L’aglianico del Vulture tra storia e re-generation

L’aglianico del Vulture tra storia e re-generation

Territori
di Anita Croci
18 giugno 2022

Con il suo carattere nobile e fortemente identitario, l’Aglianico del Vulture è un perfetto viatico per superare lo scoglio ancora pionieristico verso lo “scrigno” Basilicata, che racchiude un patrimonio enogastronomico, culturale e naturalistico di enorme valore

Tratto da Viniplus di Lombardia - N° 22 Maggio 2022

Potremmo serenamente abdicare l’epiteto di Barolo del sud, tra l’altro attribuito all’aglianico indistintamente dal Vulture al Taurasi al Taburno, perché il paragone non piace a nessuno dei rispettivi campanilismi, giustamente fieri ciascuno della propria identità. Lo evochiamo solo di sfuggita, al solo fine di evidenziare da subito anche ai meno pratici della materia aglianico, quale nobile argomento andiamo ad affrontare. Perché, se il riferimento piemontese ha fama e profilo consolidati ovunque nel mondo si parli di vino, più confusione si fa con l’aglianico e con le sue produzioni campane e lucana, significativamente diverse tra loro per aspetti ambientali e culturali. Le denominazioni di riferimento per il vitigno sono infatti tre: in Campania, le Docg Taurasi e Aglianico del Taburno, rispettivamente in Irpinia e nel beneventano; in Basilicata, la Doc Aglianico del Vulture, che nella versione Superiore si avvale della Docg.

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Il territorio, l’ambiente, il clima

Il Vulture è un vulcano spento che si trova a nord della regione, in provincia di Potenza. Il nome deriva dal latino vultur, perché la sua sagoma vista da sud ricorda il profilo di un avvoltoio chino su una preda; la zona era infatti storicamente ricca di rapaci. La prima, esplosiva eruzione avvenne circa 800.000 anni fa, provocando il collasso della parete ovest, dove oggi troviamo i due bellissimi laghi di Monticchio, uno dei “Luoghi del cuore” FAI. Il Lago Piccolo ‒ dominato dall’Abbazia benedettina di San Michele, sede del Museo di storia naturale del Vulture ‒ occupa il cratere del vulcano e viene alimentato da acque sorgive, calde e ricche di sali minerali, che per lieve differenza altimetrica convogliano nella depressione creata dal collasso, formando il Lago Grande.

Le eruzioni sono continuate a fasi alterne fino al Pleistocene superiore, circa 130.000 anni fa: un periodo piuttosto recente in termini geologici; è facile intuirne la portata sulle caratteristiche pedologiche del territorio. Complessità e varietà dei suoli si rivelano semplicemente percorrendo le strade che si intersecano sulle propaggini collinari del vulcano e mostrano continue stratificazioni, diverse nel colore e nell’aspetto: dal rosso e blu dei composti ferrici e ferrosi al giallo sulfureo dei lapilli, dal grigio delle ceneri alla bianchezza del calcare; dagli strati più lisci e compatti di lava o ceneri a quelli più granulosi dei depositi piroclastici. L’attività vulcanica non solo ha modificato continuamente la morfologia del territorio creando, sbarrando e ricoprendo corsi d’acqua, ma ha anche portato in superficie materiale di origine marina, determinando la formazione di tufi basaltici e arenari, importante riserva idrica per la vite, che beneficia anche dell’abbondanza di oligoelementi di origine vulcanica, come fosforo e potassio. La viticoltura si sviluppa sulle pendici e propaggini orientali e sud-orientali del Vulture, tra i 700 e i 200 metri slm; al di sotto di queste quote i seminativi, più in alto i boschi di castagni. I comuni di Atella, Barile, Ginestra, Melfi, Rapolla, Rionero in Vulture e Ripacandida sono i più prossimi e rientrano nel Parco Naturale Regionale del Vulture; molte cantine qui sono ricavate nella parete vulcanica e offrono una naturale regolazione igrotermica, oltre a un enorme fascino.

Più distanti, Maschito, Forenza, Acerenza, Venosa, Lavello, Palazzo San Gervasio, Banzi e Genzano di Lucania, diversamente caratterizzati da zone di alta e bassa collina. Il Vulture, con i suoi 1327 metri, determina un clima di tipo continentale e a tratti subalpino, con influenze mediterranee solo nelle zone più basse. Contiene le perturbazioni, che tipicamente arrivano dal fronte tirrenico; regola le precipitazioni, abbondanti nel periodo autunno-primaverile; genera brezze, importanti per l’escursione termica giorno-notte nei mesi più caldi e perché contribuiscono alla sanità delle uve, aspetto significativo per un vitigno come l’aglianico che si raccoglie alla fine di ottobre.

Il vitigno

Fu introdotto dai Greci nelle colonie dell’Italia meridionale, rimasta il suo bacino produttivo. Controversa l’origine del nome: da ellenico, con storpiatura della pronuncia nel periodo di dominazione aragonese, o dal termine greco agleukinosicos “vino privo di glucosio”, appaiono etimologie tanto semplicistiche quanto poco accreditate. È tardivo nella maturazione, che ne determina la finezza aromatica, come nel germogliamento, che lo preserva da qualche tardiva ‒ non infrequente ‒ nevicata e dalle gelate primaverili. È caratterizzato da acini piccoli e buccia consistente di colore blu scuro; facile desumerne l’abbondanza di polifenoli, che nel vino si traducono in densità cromatica e consistente dotazione tannica. L’aglianico domina incontrastato il vigneto del Vulture; lo affiancano solo in minima parte uve bianche aromatiche, impiantate nel Dopoguerra, meno diffusi i non aromatici, perlopiù di identità campana.

