Il Collio e il suo lato Orange

Il Collio e il suo lato Orange

Territori
di Anita Croci
06 gennaio 2022

È conosciuta come una delle denominazioni più prestigiose per i vini bianchi, ma è anche patria indiscussa dei cosiddetti vini Orange. Oggi sono diffusi un po’ ovunque, ma sono nati qui, o meglio, è qui che un manipolo di produttori visionari e coraggiosi ha sfidato l’ordine costituito e portato in occidente una tradizione antica dal sapore nuovo

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 21 Novembre 2021

Il Collio è un’area geografica collinare situata nella parte più orientale del Friuli, alla quale corrisponde la relativa DOC, nata nel 1968. Siamo in provincia di Gorizia, per quanto la città ne lambisca appena l’areale, determinato a est dal fiume Isonzo e a ovest dal torrente Judrio, che separa Cormons da San Giovanni al Natisone. Le Valli del Natisone, dorsale meridionale delle Alpi Giulie, si trovano infatti al confine nordoccidentale del Collio, che a sud digrada nella pianura isontina. A nord-est, invece, è il confine di stato a delimitarlo.

COLLIO E BRDA
Se appare semplice e logico osservare un territorio all’interno dei suoi confini naturali, è complicato quando questi vengono tracciati a tavolino. Alla fine della Seconda guerra mondiale, infatti, il Collio si trovò improvvisamente diviso tra la Repubblica italiana e la Repubblica Federativa Jugoslava, dando quindi origine al Collio italiano e al Brda nella parte slovena, con molte aziende agricole che si videro collocati fabbricati e terreni in due Stati diversi, con non pochi problemi burocratici che permangono tuttora. Muovendoci per le strade, oggi che l’UE permette la libera circolazione, nemmeno ci accorgiamo di passare continuamente da uno stato all’altro. Le architetture, le abitudini, la cucina sono gli stessi. Senza contare il multilinguismo del Collio, dove italiano e sloveno sopravvivono reciprocamente con forza accanto ai dialetti locali, segno che un’identità di secolare miscellanea culturale non si può cambiare con la velocità cui si cambiano i colori di una bandiera. La dolcezza del paesaggio stride infatti con la storia tormentata che ha segnato questo territorio di confine, da sempre crocevia delle principali culture europee -latina, germanica e slava- a lungo conteso tra la Casa d’Austria e la Repubblica di Venezia. Furono gli Asburgo ad avere la meglio e per secoli governarono stabilmente su queste terre, determinandone anche i fasti: il Settecento fu un secolo d’oro per Gorizia. Quando il Veneto passò al Regno d’Italia, l’amministrazione imperiale austrica avvertì la pressione delle correnti irredentiste italiane che ambivano ad affrancarsi dal dominio asburgico e iniziò una slavizzazione e germanizzazione del territorio, volta di fatto a disperdere l’etnia italiana. La guerra italo-austriaca fu tra i conflitti principali della Prima guerra mondiale e dopo sanguinose battaglie e avvicendarsi delle dominazioni, vide il territorio in mano all’Italia e a un fascismo che esasperò i rapporti con le popolazioni slave; ma dopo la Seconda guerra mondiale, gli italiani si videro restituite le violenze, le deportazioni e gli esodi inflitti pochi anni prima alla Jugoslavia, cui il Trattato di Parigi aveva assegnato i territori contesi con l’Italia sconfitta, definendo i confini attuali. Gorizia si trovò tagliata in due, con il suo muro (più simbolico che di fatto) dismesso solo quando la Slovenia è entrata nell’Unione Europea, nel 2004. Da allora si è potuto riprendere un dialogo a sostegno di quel legame, spezzato solo a livello governativo, provando a formare un polo di sviluppo unico del territorio. Un esempio, la candidatura congiunta del Brda/ Collio/Cuei (in friulano) a sito patrimonio mondiale dell’Unesco, presentata nel 2017 e oggi pronta a entrare nella tentative list, volta a tutelare un patrimonio paesaggistico, agricolo e culturale comune, fortemente identitario, unico e prezioso.

