Fragile, delicato e raffinato. La sostenibile bellezza del groppello
Speciali ViniPlus
di Giuseppe Vallone
16 luglio 2023
In passato al groppello è stato assegnato un ruolo di comparsa nella viticoltura della Valtènesi. Poi, però, ha saputo fugare i dubbi, assumere una precisa identità e rivelare una veste di sartoriale eleganza, sobria, fine, che l’ha reso protagonista della sua terra d’elezione
Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 24 Maggio 2023
La Valtènesi, anfiteatro morenico che da Lonato del Garda si allunga fino a Gardone Riviera, è patria di un’uva autoctona, il groppello, così delicata e fragile che chiede di essere accudita e quasi coccolata per dare il meglio di sé. Per conoscerla abbiamo incontrato Paolo Pasini, con i cugini alla guida di Pasini San Giovanni a Raffa di Puegnago e da poco diventato presidente del locale Consorzio, con cui abbiamo passeggiato tra filari di groppello di oltre cinquant’anni. E, qualche ora dopo, ci siamo intrattenuti con Mattia Vezzola, patron di Costaripa a Moniga del Garda, con il quale abbiamo conversato in uno splendido studio le cui pareti sono una teoria ininterrotta di ricordi. Ne è scaturita quella che può definirsi a buon diritto un’ode corale per il groppello.
«La Valtènesi» esordisce Paolo Pasini «è un luogo che ha un figlio agronomico – il groppello, appunto – che, attraverso un metodo codificato alla fine dell’Ottocento, viene trasformato in un vino che si chiama come il territorio». Il metodo è quello che Pompeo Molmenti, senatore veneziano, già sindaco di Moniga del Garda, da vero appassionato di viticoltura perfezionò nel 1896 come tecnica di vinificazione in rosa del groppello: a una delicata pigiatura nelle province di Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, Treviso e nella trentina Val di Non, rimane oggi un allevamento quantitativamente significativo soltanto in Valtènesi. Mattia Vezzola definisce il groppello un’uva «estremamente raffinata e dunque molto fragile». Paolo Pasini gli fa eco aggiungendo che è «per certi versi timida, ha bisogno di tante cure, necessita di essere difeso e protetto». Il groppello, in altri termini, «non è un combattente che mette la lancia in resta, è un vitigno riflessivo, intimo, che va accompagnato». Il groppello gentile e il groppello di Mocasina – detto anche di Santo Stefano -, le due tipologie più diffuse, sono uve a bacca nera dai grappoli cilindrici di medie dimensioni e molto compatti, con acini sferici dalla buccia particolarmente sottile e delicata, pruinosa e dalle sfumature di un blu violaceo. Non è un caso che lungo la sponda occidentale del lago abbiano trovato un terroir d’elezione: la lingua glaciale che milioni di anni fa si mosse nella depressione oggi coperta dall’acqua, ha infatti formato terreni permeabili, sciolti e ricchi di scheletro, composti principalmente da ghiaia e ciottoli. Questi, insieme al particolare microclima caratterizzato dalle miti brezze del lago, consentono alle delle uve fa seguito una breve macerazione a contatto con le bucce, da cui la definizione “vino di una notte” in uso ancora oggi. Una ricetta tramandata per generazioni, rivendicata con orgoglio dal territorio e con un plaudente riscontro del mercato che però, nella sua veste tradizionale, prevede il groppello in uvaggio con marzemino, barbera e sangiovese. Sì, perché, ci dice Paolo, «quando il tuo papà pensa, anche senza fondamento, che tu sia debole fa in modo che ci sia qualcuno che possa aiutarti».
