Sessant’anni di birra italiana

Non solo vino
di Maurizio Maestrelli
05 agosto 2025
In un Paese del vino come è da sempre l’Italia, la birra ha dovuto accontentarsi giocoforza di un ruolo di secondo piano. Tuttavia, gli ultimi sessant’anni hanno visto un settore piuttosto statico innestare la marcia tra slogan vincenti, stravolgimenti societari e l’avvento dei birrifici artigianali
Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 28 Maggio 2025
Negli Anni Sessanta un italiano beveva poco più di otto litri di birra l’anno. Nello stesso periodo il consumo pro capite di vino si aggirava intorno ai 120 litri. Lo scorso anno i consumi pro capite di birra hanno toccato i 36 litri, mentre quelli di vino si sono fermati a circa 26. Dieci litri in meno. Questi numeri, nello specifico, lasciano un po’ il tempo che trovano. Ci sarebbero così tanti altri elementi, culturali ed economici, da analizzare e da considerare che non saremo certo noi a concludere che ora l’Italia si debba considerare una nazione birraria e non enoica. Ma i numeri sono questi e qualcosa comunque vogliono dire. Negli Anni Sessanta la birra italiana significa Birra Peroni, soprattutto al centro sud, Ichnusa, concentrata in Sardegna, Birra Moretti e Birra Pedavena nel nord della penisola e Birra Forst, forte soprattutto nell’enclave altoatesina. Certo, ci sono altri nomi, da Wührer a von Wunster, da Dreher a Itala Pilsen, ma sembra di vivere in un clima di attesa: i consumi di birra sono quelli, le abitudini degli italiani pure, la quasi totalità dei prodotti nazionali in circolazione fa riferimento alla tradizione brassicola mitteleuropea, ovvero basse fermentazioni, luppolature controllate, distinzione semplice tra “bionda” e “rossa”.
Ma il mercato italiano, anche se al tempo non sembra, è tenuto sotto osservazione da diverse aziende straniere: è un mercato piccolo ma, proprio per questo motivo, destinato a crescere. La scommessa, almeno, era quella. Nel 1963 dunque si mosse il gruppo Oetker (quello che in Italia si chiama Cameo) con la sua Prinz Brau ma, soprattutto, si mosse Heineken. Il birrificio olandese aveva iniziato da tempo a cercare sbocchi di mercato all’estero e in Italia aveva già una piccola partecipazione nella Cisalpina, holding della famiglia Luciani proprietaria di Pedavena. Ma è il 1974 la data del “turning point”: con diversi birrifici italiani in crisi, gli Anni Settanta segnano un forte rallentamento rispetto al boom economico del decennio precedente, e Heineken rileva Birra Dreher con i suoi stabilimenti. È una scommessa vincente, perché nel frattempo anche le abitudini degli italiani stanno cambiando internazionalizzandosi nei gusti e la birra comincia ad attrarre maggiormente soprattutto le giovani generazioni. La società olandese investe molto nel nostro Paese e prosegue nella “campagna acquisti”: dopo Dreher è il turno di Birra Moretti, Ichnusa, la stessa Pedavena, Birra Messina. Gli Anni Ottanta sono poi quelli segnati dalla campagna pubblicitaria con Renzo Arbore testimonial: il suo “Birra… e sai cosa bevi” contribuisce a elevare il consumo pro capite di birra a circa sedici litri annui.
La crescita esponenziale del periodo attira ovviamente i grandi birrifici europei e internazionali: in poco tempo tutte le più grosse aziende italiane cambiano di mano e tricolori resta solo Birra Forst, che nel frattempo ha acquisito la proprietà di Birra Menabrea. È tuttavia proprio negli Anni Ottanta che germoglia il seme dell’ulteriore cambiamento nel mercato birrario nazionale: mentre lo scacchiere si definisce tra acquisizioni, concentrazioni e chiusure e dall’estero fanno il loro ingresso in massa le specialità belghe e britanniche, una nuova generazione di italiani viaggia in Europa, per studio o per svago, e conosce abitudini e stili di vita dei coetanei. Il pub, la brasserie, il biergarten. Luoghi dove passare del tempo in compagnia, tempo e compagnia accompagnati sempre da una birra. È un radicale cambiamento culturale, nel quale la birra assume l’aspetto della bevanda da giovani, che genera il terreno fertile dal quale sarebbero poi nati i primi birrifici artigianali.