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VITICOLTURA E TERRITORIO
Morbide colline scandite da piccoli borghi, dove i castelli e le chiese, le vigne e i boschi dialogano ordinati, punteggiati da ulivi e alberi da frutto. Dove non sorprende il trionfo della biodiversità, per un popolo abituato dalla storia a percepire le differenze come una ricchezza, né il profondo rispetto per la natura, intima conseguenza del legame così sofferto e così radicato con la propria terra, da preservare come parte di sé. La viticoltura è l’elemento determinante di questo paesaggio. Diffusa ben prima dell’epoca romana, prosegue florida sotto i Longobardi e il patriarcato aquileiese, ma si sviluppa soprattutto tra il Settecento e l’Ottocento, con il perfezionamento dei terrazzamenti (i ronchi) e l’introduzione di uve francesi e tedesche. I vini del Collio sono richiesti ovunque, dai Dogi di Venezia allo Zar di Russia ai sovrani dell’Impero austroungarico. Una fortuna minata purtroppo dall’avvento della fillossera e dalla Grande Guerra, quando le battaglie sull’Isonzo distrussero ogni cosa, compresi i terrazzamenti vitati. A Oslavia, oggi famosissima per la viticoltura ma che fu tra le zone più colpite, la vigna più antica è del 1922.

Una tradizione vitivinicola di successo può alimentarsi per millenni solo quando il dna del territorio è davvero vocato e in questo il Collio presenta caratteristiche davvero invidiabili. A partire dalla sua conformazione: una sequenza di colline che si sviluppano quasi ininterrottamente lungo la direttrice est ovest, dando corpo ad ampie superfici felicemente esposte al sole. Dal punto di vista climatico, la cerchia delle Prealpi Giulie ripara dai freddi venti del nord e la prossimità della costa adriatica favorisce la persistenza di un microclima temperato, con il fenomeno della riflessione solare sul vicino mare, che determina anche un aumento dell’insolazione. Le piogge sono ben distribuite nell’arco dell’anno, creando una riserva idrica nelle falde superficiali, mentre la ventilazione costante contribuisce alla naturale salubrità delle uve. Pedologicamente, i terreni sono di natura flyshoide. Si tratta di marne ed arenarie stratificate di origine eocenica e paleocenica portate in superficie dal sollevamento dei fondali marini, che sotto l’azione degli agenti atmosferici si disgregano facilmente, originando un substrato ideale per la viticoltura: la ponca. La Doc Collio comprende oggi circa 1600 ettari vitati, con una forte prevalenza di uve a bacca bianca. Vini bianchi, quindi, spesso meravigliosamente dorati. Oppure orange.

GRAVNER E L’AVVENTO DEGLI ORANGE WINE
Il termine fu coniato nel 2004 dall’importatore inglese David A. Harvey, ma gli Orange Wine nascono alcuni anni prima, quando un produttore di Oslavia, Joško Gravner, incontra la tradizione georgiana e la fa propria. Prima del Gravner che conosciamo ce n’è stato un altro e la sua storia sembra la parabola della viticoltura contemporanea, scossa nei suoi dogmi da esigenze di maggiore etica e autenticità. Il giovane Joško, forte dei propri studi, aveva portato nella cantina paterna tutta la migliore modernità del tempo: serbatoi di acciaio termocondizionati, barrique, additivi, vitigni internazionali. Siamo a cavallo tra gli ’80 e i 90’ e i suoi vini perfetti per la moda del tempo hanno grande successo. Nel giro di pochi anni però la sua visione cambia radicalmente, dopo l’esperienza in California di vini massificati e costruiti e quella antitetica in Georgia, alle origini della vinificazione. La tremenda grandinata del 1996 che distrugge gran parte del vigneto è il punto da cui ripartire. Dalla Georgia arrivano le prime anfore in terracotta e iniziano le prime lunghe macerazioni pellicolari; non cambia solo la vinificazione, ma tutto è un ritorno alle origini e alla natura che l’uomo deve guidare, curare e servire in uno scambio virtuoso. Qualcuno potrebbe pensare che Gravner in fondo non abbia inventato nulla, perché i vini macerati sono sempre stati i vini dei contadini – che ne traevano alimento – o che abbia semplicemente importato quel che già si praticava in Georgia. Non dimentichiamoci però che i vini degli anni Novanta erano quanto di più lontano possibile dai “vini naturali” cui i nostri moderni palati sono ormai avvezzi: erano vini tecnici, spesso costruiti, e i bianchi rispondevano a uno stile massivo e codificato, dissetante e senza pensieri. Anche la Georgia vinicola di allora aveva accantonato le anfore, che sopravvivevano solo nelle cantine famigliari, abbracciando i vitigni internazionali e la più spinta modernità, produttiva e quantitativa. Affrontare il mercato con qualcosa di radicalmente diverso fu un azzardo da veri visionari. Lo stesso Gravner confessò di aver pianto quando, all’esordio dei suoi “nuovi” vini giudicati incomprensibili, la critica lo diede per spacciato. Lo scetticismo iniziale della stampa non poteva comunque arginare la corrente in cui il pensiero di Gravner era maturato: un gruppo di produttori, a lui più vicini per prossimità e per sentire, uniti dall’esigenza di un rapporto più intimo con la terra e con i suoi frutti, che in questo stile di vinificazione trovavano adesso un interprete comune. Stanko Radikon, Dario Prinčič, Nicolò Bensa di La Castellada, furono i primi a sperimentare con Gravner; e ancora Damijan Podveršič – il discepolo prediletto- Evangelos Paraschos, tutti raccolti in un fazzoletto intorno a Oslavia; ma anche Valter Mlečnik, nel Collio sloveno, fino a raggiungere il Carso per diffondersi nel giro di pochi anni in tutta la penisola e oltre, con risultati spesso entusiasmanti. Non per tutti: molti ne hanno solo cavalcato la moda, un po’ con il dolo dell’opportunità commerciale e un po’ con la leggerezza di una generica naturalità del processo produttivo, con risultati sgraziati e omologanti; una tendenza per fortuna in regressione.