Il “papà” è stato per lungo tempo il viticoltore-tipo della costa bresciana del Garda. Mattia Vezzola, ad esempio, ce ne offre un ricordo piuttosto nitido e per certi versi crudo, dicendoci che «da giovane detestavo il groppello ed ero convinto che non se ne potesse trarre un vino di qualità». La convinzione che il groppello fosse in fondo un’uva non troppo qualitativa e che necessitasse di essere affiancato da uve più estroverse e presenzialiste nasceva dalle sue proprie caratteristiche, che al tempo – fino al finire degli anni Sessanta – non erano ancora state comprese appieno. La conseguenza fu spesso l’espianto a favore di varietà ritenute più qualitative, così che dell’originaria diffusione uve di non soggiacere all’umidità. Certo, in questo la ricerca agronomica è stata dirimente. Tra il finire degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, alcuni produttori della Valtènesi iniziarono a studiare il groppello, con l’intuizione che il suo essere zoppicante potesse in realtà nascondere semplicemente una maggiore necessità di cure. Proprio Vezzola, che da giovane era convinto della «mediocrità del groppello», ebbe modo di convincersi del contrario. Fu una vera e propria epifania, infatti, quando scoprì che «la più prestigiosa enciclopedia di settore dedicava una pagina al groppello». Ce lo racconta sfogliando il terzo volume del Traité General de Viticulture: Ampélographie, una monumentale opera del 1906 curata da Pierre Viala e Victor Vermorel contenente delle splendide tavole cromolitografiche di centinaia di vitigni di tutto il mondo. Aprendo in corrispondenza di un post-it giallo, tra un’immagine del pinot nero e una del merlot, ecco il groppello: «capii in quel momento che non era l’uva ad essere mediocre, era il nostro atteggiamento nei suoi confronti ad essere profondamente sbagliato». L’uva veniva «coltivata e non allevata», mancando dunque di tutte quelle attenzioni che invece erano cruciali per poterne ottenere un vino di qualità. «In quel periodo», riprende Vezzola, «approfittando del fatto che mio padre era oltreoceano, volli dunque provare un ritorno alla viticoltura di inizio ‘900, dimezzando la quantità di uva in pianta e favorendo una maggiore concentrazione nel grappolo. Fu la svolta». Anche la famiglia Pasini iniziò in quegli anni a sperimentare vinificazioni di sole uve groppello. «Ci siamo trovati questo vitigno, delicato e fragile: prima l’abbiamo aiutato – o probabilmente coperto – affiancandolo con altre uve. Poi, però, abbiamo capito che può esprimersi da solo e, per permettergli di farlo, abbiamo iniziato a sottrarre, a eliminare il superfluo». Da allora, la ricerca agronomica e in cantina è stata dunque votata alla migliore espressione del groppello. «Ancora oggi», continua Pasini, «evitiamo che i grappoli siano affastellati, che le gemme siano troppe e pratichiamo una defogliazione che tolga ombra al grappolo, cercando di esporre le uve verso est, così che il sole del mattino possa asciugarle dall’umidità della notte senza scottarle». In cantina, invece, vinificato in rosato, in rosso o addirittura in bianco per farne una base spumante, affinato in clayver, acciaio, legno grande o botti piccole, la mano del produttore si è fatta via via sempre più essenziale e ha permesso al groppello di esaltare definitivamente i suoi intriganti lineamenti, fatti di finezza, di trama sottile, di profumi piccanti di pepe bianco, di una vena acida appena tratteggiata accompagnata da tannini flessibili e da una saporita sapidità. La sfida, oggi, fa rima con il costante surriscaldamento del clima. «I cambiamenti climatici» dice Pasini, «ci stimolano a prevedere un futuro diverso».
Per Vezzola, «se tu adatti la vigna, puoi gestire il cambiamento climatico. Per farlo, è fondamentale avere una storia che aiuti a comprendere e gestire il futuro». Entrambi hanno ben chiara la strada da percorrere: «serve un clone che abbia avuto almeno tre selezioni genetiche che ne abbiano elevato la qualità, una viticoltura – e dunque un’età delle piante – di almeno 35 anni, un allevamento in vigna e una mano in cantina che sappiano essere rispettosi delle esigenze del groppello mano a mano che le stesse muteranno per via del clima». Nel salutarci, Paolo Pasini e Mattia Vezzola ci lasciano un ultimo pensiero. Oggi, dice il primo, «abbiamo il coraggio di raccontare il groppello per com’è: fine, elegantissimo, setoso, di lunga persistenza grazie a sapidità e mineralità, con un corpo “inesistente” e affusolato verso l’alto e una tessitura sottile e lunghissima. Zero peso, tanto carattere». Per Vezzola «il groppello assomiglia a un maglione di cashmere indossato dopo una doccia: tiene caldo e non pesa niente». Sono due definizioni bellissime e complementari. Comunicandolo così, ne siamo convinti, c’è ben poco da aggiungere al groppello. Va soltanto degustato.