Il vino

La denominazione è stata riconosciuta nel 1971 e oggi conta circa 200 ettari, 2 milioni di bottiglie e 40 imbottigliatori; più difficile invece identificare i numeri fuori dalla Doc, dove resiste una significativa vendita di vino sfuso. Nel 2010 viene attribuita la Docg al Superiore, che prevede anche la tipologia Riserva e impone l’uso del legno per la maturazione. Dal 2011 sono riconosciute ben 70 MGA, ancora non così frequenti in etichetta; la tradizione vuole infatti un assemblaggio tra le diverse vigne per praticità, per equilibrio, ma anche perché la valorizzazione del cru costituisce un approccio moderno per il vino italiano. Per quanto l’aglianico offra interessanti risultati nella vinificazione in bianco e in rosato, queste sono escluse dal disciplinare, che ammette solo il vino rosso. La Doc è rimasta invece aperta alla versione spumante ‒ anch’esso rosso ‒ rifermentato in bottiglia, retaggio di una produzione di successo di inizio Novecento. Tuttavia, è indubbio che, quando parliamo di Aglianico del Vulture, il pensiero si focalizzi su un vino rosso fermo. Non pensiamo però allo stereotipo di vino del sud, opulente e mediterraneo: non è questo il clima, e l’Aglianico del Vulture trova la sua chiave di lettura nella finezza minerale più che nell’esuberanza del frutto e nella freschezza più che nella potenza, con notevole variabilità espressiva a seconda della molteplicità di combinazioni pedologiche, colturali ed enologiche. Se resistono esempi di approccio più facile e materico, non scordiamo che fino a poco tempo fa i vini “barricati” e la richiesta nordeuropea di morbidezza avevano un certo peso sul mercato internazionale. Per comprendere la situazione attuale occorre allargare lo sguardo nello spazio e nel tempo, all’intera Basilicata e al suo passato. Perché la consapevolezza di un territorio non si crea in poco tempo.

Tra storia e attualità

La Basilicata ha vissuto sempre di pastorizia e di una primitiva e dispersa agricoltura, mantenendo a lungo i caratteri di un’antica società rurale, che in parte ancora conserva. A fine Ottocento, gli esponenti della classe politica post-unitaria rilevano l’ingente patrimonio ecclesiastico e nobiliare, ma l’eversione dal feudalesimo al latifondismo resta una sconfitta per le tendenze democratiche risorgimentali, perché di fatto la condizione dei contadini non migliora. La borghesia si è infatti indebitata per l’acquisto delle terre e continua a sfruttarli; il seminativo aumenta a dismisura e di conseguenza il disboscamento, impoverendo ulteriormente di legname e bacche i più poveri. La politica si accorge della questione meridionale e della necessità di operare investimenti, distratta però dalle guerre in Libia e dal primo conflitto mondiale. La situazione peggiora ulteriormente con il fascismo fino a far esplodere nel periodo post-bellico le lotte contadine; si giunge quindi alla riforma agraria, che determina il riscatto contadino dal giogo latifondista, ma anche una parcellizzazione fondiaria. La riforma però avvenne contemporaneamente al boom dell’industria e del terziario, che rappresentavano nuovi modelli sia economici che sociali e determinarono la desertificazione della provincia interna e la concentrazione urbana, a grave svantaggio dell’agricoltura, che dagli anni Sessanta a fine secolo ha visto un’esponenziale marginalizzazione. Se l’inversione di tendenza a livello nazionale è un fenomeno che si osserva da tempo, per alcune zone più interne questo avviene con maggiore fatica. In questo contesto difficile, il Vulture ha sempre potuto contare sull’eccellenza del proprio vino.

La viticoltura nel territorio ha storia millenaria, come dimostrano i reperti archeologici e gli scritti di numerose autorevoli fonti latine, tra cui Orazio, nativo di Venosa. A inizio Novecento l’Azimonti, “agronomo meridionalista” lombardo, suddivise la Lucania in quattro aeree identificando “la Lucania felice: l’angolo vulcanico del Vulture, tutto a vigneti, oliveti, frutteti”. Dall’autoconsumo all’uso ecclesiastico, il vino era divenuto oggetto di un’economia sempre più florida, dai mercati di Napoli e Foggia fino al nord e all’enorme successo riscosso all’esposizione universale di Milano del 1906. Non dimentichiamo che, grazie al sostanziale isolamento, la fillossera nel Vulture arrivò ben più tardi e in modo meno impattante che altrove ‒ grazie alle sabbie vulcaniche ‒ e la regione poté continuare a fornire vino là dove la produzione era venuta a mancare. La polverizzazione fondiaria del dopoguerra e l’organizzazione prevalentemente famigliare delle aziende agricole portarono alla nascita delle realtà sociali, che andarono ad affiancarsi ad alcune aziende vinicole storiche, alcune delle quali sono rimaste tra i nomi più importanti della denominazione. Determinante nell’ultimo ventennio è stato il programma di sviluppo promosso dall’Unione Europea, a sostegno di un’economia agricola di equilibrio volta a migliorare la qualità della vita nelle aree rurali e a un approccio sostenibile nell’uso delle risorse, in termini ambientali e di responsabilità sociale. È in questo contesto che matura una nuova generazione di imprenditori, perlopiù figli o nipoti di vignaioli, che raccolgono il coraggio e soprattutto le risorse mancate alle loro precedenti generazioni. Sono fortemente legati alla propria terra e cresciuti già nella consapevolezza di un ecosistema fragile, che può essere tutelato solo promuovendo e valorizzando l’intero contesto. Il vino si carica quindi di una valenza più ampia e diventa simbolo di quella sostenibilità ad ampio raggio, che attraverso qualità e identità di un prodotto può affermare la storia e sostenere la contemporaneità di un intero territorio, ricco di eccellenze gastronomiche, naturali e culturali, tutte da scoprire.