La birra artigianale, si dice, ha una data certa di nascita: il 1996. In realtà, i primi tentativi risalgono già alla metà degli Anni Ottanta e di certo un microbirrificio ancora in attività, il laziale Turbacci, può vantarsi di aver aperto le porte fin dal 1995. Ma, certificati di nascita a parte, quello artigianale è il vero big bang della birra in Italia. Non tanto per la crescita dei consumi, che c’è ma difficile dire in quale misura questo si debba attribuire ai microbirrifici, ma sicuramente in termini di moltiplicazione di birre sul mercato e, soprattutto, ampliamento degli stili birrari da offrire al pubblico. Con l’avvento dei piccoli produttori il consumatore italiano inizia a bere birre di frumento, con segale o con farro, inizia a capire che di luppoli ce ne sono centinaia e ognuno ha un profilo aromatico diverso, impara che i lieviti sono la “firma” delle birre e che alcune di queste si affinano in botti di legno come certi vini. Insomma, esce definitivamente dal dualismo “bionda” o “rossa”. I birrai artigiani italiani si fanno apprezzare anche all’estero, vincendo un certo stupore iniziale, e applicano a piene mani quella libertà d’espressione che è da sempre legata alla birra, liquido alcolico meno soggetto a disciplinari e regole varie e, di conseguenza, maggiormente plasmabile dalla volontà del birraio rispetto al vino. Certo, blasone, tradizione e nobiltà appartengono da sessant’anni a questa parte al figlio primigenio dell’uva, ma la birra ha saputo ritagliarsi un suo ruolo, una sua vivacità e un suo futuro anche in un Paese tendenzialmente refrattario come l’Italia. Guardando indietro, all’Italia dei nostri nonni, sembra sia passata un’era geologica e in parte è così se si considera quanto l’offerta, nei locali come sugli scaffali dei supermercati, si sia allargata.
LE BIRRE CHE HANNO SEGNATO UN’EPOCA
D’accordo, che ci siano birre che, per davvero, siano riuscite a segnare un’epoca è forse un concetto un po’ forzato. Ma, presi in considerazione gli ultimi sessant’anni di storia della birra italiana, identificare dei prodotti che, in un qualche modo, si sono distinti dagli altri è possibile. Pensiamo ad esempio alla Nastro Azzurro, birra di punta di casa Peroni il cui nome è un omaggio al premio omonimo che veniva dato alla nave passeggeri che stabiliva il record di velocità tra le due sponde dell’Atlantico (premio vinto dal transatlantico italiano Rex nel 1933). Il premio cessò di esistere nel 1952, la birra nacque nel 1963 ma il suo riconoscimento come birra “segnante” risale all’ultimo ventennio, quando la Nastro Azzurro divenne la birra italiana più diffusa e amata nel Regno Unito grazie a una brillante campagna comunicazionale improntata sull’Italian lifestyle. Fino all’avvento dei microbirrifici, tuttavia, il settore era piuttosto parco di novità: nel 1967 Birra Forst fece debuttare la sua VIP Pils, eccellente interpretazione di quello che è senza dubbio lo stile birrario più diffuso a livello planetario, Birra Moretti produsse La Rossa, bock dalle note morbide di caramello di immediato successo. Tuttavia, come detto, si deve aspettare la metà degli Anni Novanta per il cambio di marcia: agli albori del movimento artigianale nasce infatti la Tipopils del Birrificio Italiano, la birra tricolore oggi più imitata all’estero, nei primi Anni Duemila Teo Musso di Baladin firma la Xyauyu, birra volutamente ossidata che ridefinisce i confini stessi della birra e, nello stesso periodo di tempo, in Sardegna Nicola di Barley produce la prima cotta di BB10, birra con mosto cotto di Cannonau che “accende” il filone di quelle che oggi conosciamo come Italian Grape Ale.