CHE COSA SONO GLI ORANGE WINE?
Sono vini ottenuti da uve bianche per le quali non si procede a una vinificazione “in bianco” separando subito il mosto dalle vinacce; queste vengono invece lasciate a macerare per un tempo variabile da alcuni giorni a diversi mesi, talvolta anni. La macerazione permette alle bucce di rilasciare pigmenti, tannini e una complessa gamma aromatica, che caratterizzeranno quindi l’aspetto cromatico dei vini e soprattutto il loro profilo sensoriale. Per quanto tutti vini di stile macerativo vengano considerati Orange Wine, un’interpretazione più restrittiva vuole che questi debbano mostrare astringenza e struttura, che possono derivare solo da macerazioni importanti, non adatte a tutte le uve. Ora occorre più di una precisazione. La prima è che gli Orange non sono necessariamente arancioni. Lo stesso Gravner preferisce definire i propri vini ambrati; l’aspetto dipende da molte variabili, quindi non focalizziamoci sul colore: questi vini devono rappresentare un’esperienza gusto olfattiva più che cromatica. La seconda, che macerato non significa necessariamente ossidato; la macerazione può infatti essere svolta in ambiente riduttivo o ossidativo, e produrrà vini più ambrati nel primo caso, più spiccatamente aranciati nel secondo. La terza, che l’utilizzo dell’anfora per la vinificazione è una possibilità ma non la regola; al pari del legno, del cemento o dell’acciaio. Da ultimo, che non si tratta necessariamente di vini “naturali”, per quanto di norma facciano coppia con una filosofia vitivinicola non interventista, affine ai dettami del biologico e del biodinamico, e accomunati dalla pratica delle fermentazioni spontanee e dell’uso pressoché nullo di solforosa. Questo perché il lavoro dei lieviti indigeni è favorito dalla presenza delle bucce nel mosto, le quali inoltre rilasciano tannini e antociani che sono dei conservanti e antiossidanti naturali, permettendo di ridurre – per qualcuno eliminare – l’addizione di anidride solforosa.

I VITIGNI “ORANGE”
Nel Collio le uve principali sono il pinot grigio, il friulano e la ribolla gialla; per quanto anche sauvignon e chardonnay siano abbastanza diffusi e concorrano nella produzione di vini macerati, principalmente in uvaggio, protagonisti dello stile orange nel Collio sono certamente i primi tre. La ribolla è un vitigno autoctono fortemente identitario, interprete eccellente delle caratteristiche pedologiche del territorio per profondità e ricchezza minerale, cui abbina ottima freschezza, struttura e un potenziale tannico da vino rosso, quando sottoposta a lunghe macerazioni. Friulano e pinot grigio hanno invece bucce più sottili, non particolarmente ricche di tannini, dove la macerazione apporta un corpo più morbido e un’aromaticità di norma più incline alle declinazioni fruttate. Vitigni, tempi di macerazione, vinificazioni: le variabili che incontreremo nei vini macerati saranno molte. Di certo si tratta di vini diversi dai bianchi tradizionali e rispetto ai quali si prestano – talvolta esigono – affinamenti medi o lunghi, temperature di servizio più elevate, calici diversi, talvolta la decantazione. A tavola non temono la ricca cucina friulana: la jota, il frico, il musèt e brovade, i cjalçons, i deliziosi salumi, le frittate alle erbe, e offrono un validissimo soccorso anche ai più difficili abbinamenti delle cucine orientali.