle risiede nel messaggio che le birre artigianali possono essere prodotte senza ricorrere a ingredienti aggiuntivi particolari ma allo stesso tempo risultare più caratterizzate, memorabili e incisive rispetto alle cugine prodotte dai grandi birrifici. Perché nella loro contiguità verso queste ultime possono avvicinare quei consumatori che ritengono ancora la birra essere quella bevanda dal colore chiaro, la schiuma e il gusto leggermente amaro. E allora non è un caso se anche birrifici d’oltreoceano, là dove il movimento artigianale è nato e da dove si è poi diffuso, abbiano sposato la causa delle Italian Pilsner che costituiscono quel perfetto esempio, per dirla all’inglese, di “gateway beer” ovvero di birre “cerniera” o di birre “ponte” tra i brand più diffusi e il piccolo mondo della birra artigianale. Un esempio che, ci piace ricordare, è nato in Lombardia nel nemmeno troppo lontano 1996.